Il saggio di Jean Grondin, filosofo canadese e autorevole studioso di Kant, Heidegger e Gadamer, costituisce un’appassionata riflessione sull’attualità della metafisica e sui suoi fecondi rapporti con la tradizione ermeneutica. Le pagine conclusive del volume, oltre a ribadire che «una metafisica senza ermeneutica è cieca e un’ermeneutica senza metafisica è vuota» (161), rivolgono al lettore un accorato appello alla speranza perché la ricerca di senso – per quanto travagliata possa essere – consente di «intravedere che la vita su questo astro errante vale la pena di essere vissuta» (162).
In un’epoca in cui la metafisica rischia di essere confinata tra i saperi inattuali, Grondin ha il merito di non identificarla come astratta riflessione sull’aldilà con il conseguente rischio di convalidare un’impostazione marcatamente dualistica. La metafisica è intesa come ricerca del senso dell’intero ed è riconosciuta come tensione insopprimibile del pensiero: essa «è lo sforzo vigile del pensiero umano di capire l’insieme della realtà e le sue ragioni. Il suo obiettivo può essere focalizzato ora sul reale nel suo insieme (e allora assume una piega ontologica); ora sul principio o sulle ragioni del reale (e allora diviene più teologico); ora su colui che si sforza di capire il reale – il che gli procura un fondamento antropologico» (15).
La distinzione tra premetafisica e metafisica consente all’A. di affermare che, prima ancora di elaborare una metafisica esplicita, si presuppone sempre un implicito e inconsapevole orientamento teorico nei riguardi della ricerca di senso. Nonostante il predominio di una visione nominalistica e utilitaristica che caratterizza la cultura contemporanea, la domanda sul senso non può essere elusa nemmeno dai detrattori della metafisica perché «l’uomo – capace di andare al fondo delle cose e di intervenire nel loro corso quando è insensato – è un animale metafisico ed ermeneutico» (32). Tale condizione non può essere annullata nemmeno dalle critiche all’ideale contemplativo e dal mito del fare e del produrre che misura il senso di ogni conoscenza in base al suo apporto al profitto.
Con un sorprendente recupero dello êidos platonico, il fondamento della metafisica è identificato con la bellezza in cui si rivela l’ordine del cosmo con il suo ineliminabile rimando al bene e alla finalità: «Il bello è ciò che manifesta una finalità perfetta, in cui non manca nulla (hikanón) e in cui tutto sembra essere stato concepito per una ragione» (47). L’idea, infatti, non è un concetto, una mera costruzione intellettuale, ma è qualcosa che si può vedere e «vedere qualcosa è sempre, per un homo sapiens, vedere, e sapere, ciò che essa è» (51), riconoscendo la sua immanenza nel sensibile e, al tempo stesso, il suo rimando al trascendente. L’esperienza trascendente del bello dà da pensare che il mondo sia regolato da un “principio” del bello e non da un cieco caso fortuito. Anche la scienza continua a far scoprire l’ordine, la bellezza e il senso delle cose. Persino le obiezioni antimetafisiche che sostengono l’incompatibilità del male e della bellezza/bontà del mondo confermano che l’aspettativa metafisica occupa un posto centrale, altrimenti non vi sarebbe indignazione di fronte alla tragicità del non-senso.
Contestando quanti hanno ridotto l’ermeneutica ad espressione della crisi dei fondamenti e al conseguente abbandono di ogni interesse metafisico, Grondin – valorizzando l’eredità leibniziana – sostiene che l’ermeneutica «non può non incontrare la metafisica» e che la metafisica è il «compimento del pensiero ermeneutico» (123). Accogliendo pienamente la tesi di Gadamer secondo cui «fenomenologia, ermeneutica e metafisica non sono tre diversi punti di vista filosofici, ma espressione di quello che è la filosofia stessa» (143), l’A. propone un’interpretazione di ampio respiro del noto assioma gadameriano secondo cui «l’essere che può venire compreso è linguaggio». Grondin contesta la pretesa di quanti tendono a dissolvere la ricerca metafisica in una pura manifestazione linguistica e restituisce all’ermeneutica di Gadamer l’intrinseco spessore metafisico.
L’essere è comprensibile, mai in modo definitivo e statico, ma attraverso il processo della storia che è sorretto da un’anticipazione di perfezione, ossia dal rimando infinito ad una compiuta unità di senso. La dimensione storica non è incompatibile con la ricerca e con la manifestazione della verità ma ne costituisce il luogo di dinamica e multiforme realizzazione. Ed è così che acquista ampio spazio anche il “privilegio della coscienza storica” così caro all’ermeneutica gadameriana: «Questa storicità significa sicuramente una limitazione per ogni metafisica che vorrebbe presentarsi come una fondazione ultima o come l’ultima metafisica che esista. Ma chi ci dice che la sorte della metafisica sia legata a quella di una fondazione definitiva, “garantita sotto tutti gli aspetti”, come se si trattasse di una verità matematica?» (156).
L’esercizio del dialogo costituisce la chiave fondamentale per aprirsi al riconoscimento del vero e del bene che, per quanto mai disgiungibili dall’esperienza umana della precarietà, si realizzano e si lasciano riconoscere nella capacità di comprensione che sorregge la ricerca di ogni uomo. In un’epoca contrassegnata dal culto del “post” (post-filosofia, post-metafisica, post-modernità…), l’insistenza sulla fusione di orizzonti che sussiste tra ermeneutica e metafisica costituisce un interessante e salutare recupero della ricchezza e della originalità della tradizione occidentale.
Da questo punto di vista, in dialogo con la riflessione proposta da Grondin, si potrebbe ulteriormente sottolineare la rilevanza della svolta della modernità. Grondin, almeno in parte, si colloca in questa direzione soprattutto quando valorizza lo spessore metafisico della svolta cartesiana: la filosofia è intesa come un albero alle cui radici si pone la metafisica, la fisica ne costituisce il tronco, le altre scienze i rami (cf I principi della filosofia). Ci sarebbe da chiedersi, però, se non sia ancora più decisivo il passo compiuto da Cartesio nell’attribuire un ruolo centrale al soggetto e alla sua autocomprensione. Più che nel porre la metafisica alla base delle scienze, l’eredità più consistente e più originale della modernità, a mio avviso, consiste nella centralità accordata al soggetto e all’analisi del dinamismo intenzionale. Una metafisica critica, accogliendo la lezione kantiana del metodo trascendentale al di là della nota tesi dell’impossibilità della metafisica come scienza, ha la sua radice proprio nell’esercizio del dinamismo intenzionale del soggetto che è già di per sé metafisica latente (e non semplicemente premetafisica nel senso di preliminare visione del mondo) – come afferma Bernard Lonergan nel consistente percorso proposto in Insight. Uno studio del comprendere umano (ed. it. S. Muratore e N. Spaccapelo, Città Nuova, Roma 2007).
Proporre oggi una metafisica critica fondata sulla valorizzazione delle operazioni conoscitive del soggetto in cui l’essere è pre-conosciuto, consente anche un dialogo con i saperi scientifici che si costituiscono proprio a partire da quella operatività della coscienza che per sua natura è aperta al mistero dell’essere. Riflettendo sulla struttura conoscitiva del soggetto e sulla sua multiforme apertura all’essere, è possibile riconoscere che i saperi scientifici – comprese le teorie dell’evoluzione – offrono materiali di loro specifica competenza che la riflessione metafisica esplicita potrà assumere, problematizzare e integrare a servizio di una comprensione dell’essere che, per sua natura, resta aperta, critica, dinamica proprio perché la nostra capacità di comprensione – per dirla ancora con Gadamer – non conosce limiti in linea di principio.
A. Trupiano, in
Rassegna di Teologia 2/2023, 286-288