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L’epoca dei riti tristi
Manuel Belli

L’epoca dei riti tristi

Prezzo di copertina: Euro 16,00 Prezzo scontato: Euro 15,20
Collana: Nuovi saggi 101
ISBN: 978-88-399-1061-5
Formato: 12 x 20 cm
Pagine: 240
© 2021

In breve

«Forse non sappiamo più andare a messa perché non siamo più abilitati a vivere riti complessi che celebrano la salvezza. Forse questo “cambiamento d’epoca”, come lo definisce papa Francesco, è un’epoca che cambia i riti che fanno la vita» (Manuel Belli).

Descrizione

L’intera esistenza umana è costellata di riti. Viaggiare, mangiare, stringere amicizie, amare, educare, curare, divertirsi, giocare: ogni atto umano genera le proprie forme rituali. I riti, tuttavia, non sono camere blindate: si influenzano a vicenda, si scambiano messaggi. La qualità generale di vita di una famiglia non è separabile dai riti con cui si vivono i pasti, la casa e il suo ménage, il tempo libero, le vacanze. E, così, quando partecipo ai riti religiosi in chiesa sono lo stesso che guarda YouTube, che viaggia con Ryanair, che ha conosciuto il partner su Tinder, che scarica musica e la ascolta con le cuffiette mentre cammina, che alla vigilia di Ognissanti vede comparire teschi e zucche nei negozi.
Ora, la domanda è: i riti “fuori dalla chiesa” contaminano in qualche modo i riti “dentro la chiesa”? Tra i riti religiosi e gli altri riti esiste un tale divario nella densità di significato e nell’intensità di gioia da impedire l’osmosi? Belli vorrebbe sondare queste interazioni cruciali. Se viviamo in un’epoca di riti tristi, infatti, quale sarà il destino della liturgia?

Recensioni

Ci sono libri che approfondiscono piste già battute da altri e libri che ne aprono di nuove. L'epoca dei riti tristi appartiene chiaramente alla seconda categoria, perché raccoglie la sfida di affrontare un tema antropologico fondamentale – la ritualità nell'esperienza umana – abbinando un approccio teologicamente robusto con uno stile comunicativo immediato, spesso corredato da esempi e spunti ricavati dall'esperienza pastorale dell'A.

Manuel Belli (classe 1982), giovane docente di Teologia dei sacramenti presso la Scuola di teologia del Seminario di Bergamo, ha già all'attivo alcune pubblicazioni sul rapporto tra la fenomenologia francese e la teologia dei sacramenti. In questo saggio, però, abbandona la scrittura più accademica (senza perderne il rigore) per dedicarsi a una narrazione più fluida.

Il titolo del volume richiama direttamente il noto saggio di Gérard Schmit e Miguel Benasayag del 2003 (L'epoca delle passioni tristi), declinato in relazione alla modalità postmoderna di vivere i riti di passaggio, sia sacramentali che esistenziali. I tredici agili capitoli di questo testo (il quattordicesimo è dedicato alle faq) affrontano con leggerezza e ironia – a parte alcuni passaggi più "tecnici'' – i principali ambiti della ritualità umana: nutrirsi, laurearsi, viaggiare, il rapporto tra alimentazione e celebrazione eucaristica, l'ascolto della musica, il tempo della noia, le relazioni amorose. La tesi di fondo è che «tra i riti liturgici e i riti profani c'è una consonanza di fondo» (p. 199), perché ciò che le accomuna è l'umano nella sua relazione costitutiva con il divino, per cui vita, Scrittura e liturgia esprimono sempre la stessa cosa.

In una breve clip di presentazione del volume, caricata su Facebook, l'A. ha esplicitamente dichiarato che questo volume l'ha scritto per se stesso, perché gli "mancava un pezzo" nel pensare il rapporto tra teologia e scienze umane. In effetti, il saggio muove in una direzione promettente, nel giusto compromesso tra rigore argomentativo e abilità narrativa. La tristezza (e una certa stanchezza, verrebbe da aggiungere) della ritualità cattolica nel nostro tempo dipende anzitutto da un eccesso di spiegazioni: «Abbiamo sottodeterminato l'eccesso dell'azione sul pensiero e abbiamo risposto alla crisi dei riti con la ricerca di un grado maggiore di esplicitazioni, pensando che a una maggiore chiarezza concettuale corrispondesse immediatamente una maggiore competenza nell'agire liturgico» (p. 9).

Il risultato, osserva Belli, è sotto gli occhi di tutti ed è piuttosto deludente, perché le spiegazioni non fanno che aumentare la percezione della distanza tra il rito e la vita, un po' come quando si visita un museo o un sito archeologico e c'è bisogno di una guida per" decodificare" il significato dei reperti. Al contrario – ed è questa l'intuizione che anima e attraversa il saggio di Belli –, «tra i riti religiosi e i riti profani il legame è molto stretto, perché ambedue condividono il medesimo luogo istitutivo, ossia l'umanità dell'uomo» (p. 14). L'intuizione si collega alla celebre distinzione di Maurice Blondel tra l'azione voluta e l'azione volente, per cui l'agire comporta sempre un di più rispetto a ciò che viene solo pensato.

La conclusione del saggio è un invito a non separare le ritualità religiose dalle forme del vivere. Occorre riscoprire il nesso costitutivo tra creazione e rivelazione attraverso una nuova "sapienza" del vivere umano, che superi la tristezza e la sterilità delle forme consumistiche dei riti postmoderni: «Abbiamo bisogno di riscoprire un approccio sapienziale ai riti costitutivi dell'umanità, abbiamo bisogno di vedere il Creatore dentro le pieghe dell'umanità» (p. 228).


S. Didonè, in Studia Patavina 1/2023, 200-201

Tutta la nostra giornata è connotata da molteplici ritualità. È un dato di fatto asseverato da molteplici discipline umanistiche e scientifiche. Gli studi sono numerosi e di spessore. Possiamo tranquillamente affermare che i riti sono parte costitutiva del nostro essere. Il teologo Manuel Belli, prete youtuberdella diocesi di Bergamo, parte da questo convincimento. Possiamo esserne anche persuasi, ma non con lo stesso modo di intenderlo. Infatti c'è chi intende il rito come una ripetizione dell'atto di fede, come una imprescindibile sua espressione e necessaria celebrazione. Ma c'è anche chi pratica il rito come fonte e motivo della propria fede in un'esperienza che radica nella ritualità la persistenza e il senso della fede.

Su quest'ultimo versante ancora molta della teologia contemporanea dissente o esercita prudenti distinguo. Perché risulta untantino ostico farsi convinti e sperimentare la celebrazione dei riti come fonte della fede, un'azione decisiva per la fede. Èdifficile ancora mantenere in equilibrio i due versanti della riflessione sul rito. Inuna forma semplice e chiara così il noto teologo della liturgia Giorgio Bonaccorso riassume e puntualizza: «La chiesa celebra perché crede, ma, ugualmente, crede perché celebra». Non v'è dialettica, quindi, né alternativa, ma la complessa dinamica dell'esperienza religiosa. Per la nostra razionalità siamo portati a ritenere (episteme)che ciò che pensiamo, sentiamo e viviamo preceda e sia la condizione di possibilità dell'agire rituale e di ogni altra espressione/comunicazione. Ciò che so e credo istituisce e garantisce ciò che dico e attuo. In realtà, l'esperienza è un tantino diversa, appunto perché esperienza... la celebrazione liturgica è cruciale e determinante ogni comprensione e coscienza credente.

Il discorso andrebbe più articolato, ma basta in questa sede per evidenziare il paradigma che regge tutta la riflessione dell'autore in questo testo. Il titolo, poi, riecheggiando il libro di Miguel Benasayag e Gérard Schtnit L'epoca delle passioni tristi (Feltrinelli 2007; or. 2003), dichiara la semantica della tristezza che l'autore tematizza. Belli, quindi, docente di sacramentaria, parte dalla liturgia e dalle celebrazioni che la costellano per riflettere a tutto campo sulla loro condizione attuale (tristi ritualità) per comprenderne le ragioni nella speranza che da queste riflessioni possano scaturire delle piste per migliorare la qualità rituale delle nostre celebrazioni e quindi la qualità della fede e della vita di fede. Non possiamo che semplificare, purtroppo.

Il libro è interessante, intrigante, a volte effervescente. Scritto bene e chiaramente. La semplicità del linguaggio, tuttavia, lascia trapelare la complessità del pensiero teologico e filosofico che lo sostiene e la più avvertita teologia liturgica che lo modella. Perché questa è un'«epoca dei riti tristi»? Anche perché nessuno decide di essere triste, ma ci troviamo a esserlo.

Sarebbe da tornare e rileggere l'Evangelii gaudium di papa Francesco e la sua riflessione sulle «tristezze» contemporanee. E se i riti sono parte costitutiva del nostro essere non possono non essere segnati da tale tristezza: tutti. Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie, esplosioni di violenza, forme di intolleranza, radicamento di egoismi, pratica abituale della guerra non danno respiro e non danno speranza: non c'è senso, meglio star bene e gratificarsi oggi cercando di ritualizzare, appunto, l'effimero e il precario per spremerne briciole di una gioia dentro un mare di tristezza. Ma lo stile triste resta. In questo contesto che ne è della ritualità ecclesiale? Che ne è della proposta liturgica della chiesa?

Evidentemente dentro e fuori la chiesa tutti i riti non possono non riflettere la condizione dei partecipanti; per cui pare non esserci divario tra la tristezza degli uni e la gioia delle celebrazioni cristiane. È dentro questa intersezione che l'autore scandisce la sua riflessione (più una serie di considerazioni che un'indagine) nei dodici capitoli che spaziano dal mangiare (cap. 2) all'amare (cap. 12), dalla domenica (cap. 3) ad Halloween (cap. 4), dalla musica (cap. 6) alla noia (cap. 9),dalle processioni (cap. 10) alla laurea (cap. 5), dal presepe e la croce (cap. 7) alla giovinezza (cap. 8). Lo sguardo del liturgista scorre dalla liturgia alla società/cultura, avanti e indietro, nel tentativo di comprendere come possa diventare possibile che la gioia che (tutti) i riti cristiani celebrano possa performare e «confondere» la tristezza di quest'epoca, che è tristezza anche dei cristiani (un vuoto interiore che non lascia scampo alla fede).

Questa parte centrale del libro èintrodotta dal primo capitolo (pp. 5-20), e conclusa da due capitoli importanti per discernere precisamente la specificità della liturgia cristiana (cap. 13) e il guadagno che da essa deriva per le questioni trattate (cap. 14). Il lettore che cercasse nel libro (anche poche) risposte alle odierne criticità del celebrare cristiano resterebbe deluso. D'altra parte sta in buona compagnia tra i libri che trattano tali questioni (tantissime buone teorie tra infeconde se non afasiche proposte pratiche). Va da sé che il celebrare è essenzialmente agire: si fa, prima e più che pensarlo, si partecipa prima e più che parlarne.

Quindi ha ragione l'autore quando dice che «a volte èimportante abitare i problemi prima di risolverli» (p. 215). Inciò un plauso e il motivo per cui ci sentiamo di suggerirlo per la lettura e la discussione nei gruppi liturgici e nei centri di formazione del clero e dei religiosi, ma anche a quei «ferventi cristiani» che in liturgia ne sanno sempre una più del prete.


D. Passarin, in CredereOggi 2/2022, 185-187

Écrit juste avant le début de la pandémie causée par la Covid-19, cet ouvrage est d’une brûlante actualité. Constatant l’absentéisme croissant dans les assemblées liturgiques qui n’attirent plus, Manuel Belli, prêtre de Bergame et enseignant en théologie sacramentelle, en voit la cause dans la tristesse des rites (chap. 1).

Pour résoudre cette question anthropologique, qui est posée ici pour un pays, l’Italie, où le passage aux nouveaux rites sacramentels s’est fait sans tensions à première vue, mais pas sans conséquences pour la vie pastorale, il commence par interroger le rapport de l’homme contemporain à la nourriture et ose demander si on ne vit pas « une anorexie ou une boulimie eucharistique » (chap. 2), en proposant de mieux préparer notre habilitation et notre disposition à recevoir la nourriture eucharistique (p. 38). Il s’interroge ensuite sur la crise du dimanche (chap. 3), puis sur la bataille (perdue) d’Halloween (chap. 4), et la perception de la liturgie comme une satisfaction de soi (« la multiplication des couronnes de laurier », chap. 5), alors que la liturgie n’est pas une expérience du monde (cf. Lacoste) mais un ensemble de symboles (Chauvet).

Vient alors une étude sur la piètre qualité de la musique liturgique (chap. 6) et quelques remèdes : prendre conscience du répertoire à notre disposition ; chanter : comment chante-t-on dans notre église ? ; écouter : la musique est pour tous ; composer, c’est-à-dire travailler la formation musicale dans nos communautés (p. 104-105).

Arrive un débat sur la crèche et la passion, lieux de la religiosité populaire en Italie, qui devrait nous faire quitter nos liturgies trop conceptuelles (chap. 7). D’autres questions qui fâchent : quelle place donnons-nous aux jeunes dans l’église (chap. 8. On se rappellera le titre du livre : quel jeune voudra une liturgie « triste » ?) ; pourquoi s’ennuie-t-on à la messe ? (chap. 9). L’A. interroge aussi les « nouveaux rites de voyage » avec la facilité de prendre l’avion aujourd’hui, où se manifeste une symbolique du mouvement qu’on retrouve dans la procession liturgique (chap. 10). La révolution informatique (chap. 11) ouvre à la réflexion sur la « nudité de la parole ». L’époque de Tinder (application de rencontres amoureuses) provoque aussi à revoir la liturgie comme mystère d’alliance (chap. 12).

Enfin, et comme une surprise après tous ces constats pessimistes, l’A. propose quelques « notes provisoires pour des rituels heureux » (chap. 13). L’homme est un être rituel. Il faut le prendre comme il est. Il faut aller jusqu’à une « catéchèse expériencelle » qui dépasse la doctrine et n’oublie cependant pas le kérygme (chap. 14). Le dernier mot est donné à Guardini, pour que les rites expriment l’intériorité pour la vivifier. On pourra interroger l’A. sur la place que prend la relation au Christ dans la liturgie qu’il souhaite instaurer : la notion de corps du Christ pourrait sans doute être plus développée. Un ouvrage stimulant, donc, qui ose remettre en cause bien des traditions établies dans nos fonctionnements liturgiques, ou du moins des habitudes formalistes dont il convient de se débarrasser au plus vite pour retrouver le sens du rite : non pas triste mais joyeux de la rencontre avec le Dieu vivant.


A. Massie, in Nouvelle Revue Theologique 144/2 (2022) 328

La nostra non è solo l’epoca delle passioni tristi, come hanno denunciato in un saggio divenuto famoso Michel Benasayag e Gérard Schmit, ma anche dei riti tristi: è questo il parere di Manuel Belli, teologo e sacerdote della diocesi di Bergamo, che in un denso volume (intitolato appunto L’epoca dei riti tristi, Queriniana, pagine 228, euro 16,00), applica lo schema dei due psicoterapeuti alla liturgia della Chiesa cattolica. Il discorso riguarda in particolare la celebrazione della Messa domenicale, spesso contrassegnata da banalità e sciatteria se si pensa alle omelie, e tutte le altre le funzioni, dai battesimi ai matrimoni ai funerali, ma in generale tocca alcune questioni oggi vitali per il cattolicesimo italiano: come rendere la fede affascinante per i giovani e come innervare di forme di cultura cristiana una società postmoderna che sembra sempre più restia a farsi contaminare?

Giustamente l’analisi parte da alcuni dati inconfutabili: i ragazzi che dichiarano di frequentare la chiesa una volta alla settimana – secondo una recente indagine dell’Istituto Toniolo – sono poco più del 10 per cento, molti lo fanno in maniera del tutto occasionale, una o qualche volta durante l’anno (il 20%), mentre il 25% non vi partecipa mai. A livello complessivo, il fatto rilevante è che non solo diminuisce chi si definisce cattolico, «ma per la prima volta nella storia la maggioranza di chi si riconosce cattolico non partecipa ai riti». Dinanzi a cifre che testimoniano come la secolarizzazione continui a galoppare a vele spiegate, sarebbe un errore irrigidirsi invocando un ritorno al passato e condannando sic et simpliciter il nuovo che avanza. Si tratta innanzitutto, per l’autore, di essere consapevoli del cambiamento e di immergervisi: «I riti religiosi hanno un’altissima densità di senso, così alta che sembra non essere supportata dalla capacità rituale della nostra epoca. Ma non è un problema degli altari o dei confessionali: è una questione più estesa. Viviamo un’epoca di riti tristi caratterizzati da basse densità di significati».

Così, Manuel Belli prova a prendere in esame alcune esperienze di base della ritualità, dal mangiare al viaggiare, dall’ascoltare musica all’uso di internet, dal giocare al lavorare sino alle relazioni amorose. Il tutto per far capire come, se l’approccio dominante sembra caratterizzato dalla provvisorietà e dall’occasionalità, ci possono essere modalità di intervento da parte dei credenti che aiutino ad andare oltre una prospettiva di corta durata. Urto e ozio, per quanto paradossali, sono allora due parole chiave. Urto sta per capacità di tornare a provocare come fece Paolo all’Areopago: «Non abbiamo stretto troppi compromessi, per cui l’ideale del cristiano è troppo simile a quello di un bravo ragazzo pieno di valori? Dovremmo forse recuperare una dimensione di urto? Non violento e polemico, ma profetico». Ozio invece sta per fare spazio al silenzio e al raccoglimento, quello che nel caso del gioco dei bambini è il tempo della noia da cui scaturiscono nuove modalità di divertimento.

Così può essere anche per gli adulti: avere momenti di pausa e meditazione può accendere la fantasia e stimolare nuove esperienze positive. Ma come detto situazioni quali i riti del viaggio all’epoca di Ryanair o dell’amore all’epoca di Tinder interrogano i cristiani: «Che il postmoderno sia un periodo dove si è contemporaneamente ovunque e non si è mai da nessuna parte ha risvolti liturgici»: come rendere i pellegrinaggi o le processioni forme autentiche e non sclerotizzate? E quando le relazioni amorose sono perlopiù occasionali o virtuali, come stimolare i ragazzi all’idea del «camminare insieme sfidando il tempo e azzardando un “per sempre”?». L’autore non ha risposte preconfezionate dinanzi a queste nuove sfide: l’invito è prima di tutto a conoscere la realtà in mutamento e, per quanto riguarda la liturgia, a curare i tempi di ascolto della Parola, a creare possibilità di approfondimento e tempi di contemplazione: «Le analisi sociologiche, le tecniche psicologiche e le tattiche animative possono essere utili, ma ogni servizio nella Chiesa è tale quando la sua sintesi è spirituale e contemplativa».

Come ha ben scritto al riguardo il fondatore della comunità di Bose Enzo Bianchi, «una liturgia bella non può essere definita una “bella funzione”, ma deve essere compresa come liturgia munita di quella bellezza che fa apparire la grazia di Dio». Inutile andare in cerca di aggiunte, decorazioni, ornamenti o pizzi. né fasto né ieraticità servono all’uopo: la bellezza della liturgia non si esaurisce in una suggestione estetica. Così, può essere egualmente bella, se celebrata con convinzione e serietà, una funzione «in una sperduta parrocchia di un paesino di montagna, cui partecipa un gruppetto di persone anziane, quanto la liturgia di una comunità monastica o di una cappella papale».


R. Righetto, in Avvenire 12 ottobre 2021

Docente di Teologia dei sacramenti a Bergamo, don Manuel Belli affronta la crisi della partecipazione alla Messa collegandola con quella perdita di una ritualità gioiosa che contraddistingue i nostri anni. La nostra vita è fatta di riti e, scrive, «tra i riti religiosi e i riti profani il legame è molto stretto, perché ambedue condividono il medesimo luogo istitutivo, ossia l'umanità dell'uomo». Ma i riti "fuori dalla chiesa" pesano sui riti "dentro la chiesa"? Perché «se viviamo in un'epoca di riti tristi, quale sarà il destino della liturgia?».
In Jesus 8/2021, 94

Manuel Belli ci offre un ossimoro: un testo piacevole e sconfortante, un saggio leggero su temi insoliti ed insieme un robustissimo nucleo di teologia liturgica fondamentale. Ossimorico nel tono e nella struttura, L’epoca dei riti tristi è un saggio appassionante, dalla lettura estremamente scorrevole e dalla riflessione lineare e curiosa, quasi scanzonata in alcune sue pagine. Eppure appunto, come ben annunciato dal titolo e dalla premessa (p. 4), si tratta di un esercizio sulla tristezza. Composto in gran parte durante il primo lockdown, da un teologo della città più provata d’Europa dal virus, questo libro non parla quasi mai della pandemia.

L’eco di Benasayag e Schmit (e di Spinoza) sulla malattia del desiderio, riconoscibile sin dal titolo, conduce a un itinerario necessario e un po’ sconfortante sull’ammalarsi conseguente della ritualità contemporanea. «Se mangiamo sempre da soli cibo spazzatura, se non siamo capaci di esprimere amore, se non abbiamo accesso a buone fonti di informazioni, se non sappiamo gestire i nostri tempi liberi, se viaggiamo male o in modo compulsivo, la nostra esistenza si ingrigisce: a riti tristi corrisponde un’esistenza triste, a riti felici corrisponde un’esistenza felice» (p.13).

Che cosa avviene se l’umanità immersa in una pervasiva ritualità a basso contenuto di gioia viene a contatto con la ritualità cristiana, strutturata nel tempo con un’altissima prospettiva di senso? Belli conduce il lettore a verificare come l’attuale stagione del movimento liturgico debba giocarsi proprio a questo livello. Non nelle pratiche ecclesiali logore di spiegazione, istruzione o manipolazione dei rituali, quanto nella cura del salto tra pratiche a bassa densità di significato e sacramenti che invece presumono una struttura antropologica ben diversa.

I temi attraversati sono curiosi: il mangiare (tra All you can eat e eucaristia), il tempo festivo (tra precetto e tempo perso), il morire (tra Halloween e l’arte d’esser fragili), i riti della laurea, la consumazione di musica, l’identità culturale ed i suoi segni, la questione giovanile e la noia, il muoversi (tra Ryanair e le processioni), la rivoluzione digitale e la Parola, il costruire l’amore (tra Tinder e il sacramento). Il saggio si conclude con un piccolo esercizio di teologia liturgica davvero pregevole (pp. 199-214), ma risulta ancora più significativo per le tante domande che lascia aperte nel lettore. Un esercizio tristemente necessario, felicemente condiviso.


M. Gallo, in Rivista di Pastorale Liturgica 4/2021, 77

Siamo circondati dai riti: il fatto stesso di andare a divertirsi in un locale, di giocare o di stringere amicizie è condizionato da una necessaria ritualità. Questi riti «fuori dalla Chiesa» quanto influenzano quelli che si svolgono da secoli «dentro la Chiesa»? Esiste tra di essi un’osmosi? A queste domande risponde l’a., docente di Teologia dei sacramenti, ponendosi un ulteriore quesito: se viviamo in un’epoca in cui prevalgono i riti tristi, quale sarà il destino della liturgia?

Indubbiamente tra riti religiosi e riti profani c’è uno strettissimo legame. I primi posseggono un’altissima densità di senso, mentre i secondi mostrano di esserne deficitari: come scrive lo stesso Belli, «un uomo che mangia in modo triste è esistenzialmente distante dal banchetto nuziale dell’Agnello».
D. Segna, in Il Regno Attualità 8/2021, 235

Se alla Chiesa rimangono solo i riti liturgici, mi chiedo quale sarà la sua incidenza sociale, culturale, antropologica nell’oggi e nel futuro. Anch’io – come l’Autore di questo testo e tanti altri sacerdoti – mi sono ritrovato a celebrare da solo nel pieno lockdown a causa del Covid-19. La gente cercava la Messa. Coloro che si dichiarano atei chiedevano che ai propri cari (papà, mamma, fratelli, ecc.) morti per Covid da soli, in una stanza e poi nell’obitorio dove non si poteva entrare, fosse data degna sepoltura.
Il rito della morte, le esequie, sta consegnando un’inedita vita alla Chiesa di oggi.
Ho letto con attenzione questo testo edito con Queriniana e scritto da don Manuel Belli, sacerdote della diocesi di Bergamo e che vede nella liturgia il suo centro di studio, insegnando teologia dei sacramenti.
È un testo da non passare troppo velocemente nello scaffale, ma da tenere sulla scrivania, sottolinearlo nelle parti che maggiormente chiamano in causa chi lo legge. Perché l’Autore prende spunto dai riti liturgici per poi esplorare il vasto paniere di riti e ritualità di cui è nutrito il nostro vivere quotidiano.
«Un’epoca che cambia – scrive l’Autore – significa che cambiano i riti che fanno la vita. Ciò che queste pagine non vorrebbero essere è una condanna senza appello dei nostri giorni: la tecnologia ci permette cose incredibili, ma non è detto che siamo più felici».
Il testo è strutturato in 13 capitoli più un appendice delle FAQ (le domande frequenti, note alle quali l’Autore accenna una risposta):
1° L’epoca dei riti tristi?
2° Quando il cibo diventa buono?
3° La domenica andando a Messa.
4° La battaglia persa di Halloween.
5° La moltiplicazione delle corone d’alloro.
6° Musica da scaricare.
7° Presepe, crocifisso e polemica.
8° Quant’è bella giovinezza che non fugge mai.
9° Mi annoio.
10. Viaggiare all’epoca di Ryaner.
11. La rivoluzione informatica.
12. Tinder, ovvero come ti cambio l’amore.
13. Provvisori appunti per riti felici.
Invito a soffermarsi particolarmente sul capitolo 13°, quando l’Autore si domanda e chiede di domandarsi: «Visto che più nessuno si mette ad ascoltare uno che parla, perché non usare la multimedialità durante l’omelia? Visto che siamo sempre di più on line e sempre meno in presenza a che scopo insistere sulla convocazione dell’assemblea?».
Auspico che questo testo favorisca la riflessione tra sacerdoti, tra laici e aiuti ad avviare decisioni che maturano nel qui e ora della storia, senza lasciarsi prendere dalla sirene di ieri e di quelle futuristiche. Il discernere ha i piedi nel reale. Sempre.


G. Ruggeri, in Recensionedilibri.it 13 aprile 2021

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