Tutta la nostra giornata è connotata da molteplici ritualità. È un dato di fatto asseverato da molteplici discipline umanistiche e scientifiche. Gli studi sono numerosi e di spessore. Possiamo tranquillamente affermare che i riti sono parte costitutiva del nostro essere. Il teologo Manuel Belli, prete youtuberdella diocesi di Bergamo, parte da questo convincimento. Possiamo esserne anche persuasi, ma non con lo stesso modo di intenderlo. Infatti c'è chi intende il rito come una ripetizione dell'atto di fede, come una imprescindibile sua espressione e necessaria celebrazione. Ma c'è anche chi pratica il rito come fonte e motivo della propria fede in un'esperienza che radica nella ritualità la persistenza e il senso della fede.
Su quest'ultimo versante ancora molta della teologia contemporanea dissente o esercita prudenti distinguo. Perché risulta untantino ostico farsi convinti e sperimentare la celebrazione dei riti come fonte della fede, un'azione decisiva per la fede. Èdifficile ancora mantenere in equilibrio i due versanti della riflessione sul rito. Inuna forma semplice e chiara così il noto teologo della liturgia Giorgio Bonaccorso riassume e puntualizza: «La chiesa celebra perché crede, ma, ugualmente, crede perché celebra». Non v'è dialettica, quindi, né alternativa, ma la complessa dinamica dell'esperienza religiosa. Per la nostra razionalità siamo portati a ritenere (episteme)che ciò che pensiamo, sentiamo e viviamo preceda e sia la condizione di possibilità dell'agire rituale e di ogni altra espressione/comunicazione. Ciò che so e credo istituisce e garantisce ciò che dico e attuo. In realtà, l'esperienza è un tantino diversa, appunto perché esperienza... la celebrazione liturgica è cruciale e determinante ogni comprensione e coscienza credente.
Il discorso andrebbe più articolato, ma basta in questa sede per evidenziare il paradigma che regge tutta la riflessione dell'autore in questo testo. Il titolo, poi, riecheggiando il libro di Miguel Benasayag e Gérard Schtnit L'epoca delle passioni tristi (Feltrinelli 2007; or. 2003), dichiara la semantica della tristezza che l'autore tematizza. Belli, quindi, docente di sacramentaria, parte dalla liturgia e dalle celebrazioni che la costellano per riflettere a tutto campo sulla loro condizione attuale (tristi ritualità) per comprenderne le ragioni nella speranza che da queste riflessioni possano scaturire delle piste per migliorare la qualità rituale delle nostre celebrazioni e quindi la qualità della fede e della vita di fede. Non possiamo che semplificare, purtroppo.
Il libro è interessante, intrigante, a volte effervescente. Scritto bene e chiaramente. La semplicità del linguaggio, tuttavia, lascia trapelare la complessità del pensiero teologico e filosofico che lo sostiene e la più avvertita teologia liturgica che lo modella. Perché questa è un'«epoca dei riti tristi»? Anche perché nessuno decide di essere triste, ma ci troviamo a esserlo.
Sarebbe da tornare e rileggere l'Evangelii gaudium di papa Francesco e la sua riflessione sulle «tristezze» contemporanee. E se i riti sono parte costitutiva del nostro essere non possono non essere segnati da tale tristezza: tutti. Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie, esplosioni di violenza, forme di intolleranza, radicamento di egoismi, pratica abituale della guerra non danno respiro e non danno speranza: non c'è senso, meglio star bene e gratificarsi oggi cercando di ritualizzare, appunto, l'effimero e il precario per spremerne briciole di una gioia dentro un mare di tristezza. Ma lo stile triste resta. In questo contesto che ne è della ritualità ecclesiale? Che ne è della proposta liturgica della chiesa?
Evidentemente dentro e fuori la chiesa tutti i riti non possono non riflettere la condizione dei partecipanti; per cui pare non esserci divario tra la tristezza degli uni e la gioia delle celebrazioni cristiane. È dentro questa intersezione che l'autore scandisce la sua riflessione (più una serie di considerazioni che un'indagine) nei dodici capitoli che spaziano dal mangiare (cap. 2) all'amare (cap. 12), dalla domenica (cap. 3) ad Halloween (cap. 4), dalla musica (cap. 6) alla noia (cap. 9),dalle processioni (cap. 10) alla laurea (cap. 5), dal presepe e la croce (cap. 7) alla giovinezza (cap. 8). Lo sguardo del liturgista scorre dalla liturgia alla società/cultura, avanti e indietro, nel tentativo di comprendere come possa diventare possibile che la gioia che (tutti) i riti cristiani celebrano possa performare e «confondere» la tristezza di quest'epoca, che è tristezza anche dei cristiani (un vuoto interiore che non lascia scampo alla fede).
Questa parte centrale del libro èintrodotta dal primo capitolo (pp. 5-20), e conclusa da due capitoli importanti per discernere precisamente la specificità della liturgia cristiana (cap. 13) e il guadagno che da essa deriva per le questioni trattate (cap. 14). Il lettore che cercasse nel libro (anche poche) risposte alle odierne criticità del celebrare cristiano resterebbe deluso. D'altra parte sta in buona compagnia tra i libri che trattano tali questioni (tantissime buone teorie tra infeconde se non afasiche proposte pratiche). Va da sé che il celebrare è essenzialmente agire: si fa, prima e più che pensarlo, si partecipa prima e più che parlarne.
Quindi ha ragione l'autore quando dice che «a volte èimportante abitare i problemi prima di risolverli» (p. 215). Inciò un plauso e il motivo per cui ci sentiamo di suggerirlo per la lettura e la discussione nei gruppi liturgici e nei centri di formazione del clero e dei religiosi, ma anche a quei «ferventi cristiani» che in liturgia ne sanno sempre una più del prete.
D. Passarin, in
CredereOggi 2/2022, 185-187