L’editrice Queriniana ripubblica un testo originale di K. Rahner del 1977 (tr. it. 1979, qui pp. 7-78) con un’Appendice di Andrea Grillo (pp. 79-122) che amplia la riflessione sulle problematiche suscitate dal tema delle indulgenze.
Invocazione dei santi e preghiera per i defunti
Rahner riflette sul fatto che ogni uomo può incontrare nell’immediatezza Dio, senza aver bisogno di intermediazioni particolari. L’uomo però vive in un tessuto di affetti e di relazioni. Il cristiano vive in comunione con i suoi cari che sono già defunti e con i santi. Quando prega i santi non può escludere che anche i suoi defunti siano fra di loro. L’amore per Dio e per i fratelli è un comandamento unico, per cui intercedere e pregare per i propri cari è pregare con, pregare in comunione. I santi e i nostri cari defunti sono dalla nostra parte e pregano con noi.
Oggi c’è indifferenza per l’invocazione dei santi e anche per il ricordo dei propri cari defunti. Ma i legami non si sciolgono con la morte e la vita di comunione continua. Si venerano i santi amando il prossimo in Gesù e con Gesù.
Per Rahner il culto dei santi è legittimo ed è contemporaneamente adorazione di Dio. L’intercessione avviene quando, nella preghiera, si invocano i santi a pregare con noi e per noi. Nei santi veneriamo il fatto che, nella storia della salvezza, ci sia, da parte loro, una diversità di funzione storico-salvifica. Fra loro si può lecitamente scegliere un patrono.
In ogni caso, Rahner raccomanda di coltivare la solidarietà con i defunti, non recidendo i legami a causa dell’ideologia imperante che porta a pensare all’immediato, al concreto, a dimenticare la malattia e la morte. È bello pregare con i defunti e per i defunti, specie quelli più dimenticati della storia, i piccoli, gli oppressi.
Immediatezza e mediazione
Nell’Appendice, Grillo insiste su sette punti di sintesi e di attualizzazione del pensiero di Rahner esposto nella prima parte del volume.
La tesi del volume è quella della preghiera fra immediatezza e mediazione. Egli fa notare da subito che il merito di Rahner è stato quello di spostare le indulgenze da «mezzo istituzionale di remissione della pena» a «esercizio della preghiera ecclesiale».
Nel testo di Rahner si riflette sulla questione: in quale misura la mediazione di un «altro» (vivo o defunto) si pone come apertura all’immediatezza del rapporto con Dio? «L’incompiutezza delle nostre esistenze – riassume Grillo – chiede non solo l’immediatezza della relazione della grazia, ma anche la mediazione plurale delle esperienze dell’amore, la cui memoria è “dovuta” per non perdere la qualità plurale, sociale, diremmo ecclesiale e politica dell’amore umano» (p. 86).
Indulgenza come preghiera della Chiesa
In un secondo punto, Grillo evidenzia una nuova teoria sulle indulgenze come «preghiera della Chiesa». «La preghiera di Cristo e della Chiesa… diventa il linguaggio di questa “mediazione” tra amore per Dio (e da Dio) e amore per il prossimo (e dal prossimo), dell’unico intercessore, Gesù Cristo, che apre alla mediazione ecclesiale dell’intercessione nella communio sanctorum» (pp. 88-89).
C’è analogia fra intercessione e indulgenza. Da un lato, il linguaggio originario dell’“intercessione” riferito ai santi e ai defunti, si trasforma nell’intercessione che la Chiesa esercita per i penitenti e i defunti.
Con il sorgere della cosiddetta «penitenza privata», a partire dal VII secolo si opera una differenziazione concettuale – e una presa di distanza temporale – tra remissione della colpa e remissione della pena. Si separa il perdono del peccato-colpa dalla remissione della pena. «[L’] “assoluzione” dalla pena eterna del peccato non si identifica più con la “remissione” della pena temporale, come avveniva nel modello antico della penitenza. Si apre una distanza tra l’esercizio sacramentale dell’assoluzione e il lento sorgere della pratica extrasacramentale dell’indulgenza, intesa come “intercessione” della Chiesa sulla realtà (sulla misura) della pena temporale» (p. 90).
«Questa formalizzazione ha condotto, con forza – annota Grillo –, verso una “istituzionalizzazione” dell’intercessione nelle forme di una “sacramentalizzazione” della preghiera comune, che diventa “atto di amministrazione”» (ivi). La rilettura rahneriana «ha reso di nuovo possibile un approccio più corretto alla pratica ecclesiale, ricollocandolo nel suo orizzonte meno formalistico e meno cosificante» (pp. 90-91).
Grillo cita una definizione sintetica che Rahner offre dell’indulgenza in un’altra sua opera: «[L’]essenza dell’indulgenza consiste pertanto nella preghiera particolare della Chiesa che essa innalza per i propri membri nella sua azione cultuale e nella preghiera dei suoi membri per la loro completa purificazione e che, nell’indulgenza, applica solennemente e in particolare modo a un determinato membro» (p. 91).
Limiti di una lettura “giuridica” delle indulgenze
Grillo nota che papa Francesco ha avvertito l’indulgenza come la preghiera della Chiesa, mentre in altri documenti si oscilla tra preghiera e atti amministrativi e come azioni riferite ai defunti molto più che ai viventi.
In questo terzo paragrafo Grillo nota i limiti della lettura “giuridica” dell’indulgenza fino alla confusione con la santificazione. Egli nota come, nei decreti curiali allegati al giubileo del 2000, si scopre una «normativa indulgenziale» del tutto estrinseca, che riduce i sacramenti a condizioni per le indulgenze. A tratti appare – anche in papa Francesco, secondo Grillo – «un’interpretazione “istituzionale” e “amministrativa” dell’indulgenza come “istituzione autonoma” rispetto alla “penitenza sacramentale”. In gioco vi è il tentativo di spostare tanto l’intercessione quanto l’indulgenza nell’ambito immediato della “santificazione”, con un’operazione che, agli occhi della teologia, appare come il frutto di una forzatura apologetica della tradizione. Queste letture – continua Grillo – sembrano spaventate dal recupero rahneriano di una “preghiera comune” come orizzonte di senso, non superabile da parte di “atti amministrativi” (dei chierici) o di “atti devoti” (dei laici)» (p.95).
Grillo si domanda se, a essere in gioco nelle indulgenze, sia il «potere delle chiavi» o la «preghiera della Chiesa».
L’autore riporta il can. 992 del Codice di diritto canonico e lo commenta. «Questo modo d’intendere il fenomeno delle indulgenze, viste come “dispensazione” e “applicazione” autoritativa del tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi, in virtù del potere delle chiavi, appare il frutto di una ricostruzione formalistica, nella quale la preghiera non ha alcun spazio, se non marginale, solo come “condizione” del fedele. È evidente come alla tradizione si cerca di restare fedeli mediante una polarizzazione esasperata: da un lato, quella amministrativo-burocratica dell’ordinamento, garantito dai chierici, dall’altro, quella devozionale e comportamentale del soggetto individuale, rappresentato dal fedele» (p.97).
Ripensare la pena
Nel paragrafo quarto della sua Appendice, Grillo invita a ripensare la pena, tra filosofia, teologia e diritto.
Egli nota che, nell’ordinamento civile, la pena rinchiude, mentre in quello religioso esclude e scomunica. La centralizzazione delle istituzioni ha portato a un capovolgimento del modo antico e medioevale di pensare circa la pena. Grillo nota come oggi si cerchi di instaurare una giustizia riparativa.
Sotto l’aspetto teologico la pena non è la sanzione determinata esteriormente rispetto al comportamento peccaminoso, come pensiamo noi tardo-moderni condizionati dai sistemi di pena e dagli ordinamenti penitenziari. Essa è «la sofferenza intrinseca al cambiamento necessario nel tempo al soggetto per corrispondere al perdono ricevuto gratuitamente da Dio» (p. 103). Se ti condanno, vieni sottoposto a una pena, se sei assolto, no. Si pensa che la pena sia la conseguenza di una condanna. «Il “sistema penitenziale” cristiano e cattolico ha pensato che – scrive Grillo –, se sei assolto, entri, invece, nella dimensione della “pena temporale”, un’espressione che è diventata per noi quasi incomprensibile, proprio a causa di questi sviluppi istituzionali» (pp. 103-104).
Di «pena temporale» si parla soltanto in occasione dei giubilei, quando emergono le indulgenze, in quanto esse vengono intese come “remissioni della pena temporale”. Insomma, – prosegue Grillo – il fatto interessante è questo: la pena temporale diventa rilevante solo per essere cancellata, ma non per essere scontata e vissuta. Questo deve essere riconosciuto come un paradosso della tradizione, quando perde la sua evidenza e passa dalla condizione dinamica di giardino da coltivare alla dimensione statica di museo da custodire» (p. 104).
Grillo annota le componenti che storicamente hanno giustificato la comminazione della pena: 1) ristabilire la giustizia; riabilitare il soggetto; proteggere l’ordine pubblico.
Nel paragrafo quinto, Grillo aggiunge una postilla sulla pena di morte nella società della dignità.
Remissione di una pena non esperita?
Nel c. 6 della sua Appendice, Grillo parla di un paradosso: chiedere che sia rimessa una «pena» di cui si non fa alcuna esperienza. «[L]a pratica festiva dell’indulgenza ha un duplice presupposto feriale, che oggi è difficile trovare nei cuori, nelle parole e nei corpi dei cattolici contemporanei» (p. 110-111).
L’autore annota la conseguenza del passaggio dalla penitenza canonica, che unificava colpa e pena in un unico passaggio, alla penitenza privata, che ha portato a distinguere temporalmente e concettualmente la remissione dei peccati dalla remissione delle pene.
Cos’è questa pena-punizione? si chiede. Forse che non siamo stati davvero assolti? Come possiamo ricevere ancora una pena e addirittura averne bisogno? «La tradizione risponde così: con il sacramento della penitenza si riceve il perdono che cancella la pena eterna, ma la pena temporale – che discende dall’aver peccato, non semplicemente dalla determinazione del confessore – non viene superata dalla confessione. Anche dopo l’assoluzione – ricorda l’autore – resta la pena temporale, che esige a sua volta un’“assoluzione”. Dopo l’assoluzione dal peccato, occorre essere assolti dalla pena. Ma di cosa si tratta?» (pp. 112-113).
Non sappiamo più che esista una «pena temporale». Lo leggiamo nel catechismo, certo, ma non lo troviamo nell’esperienza, annota Grillo.
«Questo – continua lo studioso – dipende dal fatto che la confessione non termina più, in generale e da alcuni secoli, con una puntuale indicazione della “pena temporale” da svolgere da parte del peccatore perdonato. Al male che persiste, infatti, non si risponde anzitutto con le indulgenze, ma con il fare penitenza» (p. 113).
«Nei Promessi sposi di Manzoni – esemplifica l’autore – la “pena temporale” che spetta all’Innominato consiste innanzitutto nell’urgenza di liberare Lucia. Poi però consisterà anche nell’esigenza di cambiare vita, nella fatica di comunicare ai suoi collaboratori che è finito lo stile mafioso di prima, che ora egli doveva congedarli e che non lo avrebbero più servito con la violenza. Pena temporale è “vita di penitenza”, fatica e lacrime per rimediare al male commesso e per impostare una vita nuova, alla luce del perdono ricevuto» (pp. 113-114).
«Il carico di una “vita di penitenza” può essere anche molto pesante: in occasione di feste importanti, di visite a luoghi significativi o di anniversari solenni, l’indulgenza “rimette la pena temporale” in toto o in parte. Questo è ragionevole – ammette Grillo – ed è stato, lungo la storia, una vita penitenziale autentica, al di là del suo scadere in “commercio”. Il commercio, allora, poteva risultare persino admirabile. (p. 114).
Per le ragioni fin qui addotte, l’indulgenza non è però un generico «regalo» – prosegue lo studioso –, bensì il «“condono di un debito”. Nessuno può riconoscere il regalo che riceve, se non sa di avere un debito. E la fede non basta da sola a integrare l’esperienza. Occorre la coscienza che la penitenza non si fa solo né solo né anzitutto nel confessionale. Ed è questo che oggi manca quasi del tutto nella coscienza ecclesiale» (p.114).
Si tratta di riscoprire che cosa significa «fare penitenza per la vita cristiana. Per questa esperienza, la ferialità penitenziale corrisponde anzitutto alla festività dell’eucaristia, non dell’indulgenza» (p. 115). Sostituire l’indulgenza alla comunione eucaristica potrebbe essere una delle sviste maggiori che non si sono evitate nel periodo del Covid-19 né per l’anno di san Giuseppe. Oggi – secondo Grillo –, «sarebbe molto più utile riscoprire il dono del feriale “fare penitenza”, piuttosto che sostituirlo con la somma deficitaria di una confessione senza pena e di una remissione della pena priva della materia circa quam. Premurarsi di assicurare l’indulgenza ecclesiale nelle sue forme non burocratiche viene prima che organizzare burocraticamente indulgenze in cui non c’è nulla da rimettere» (ivi).
«Il classico “potere delle chiavi” o la più antica (e più recente) “preghiera della Chiesa” permettono – secondo Grillo – una spiegazione teologica di una dinamica ecclesiale, sociale e personale: ossia articolano il “processo penitenziale” con cui il battezzato elabora faticosamente – laboriosamente – il perdono del proprio peccato grave. Se questo lavoro (questo “battesimo laborioso” che non sa più nulla del proprio lavoro) appare teologicamente rimosso, come ha teso a proporre un’interpretazione unilaterale del sacramento della penitenza negli ultimi due secoli – non di rado ridotto alla compresenza, quasi occasionale, di confessione e assoluzione, insieme a un rimando formalistico all’Atto di dolore e a un certo numero di preghiere come soddisfazione –, tale modo di comprendere il sacramento non può in alcun modo giustificare né l’applicazione del tesoro della Chiesa, né la preghiera ecclesiale come “remissione” di qualcosa che non ha alcuna consistenza nella vita e nell’esperienza dei soggetti» – argomenta Grillo (p. 116).
«Forse è stato proprio questo unilaterale spostamento della “dispensazione” e dell’“applicazione” delle indulgenze sul piano amministrativo ad aver convinto i fedeli di poter ricevere, mere passive, sia la remissione del peccato sia la remissione della pena. Il recupero di significato dell’indulgenza, nella sua origine, – prosegue Grillo – indica invece una decisa cooperazione tra grazia e libertà. Questo è il suo lato serio, che non si lascia comprendere come una un’invadenza sospetta da parte di un ex opere operato, garantito solo iuris causa da una burocrazia che sorveglia in quale modo le indulgenze siano correttamente “lucrate”. Questo immaginario resta ormai solo in qualche ufficio di curia ed è frutto di aria viziata» – commenta caustico l’autore – (pp. 116-117).
Una rilettura “orante” del fare penitenza
L’ultimo paragrafo dell’Appendice di Grillo verte su una rilettura «orante del fare penitenza» e un nuovo equilibrio tra officium e remedium.
Egli annota come sia emersa «con chiarezza la novità della prospettiva introdotta da Rahner. Si tratta, in effetti, di una prospettiva “più classica” rispetto alla sua figura “moderna”, così come ereditata dalla tradizione tridentina e poi apologeticamente “sigillata” dalla dogmatica ottocentesca e dalla canonistica del XX secolo.
La forma moderna di indulgenza, pur conservando formalmente la radicazione penitenziale dell’indulgenza stessa, tende però a farla valere come “elemento estrinseco” rispetto allo stesso sacramento da cui deriva: date certe condizioni (tra cui paradossalmente sta un sacramento della confessione “senza lavoro”), essa produce un sicuro effetto di “dono”, non nei termini di perdono del peccato, ma nei termini di remissione della pena. Pur nella sostanziale diversità dell’oggetto, il “modello sistematico” di comprensione e di disciplina resta segnato dalla certezza di un ex opere operato che presuppone solo in modo formalistico la partecipazione del soggetto.
In un certo senso – prosegue Grillo –, potremmo dire che la riduzione del sacramento alla coppia confessione/assoluzione, imposta dalla legge canonica, si riverbera in modo profondo su una lettura delle indulgenze come “sicuro effetto” di remissione della pena temporale, di cui il sacramento non tematizza affatto la realtà. Si traspone l’efficacia sacramentale su una sua “parte”, isolata e resa pericolosamente autonoma. Così si fa passare un ex opere operantis per ex opere operato e la tradizione appare in tal modo interrotta in ragione di una difesa solo apologetica, mediante una teologia “di autorità”, che non riesce a offrire ragioni plausibili per giustificare la prassi» (pp. 118-120).
Avviandosi alla conclusione della sua Appendice, Grillo annota: «[L]o spostamento dell’indulgenza, operato da Rahner, dall’ambito del thesaurus ecclesiæ, il cui “uso” è fondato sul “potere delle chiavi”, alla preghiera della Chiesa, implica una rilettura profonda dell’intero organismo sacramentale ed ecclesiale. La stridente contraddizione tra la nuova lettura dell’indulgenza (al singolare), voluta con forza da papa Francesco a partire dalla bolla Misericordiæ vultus, anche per ispirazione rahneriana, e un’inerzia burocratica del lucrare le indulgenze (al plurale) mostra lo spazio di un’elaborazione ulteriore, che passi dalla teoria del “potere delle chiavi”, attraverso la “preghiera”, fino alla correlazione strutturale interna a un unitario processo penitenziale che non sia costruito per compartimenti stagni e per tappe tra loro completamente scollegate e rese autonome, con una remissione della pena del tutto astratta rispetto alla remissione della colpa.
L’intuizione di Rahner, che resta ancora decisiva – sostiene Grillo – consiste nello spostamento dell’indulgenza dal versante della santificazione al versante del culto. Questo de-potenziamento, quasi kenotico, che è riposizionamento sistematico, appare un passaggio necessario, ma non indolore, per i corpi credenti e per gli uffici ecclesiastici in ordine alla riscoperta della natura di mediazione comunitaria del cammino individuale, ma sempre laborioso, di risposta alla grazia della misericordia.
Il presupposto feriale (la pena temporale) di questa pratica festiva (l’indulgenza) deve tornare al centro dell’attenzione, anche grazie alla potenza della nuova concezione, antropologica e teologica offerta da Rahner, quando ha voluto e saputo ripensare l’intercessione anzitutto come preghiera della Chiesa» (pp. 120-122).
Un libro stimolante su cui riflettere nell’anno giubilare, e non solo.
R. Mela, in
SettimanaNews 11 dicembre 2024