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La bellezza della metafisica
Jean Grondin

La bellezza della metafisica

Saggio sui suoi pilastri ermeneutici

Prezzo di copertina: Euro 19,00 Prezzo scontato: Euro 18,00
Collana: Giornale di teologia 441
ISBN: 978-88-399-3441-3
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 176
Titolo originale: La beauté de la métaphysique. Essai sur ses piliers herméneutiques
© 2022

In breve

La filosofia è metafisica nel momento stesso in cui ha qualcosa da dire sulla realtà nel suo insieme, dunque sul suo ordine, sulla sua bellezza, sulle sue ragioni e sull’intelligenza di colui che interpreta la realtà e si sforza di comprenderla.

Descrizione

E se la metafisica fosse il più grande beneficio della storia dell’umanità?
La metafisica si basa su un’esperienza semplicissima e sconcertante: quella dell’infinita bellezza del mondo che si impone alla nostra intelligenza, malgrado il male, la sofferenza e l’assurdo in cui ci imbattiamo di continuo e che suscitano la nostra indignazione solo perché l’aspettativa metafisica è predominante. L’idea alla base della metafisica è che questa bellezza ha una ragione. Scoprendo la bellezza delle cose, la cui contemplazione fa la nostra felicità, e riconoscendo una dignità all’umano, che a quella bellezza partecipa nella sua capacità di trascendenza, la metafisica ci procura delle ragioni per vivere e sperare, realizzando quindi la finalità della filosofia stessa. Ogni filosofia o è metafisica, o è triste poiché non lo è.
In quest’opera Grondin propone una rinfrescante ermeneutica e attuazione del pensiero metafisico, che va di pari passo con una concezione metafisica dell’ermeneutica stessa.

Recensioni

L’esito di una buona parte del pensiero del Novecento è critico verso i grandi sistemi metafisici del passato che si sono proposti per comprendere e interpretare il mondo. Mancando dei requisiti necessari per giustificarsi e della possibilità di offrirsi alla ricerca scientifìca, la metafisica è stata considerata da molti superflua, oppure violenta nella sua pretesa di verità. Sembra in effetti esserci una incomprensione di fondo tra il pensiero metafisico, generalmente inteso, le scienze naturali e la filosofia contemporanea che l’A. del saggio, illustre filosofo canadese (n. 1955), intende denunciare e superare, oltre i pregiudizi nominalistici comunemente diffusi, oltre il materialismo e oltre i tentativi riduzionisti di un certo scientismo. In realtà siamo tutti metafisici e «c’è della metafisica in tutto ciò che facciamo» (p. 5).

La metafisica nasce all’interno della filosofia greca come aspirazione alla comprensione piena della realtà cui poter dare senso e significato. La tesi di Grondin è che si possono anche criticare i molti tentativi fatti, ma non la ricerca metafisica in quanto tale che si basa su dei pilastri difficilmente attaccabili (ontologico, teologico e antropologico). Tali pilastri si basano innanzitutto sull’evidenza dell’ordine e dell’armonia del cosmo, cioè su ciò che i greci indicavano con il termine bellezza e con il termine bontà; bello e buono, infatti, coincidono. Per Grondin la storia della filosofia è sì una storia di metafisiche in lotta tra loro, ma tutte rispondenti all’esigenza naturale per l’uomo di giungere a una conoscenza certa, epistemica, a una conoscenza che spieghi il senso della vita, ne colga la finalità e l’orizzonte di significato e indichi l’agire morale per conseguirlo. Perciò la metafisica è la radice dell’albero, come insegnava Cartesio: «ogni metafisica è lo sforzo della nostra ragione per capire e per comunicare questa esperienza del senso delle cose. Scoprendo questo senso e questa bellezza del mondo, la nostra ragione ci dà, per ciò stesso, delle ragioni per vivere» (p. 80).

La questione del male è una questione seria che interpella molte teorie e visioni del mondo, filosofiche e teologiche. La sua esistenza è argomento spesso ripreso per negare un valore alla riflessione metafisica a causa della contraddizione tra la sua esistenza e un presunto ordine bello/buono del mondo. In realtà non è così ed è dunque possibile una specie di "metafìsicodicea" che l’A. propone.

La protesta contro il male nel mondo nasce anche da una sensibilità rancorosa che è tutta moderna essendo assente nel pensiero degli antichi, ben più propensi ad accettare il destino naturale che tutto presiede e saggio è chi impara a regolarsi sulla natura. In un contesto secolarizzato, la perdita della speranza ispirata dalla religione ha acuito oggi il problema.

Nonostante tutto, ancora oggi l’uomo è un animale contemplativo, siamo esseri che vivono di contemplazione. Oggi l’ideale contemplativo sembra però essere in declino per la mentalità contemporanea, perché esso non produce nulla. I greci invece distinguevano la contemplazione dalla produttività; Agostino, inoltre, invitava a fare della contemplazione una questione esclusivamente divina: Dio va contemplato, non il mondo; per lui «il perseguimento del sapere teorico, per il solo amore del sapere, rientrerebbe nell'ambito della vana curiositas»(p. 118). Così il mondo si fa oggetto di carità, non di contemplazione. Questo deficit di contemplazione deve essere oggi assolutamente colmato. Grondin pensa di poterlo fare recuperando insieme la sensibilità metafisica del passato e quella ermeneutica della contemporaneità: un matrimonio possibile. Metafisica ed ermeneutica sembrano non poter andare d’accordo, essendo la prima fondata su principi certi e universali e la seconda sulla loro storicità. Per l’A. ciò avviene però solo nel caso di una radicalizzazione dei due termini e propone un avvicinamento che prenda il via dalla riflessione di Leibnitz.

Infatti, con Heidegger, l’interpretazione/comprensione del mondo è un qualcosa di costitutivo, di esistenziale, nell’uomo che risponde alla sua identità di essere gettato, tesi che Gadamer, allievo di Heidegger e fondatore dell’ermeneutica contemporanea, riprende. In tal senso si possono anche giustificare e integrare le varie possibili interpretazioni del mondo, e Leibnitz anticipa Gadamer. Per questo, secondo l’A., «nessuno dei grandi pensatori dell’ermeneutica chiude veramente la porta alla metafisica» (p. 141). E qui proprio la metafisica di Leibnitz può essere adottata.

L’ultimo capitolo tocca il tema chiave della filosofia contemporanea che riguarda l’esito dello storicismo, che per molti consiste nella relativizzazione della verità, cioè nel prospettivismo. In realtà «la speranza di Gadamer era veramente quella di mostrare in che cosa un’esperienza di verità vincolante restava possibile dopo lo storicismo» (p. 148), dato che lo storicismo finisce effettivamente per relativizzare ogni forma di verità. Per Gadamer, sostiene l’A., la verità è storica, ma anche trascende la storia, essa è «una verità che resiste al relativismo della coscienza storica» (p. 150), è la verità colta dalle scienze dello spirito, la cui forma è vincolante. La via tracciata, e tutta da pensare e approfondire, riprende così l’asserto che «la verità metafisica è ermeneutica per lo stesso motivo per cui la verità ermeneutica è metafisica» (p. 156). In ogni caso l’A. è convinto che metafisica ed ermeneutica siano i due nomi di una filosofia capace oggi di rilanciare il tema suo più proprio, quello della verità; parafrasando Kant: «una metafisica senza ermeneutica è cieca e una ermeneutica senza metafisica è vuota» (p. 161).

Il testo è semplice e divulgativo, rigoroso, ma senza troppi tecnicismi; esso pone al centro una riflessione di grande importanza in un tempo di pensiero debole postmoderno, rilanciando la centralità che la tradizione filosofica aveva pure assegnato da sempre alla metafisica. Sfrondata da sciocche incomprensioni, essa può recuperare quel ruolo che le spetta nel dibattito contemporaneo: è questo lo scopo del saggio. La via indicata dall’A. integra la metafisica classica con l’ermeneutica; Ricoeur, cui I’A. ha anche dedicato un saggio, integra l’ermeneutica con la fenomenologia. Vari sono i percorsi possibili e praticabili. Merito comunque di Grondin è di averne richiamato la necessità e l’essenzialità.


A. Sartori, in Studia Patavina 1/2024, 133-135

Dopo il saggio su L’ermeneutica (2012) l’editrice ci presenta, sempre dello stesso autore, anche questo saggio sulla «bellezza della metafisica» (2022), che in definitiva riprende e sviluppa una convinzione già espressa allora: pur nella sua pluralità l’ermeneutica può entrare in dialogo con la metafisica dove la domanda di senso permane radicale nonostante le sue derive razionaliste e oggettivanti, che l’hanno posta da tempo in uno stato di crisi.

Grondin studia da sempre e conosce sia la metafisica che l’ermeneutica ed è convinto che solo per un malinteso reciproco le due “filosofie” non entrino in dialogo. La metafisica non esiste senza ermeneutica e viceversa, e insieme esprimono al meglio lo sforzo filosofico fondamentale dell’uomo. «La verità è che una metafisica senza ermeneutica è cieca e un’ermeneutica senza metafisica è vuota» (p. 161, ma in questa direzione sono vergate anche le pp. 123-146). Siamo esseri di comprensione, dice l’ermeneutica; il desiderio di comprendere, l’interrogazione sul senso (ragione o intelligenza) sta alla base di ogni metafisica latente (come direbbe Gadamer) riflessa o implicita («premetafisica», come dice qui Grondin, pp.5-13) che sia.

Nel saggio l’autore esplicita come la metafisica si fonda su alcuni «pilastri» declinabili in base all’intenzione volta sul senso del reale (pilastro ontologico) o volta sulle ragioni dell’essere o del principio (arche) (pilastro “teologico”) o su quelle dell’interrogante che si scopre capace di comprendere e autocomprensdersi con la ratio (pilastro antropologico) (cf. pp.15-65).

Sono pilastri che poggiano sulla bellezza (eidos che non va inteso come un concetto, ma come ciò che è), spiega Grondin (pp. 38-65); esperienza che conduce alla percezione dell’ordine nell’universo delle cose (qui l’autore recupera il concetto e l’esperienza della contemplazione, pp. 99-122) e all’intelligenza del bene («e il male?» poi si chiede Grondin, pp. 81-98).

Ma oggi è impossibile fare metafisica senza tener conto della storicità nell’esperienza della verità; e qui l’autore apre un particolare confronto con Gadamer (pp. 147-156). Il saggio, pertanto, merita attenzione e lettura non per la sua valenza speculativa (nulla di nuovo vi si trova per chi bazzica filosofia e teologia), ma per la sua facilità e semplicità nel far scoprire al lettore che la metafisica serve, eccome! Aiuta a vivere nella concretezza e nella realtà delle cose così come oggi si cerca di fare (quanti hanno ancora paura della metafisica?).

E la teologia? Certo, potrebbe star bene anche senza metafisica, ma gli esiti non sono dei migliori (basta guardarsi attorno). Ma una teologia priva dell’orizzonte metafisico non può offrire un affondo a quel mistero della fede che altrimenti resterebbe (come accade a certuni “indirizzi” spirituali) prerogativa di esperienze soggettive e la ricerca e la pratica della verità non un “ascolto” della rivelazione e della tradizione ma un dibattimento concordante. Non solo. Ma nel momento in cui si prende a carico la (nuova) evangelizzazione, spesso è anche la “metafisica” (in quanto esprime la ricerca della verità) una piattaforma essenziale per un dialogo efficace con tutti. I tentativi ancora in corso in alcune teologie di riferirsi (in parte o in tutto) a modelli di pensiero a-metafisici, è la ragione spesso della loro inefficacia.

Un potenziamento (aggiornato) e un’apertura alla metafisica risultano necessari. L’autore – filosofo canadese con studi di teologia a Tübingen – non è l’ultimo a tener desta l’istanza metafisica per oggi, che sottotraccia per una temperie culturalmente aliena a questi discorsi (Grondin querela in particolare il nominalismo e l’utilitarismo), riesce a interessare non solo la teologia, ma anche la filosofia perché inevitabile e necessario (urgente per tutti) è quell’itinerario del pensiero che spinge dal fenomeno al fondamento (direbbe la Fides set ratio), dal «questo qui» al suo connaturato «oltre» (si direbbe con Florenskij) come dettagliatamente ci dimostra anche Cacciari nel suo recente Metafisica concreta.

Riflettendo sulle esperienze esistenziali di ciascuno, la filosofia non ingaggia dimostrazioni, ma affronta ermeneutiche nel tentativo di comprendere quello stupore abissale (come direbbe Wittgenstein) che accende la contemplazione (dice qui Grondin, pp. 99-122). Ingaggia continue dimostrazioni, invece, la scienza con le sue domande e le sue risposte e la sua storia. E a ragione. Ma essa si fa ridicola e deforme quando “per ciò” nega la possibilità e la pertinenza (come domanda insensata o illusione) della ratio metafisica, perché (sbadatamente?) essa stessa non la elimina, ma la genera come domanda di senso (che è sempre, anche se ci ostiniamo nel negarlo, un atto “religioso”, ci direbbe Scheler).

La scienza, fintantoché rimane rigorosamente nei suoi spazi, non ha mai potuto e mai potrà rifiutare la metafisica senza far danno a se stessa. Chi lo ha fatto, invece, sono stati importanti “movimenti” di natura filosofica. Ma questo è un altro discorso. Certamente, dopo Kant e Cartesio, dice Grondin (pp. 66-80), la metafisica va “restaurata” un pochino (uno che ci ha provato sul versante fenomenologico è Marion, ma anche su altri registri Zambrano); perché anche con la metafisica non bisogna eccedere ed è necessario rigorizzare le terminologie se vogliamo farla uscire dalla sua inefficacia storica!

Quindi, anche le discipline STEM (le scienze dure, esatte, oltre alle scienze naturali e a quelle socio-psicologiche) “costringono” a porre domande per loro stesse inspiegabili. Restano lì, insondate. Indicibili? No, dice la metafisica; si deve cercare di rispondere anche se scarse possono ritenersi le soluzioni. È l’orizzonte incontrovertibile della metafisica, che si fa sintassi (la ricerca di un senso compiuto o altrimenti determinabile come “verità”) di ogni senso e di ogni significato, ma che a sua volta ha un senso appunto perché e in quanto è la persona tutta a esservi coinvolta.

Qui andrebbe tematizzato quel nesso tra verità e persona che tanto oggi dà da pensare sulla sua possibilità. Ma anche questo è un altro discorso. In ogni caso, è necessario e urgente oggi prendere coscienza della necessità della metafisica, aiutando a scoprirne, come fa Grondin, la sua portata concreta e pratica nel mentre spinge alla vita, al bello e al bene.


D. Passarin, in CredereOggi 4/2024, 148-150

Il saggio di Jean Grondin, filosofo canadese e autorevole studioso di Kant, Heidegger e Gadamer, costituisce un’appassionata riflessione sull’attualità della metafisica e sui suoi fecondi rapporti con la tradizione ermeneutica. Le pagine conclusive del volume, oltre a ribadire che «una metafisica senza ermeneutica è cieca e un’ermeneutica senza metafisica è vuota» (161), rivolgono al lettore un accorato appello alla speranza perché la ricerca di senso – per quanto travagliata possa essere – consente di «intravedere che la vita su questo astro errante vale la pena di essere vissuta» (162).

In un’epoca in cui la metafisica rischia di essere confinata tra i saperi inattuali, Grondin ha il merito di non identificarla come astratta riflessione sull’aldilà con il conseguente rischio di convalidare un’impostazione marcatamente dualistica. La metafisica è intesa come ricerca del senso dell’intero ed è riconosciuta come tensione insopprimibile del pensiero: essa «è lo sforzo vigile del pensiero umano di capire l’insieme della realtà e le sue ragioni. Il suo obiettivo può essere focalizzato ora sul reale nel suo insieme (e allora assume una piega ontologica); ora sul principio o sulle ragioni del reale (e allora diviene più teologico); ora su colui che si sforza di capire il reale – il che gli procura un fondamento antropologico» (15).

La distinzione tra premetafisica e metafisica consente all’A. di affermare che, prima ancora di elaborare una metafisica esplicita, si presuppone sempre un implicito e inconsapevole orientamento teorico nei riguardi della ricerca di senso. Nonostante il predominio di una visione nominalistica e utilitaristica che caratterizza la cultura contemporanea, la domanda sul senso non può essere elusa nemmeno dai detrattori della metafisica perché «l’uomo – capace di andare al fondo delle cose e di intervenire nel loro corso quando è insensato – è un animale metafisico ed ermeneutico» (32). Tale condizione non può essere annullata nemmeno dalle critiche all’ideale contemplativo e dal mito del fare e del produrre che misura il senso di ogni conoscenza in base al suo apporto al profitto.

Con un sorprendente recupero dello êidos platonico, il fondamento della metafisica è identificato con la bellezza in cui si rivela l’ordine del cosmo con il suo ineliminabile rimando al bene e alla finalità: «Il bello è ciò che manifesta una finalità perfetta, in cui non manca nulla (hikanón) e in cui tutto sembra essere stato concepito per una ragione» (47). L’idea, infatti, non è un concetto, una mera costruzione intellettuale, ma è qualcosa che si può vedere e «vedere qualcosa è sempre, per un homo sapiens, vedere, e sapere, ciò che essa è» (51), riconoscendo la sua immanenza nel sensibile e, al tempo stesso, il suo rimando al trascendente. L’esperienza trascendente del bello dà da pensare che il mondo sia regolato da un “principio” del bello e non da un cieco caso fortuito. Anche la scienza continua a far scoprire l’ordine, la bellezza e il senso delle cose. Persino le obiezioni antimetafisiche che sostengono l’incompatibilità del male e della bellezza/bontà del mondo confermano che l’aspettativa metafisica occupa un posto centrale, altrimenti non vi sarebbe indignazione di fronte alla tragicità del non-senso.

Contestando quanti hanno ridotto l’ermeneutica ad espressione della crisi dei fondamenti e al conseguente abbandono di ogni interesse metafisico, Grondin – valorizzando l’eredità leibniziana – sostiene che l’ermeneutica «non può non incontrare la metafisica» e che la metafisica è il «compimento del pensiero ermeneutico» (123). Accogliendo pienamente la tesi di Gadamer secondo cui «fenomenologia, ermeneutica e metafisica non sono tre diversi punti di vista filosofici, ma espressione di quello che è la filosofia stessa» (143), l’A. propone un’interpretazione di ampio respiro del noto assioma gadameriano secondo cui «l’essere che può venire compreso è linguaggio». Grondin contesta la pretesa di quanti tendono a dissolvere la ricerca metafisica in una pura manifestazione linguistica e restituisce all’ermeneutica di Gadamer l’intrinseco spessore metafisico.

L’essere è comprensibile, mai in modo definitivo e statico, ma attraverso il processo della storia che è sorretto da un’anticipazione di perfezione, ossia dal rimando infinito ad una compiuta unità di senso. La dimensione storica non è incompatibile con la ricerca e con la manifestazione della verità ma ne costituisce il luogo di dinamica e multiforme realizzazione. Ed è così che acquista ampio spazio anche il “privilegio della coscienza storica” così caro all’ermeneutica gadameriana: «Questa storicità significa sicuramente una limitazione per ogni metafisica che vorrebbe presentarsi come una fondazione ultima o come l’ultima metafisica che esista. Ma chi ci dice che la sorte della metafisica sia legata a quella di una fondazione definitiva, “garantita sotto tutti gli aspetti”, come se si trattasse di una verità matematica?» (156).

L’esercizio del dialogo costituisce la chiave fondamentale per aprirsi al riconoscimento del vero e del bene che, per quanto mai disgiungibili dall’esperienza umana della precarietà, si realizzano e si lasciano riconoscere nella capacità di comprensione che sorregge la ricerca di ogni uomo. In un’epoca contrassegnata dal culto del “post” (post-filosofia, post-metafisica, post-modernità…), l’insistenza sulla fusione di orizzonti che sussiste tra ermeneutica e metafisica costituisce un interessante e salutare recupero della ricchezza e della originalità della tradizione occidentale.

Da questo punto di vista, in dialogo con la riflessione proposta da Grondin, si potrebbe ulteriormente sottolineare la rilevanza della svolta della modernità. Grondin, almeno in parte, si colloca in questa direzione soprattutto quando valorizza lo spessore metafisico della svolta cartesiana: la filosofia è intesa come un albero alle cui radici si pone la metafisica, la fisica ne costituisce il tronco, le altre scienze i rami (cf I principi della filosofia). Ci sarebbe da chiedersi, però, se non sia ancora più decisivo il passo compiuto da Cartesio nell’attribuire un ruolo centrale al soggetto e alla sua autocomprensione. Più che nel porre la metafisica alla base delle scienze, l’eredità più consistente e più originale della modernità, a mio avviso, consiste nella centralità accordata al soggetto e all’analisi del dinamismo intenzionale. Una metafisica critica, accogliendo la lezione kantiana del metodo trascendentale al di là della nota tesi dell’impossibilità della metafisica come scienza, ha la sua radice proprio nell’esercizio del dinamismo intenzionale del soggetto che è già di per sé metafisica latente (e non semplicemente premetafisica nel senso di preliminare visione del mondo) – come afferma Bernard Lonergan nel consistente percorso proposto in Insight. Uno studio del comprendere umano (ed. it. S. Muratore e N. Spaccapelo, Città Nuova, Roma 2007).

Proporre oggi una metafisica critica fondata sulla valorizzazione delle operazioni conoscitive del soggetto in cui l’essere è pre-conosciuto, consente anche un dialogo con i saperi scientifici che si costituiscono proprio a partire da quella operatività della coscienza che per sua natura è aperta al mistero dell’essere. Riflettendo sulla struttura conoscitiva del soggetto e sulla sua multiforme apertura all’essere, è possibile riconoscere che i saperi scientifici – comprese le teorie dell’evoluzione – offrono materiali di loro specifica competenza che la riflessione metafisica esplicita potrà assumere, problematizzare e integrare a servizio di una comprensione dell’essere che, per sua natura, resta aperta, critica, dinamica proprio perché la nostra capacità di comprensione – per dirla ancora con Gadamer – non conosce limiti in linea di principio.


A. Trupiano, in Rassegna di Teologia 2/2023, 286-288

Alla radice della filosofia resta, in ogni caso, la metafisica: è questa la conclusione del saggio scritto da Jean Grondin in difesa della bellezza che a essa sempre s’accompagna. Com’è noto, il termine metafisica deriva dal greco antico meta ta physika, che significa «le cose che stanno dopo le cose di fisica». Fu, infatti, durante la catalogazione dei libri di Aristotele effettuata da Andronico di Rodi che l’espressione venne usata per la prima volta. In tale sistemazione, il discepolo dello Stagirita fa precedere la trattazione della natura alla cosiddetta filosofia prima o teoria dell’«ente in quanto ente». In tal modo, dato che i volumi di quest’ultima sezione vennero collocati dopo (meta) quelli dedicati alla fisica, la metafisica venne a rivestire il significato appunto delle «cose che stanno dopo le cose di fisica».

Il prefisso meta- può, a ogni buon conto, assumere anche un ulteriore significato, quello di al di là, sopra, oltre. Con quest’ultimo senso s’attribuì agli oggetti della filosofia prima un valore di trascendenza nonché di superiorità rispetto agli oggetti della fisica sublunare. Il termine metafisica sarebbe divenuto, dunque, il nome di una parte della filosofia. Più correttamente René Descartes, nei suoi Principi della filosofia, assimilando quest’ultima a un albero, afferma che le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica e i rami che escono dal tronco sono tutte le altre scienze che possono essere ridotte essenzialmente a tre: la medicina, la meccanica e la morale.

Jean Grondin ribalta l’attuale predominio del nominalismo che, iniziato con il «rasoio di Okkam», è ormai giunto alle attuali estreme conseguenze: un solipsismo filosofico dove il soggetto con la sua centralità ha preteso di scalzare l’essere delle cose, vale a dire degli essenti. Coniugando la bellezza con il bene, come ancora insegna il mondo greco, il filosofo canadese individua le grandi caratteristiche dell’eidos (o della bellezza): esso rende palese qualcosa di permanente che, nonostante la presenza del male – a cui è dedicato un intero capitolo – presiede all’ordine delle cose e può essere colto dalla nostra intelligenza.
D. Segna, in Il Regno Attualità 12/2022

«Da che cosa dipende questo accanimento di tanti filosofi recenti a voler distruggere o superare il pensiero metafisico?»: se lo chiede, nell’aureo libretto La bellezza della metafisica, Jean Grondin, docente all’Università di Montreal e presidente dell’Accademia di arti, lettere e scienze umane del Canada. La domanda potrebbe apparire ingenua e persino puerile, tenendo presente il fatto che, ormai da tempo, la metafisica viene data per morta o, al massimo, considerata un vecchio arnese lasciatoci in eredità dal passato, privo di qualunque capacità di illuminarci sul presente e non meritevole di alcuna attenzione. Al contrario, giunto al termine il lettore non potrà fare a meno di giudicare denso di significato l’interrogativo sopra riportato e sarà spinto a rivedere l’eccessiva facilità con cui si è ritenuto di poter fare a meno della metafisica.

Innanzitutto Grondin è certo che «c’è della metafisica in tutto ciò che facciamo»; magari non sempre «è riflessa o consapevole di se stessa», ma non v’è dubbio che «una comprensione elementare del mondo abita il nostro rapporto con gli altri, con l’ambiente, con noi stessi, con l’aldilà o con il suo silenzio». Quando, poi, da questa (pre)metafisica si passa a esaminare quelle che consideriamo le vere e proprie dottrine metafisiche, risulta evidente, secondo Grondin, che «tutti i grandi pensatori della tradizione filosofica hanno elaborato una metafisica», anche coloro che si sono dimostrati ostili ad essa, perché «è difficilissimo, in verità impossibile, criticare la metafisica senza presupporne e praticarne un’altra».

Il primo pilastro del pensiero metafisico è quello ontologico, che ci fa ritenere che il mondo sia abitato da un qualche senso; il secondo, definito dall’autore “teologico”, consiste nella convinzione che il significato del mondo rimanda a un principio ultimo; il terzo pilastro, quello antropologico, è così sintetizzabile: «L’uomo può comprendere con la sua ragione qualcosa dell’ordine del mondo e introdurvi un senso». A giudizio di Grondin, queste tre certezze poggiano su di un fondamento preciso: la bellezza.

Lo capirono per primi gli antichi greci, che chiamarono bellezza l’ordine del cosmo e l’esperienza che possiamo farne. Fu Platone a consolidare questa prospettiva, aggiungendovi un elemento decisivo, ovvero lo stretto collegamento esistente fra il bello e il bene; proprio l’idea del bene rappresenta il vertice dell’universo metafisico platonico e non casualmente, secondo il grande ateniese, è la bellezza che ci dischiude la via del bene.

A questo Grondin inserisce alcune profonde riflessioni sul valore della contemplazione, la chiave che apre la porta della metafisica. Anche l’ideale contemplativo sembra oggi essere tramontato, ma il nostro autore non si lascia intimorire e scrive: «Come conferma la storia del pensiero, i declini della contemplazione sono spesso seguiti da rinascite. Ne auguro a tutti noi delle bellissime». Dunque, non vi è nulla da temere nel condividere l’affermazione cartesiana secondo cui le radici della filosofia sono la metafisica. Anzi – raccomanda Grondin – dobbiamo farlo con un certo orgoglio perché «la metafisica non è meno una teoria sul mondo che sul senso e la bellezza del mondo, cioè su ciò che rende la vita degna di essere vissuta, e vissuta con filosofia, ossia con una prospettiva ragionata sul senso delle cose».


M. Schoepflin, in Avvenire 28 maggio 2022, 23

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