«Carmine Di Sante, nell'esplorare l'umanesimo biblico, non esita a parlare di rivoluzione: il mondo biblico ha infranto le categorie con le quali l'antichità si pensava. Se per la Grecia il mondo è un ‘kosmos’ nel quale tutto ritorna, dove inizio e fine non sporgono dal ciclo e la temporalità è mera apparenza, la Bibbia inaugura una dimensione lineare, creativa, dinamica del tempo. Il tempo non è più il ripetersi dell'identico, ma l'irrompere del nuovo. L'ordine cosmologico frana per fare posto a quello antropologico, la cui originalità - scrive Di Sante - non consiste per l'uomo "nel sottrarsi a Dio, ma nello scoprirsi posto alla sua presenza". Alla visione greca si sostituisce l’ascolto. Alla verità come aletheia – come apparire dal nascondimento – subentra l’idea ebraica di verità come affidamento (‘emet).
Per questo Carmine Di Sante, teologo, può intitolare il suo ultimo lavoro L’uomo alla presenza di Dio. L’umanesimo biblico. Un affidarsi a Dio, dunque. La disarticolazione del mondo antico prosegue con il concetto di volontà. La volontà non trova cittadinanza all’interno del ciclo greco, dominato dalla necessità. Al contrario "per la Bibbia la volontà non si iscrive in un ordine già dato, sia quello della natura o della ragione, ma è un novum che sospende sia l’una che l’altra". Ma i sovvertimenti semantici – da cui nasce il volto inedito dell’humanitas biblica – non si fermano qui. Anche i contorni dell’ethos vengono ridefiniti. Se nel mondo antico domina il legame di sangue, se il rapporto si allaccia con il fratello, il parente, insomma con l’identico, l’etica si profila nella Bibbia "come l’uscire dalla quiete della casa per andare incontro all’altro".
Ma le Sacre Scritture ci mostrano anche un’altra cosa: che l’humanitas può sempre pervertirsi in in-humanitas, quando il vincolo di fedeltà si spezza e l’uomo si allontana da Dio. La violenza non ha l’ultima parola, non riconsegna l’uomo allo sfondo dal quale l’humanitas biblica lo ha staccato. È la croce a evitare questo sprofondamento, con il suo "prendere il male dell’altro assumendolo su di sé e non restituendolo – osserva Di Sante –. La croce è questa 'presa su di sé' del male che, non restituito, perde la sua potenza di contagio"».
L. Miele, in
Avvenire del 31 marzo 2010