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Alla fine il nulla?
Gerhard Lohfink

Alla fine il nulla?

Sulla risurrezione e sulla vita eterna

Prezzo di copertina: Euro 34,00 Prezzo scontato: Euro 32,30
Collana: Biblioteca di teologia contemporanea 200
ISBN: 978-88-399-0500-0
Formato: 15,7 x 23 cm
Pagine: 288
Titolo originale: Am Ende das Nichts? Über Auferstehung und Ewiges Leben
© 2020

Descrizione

Gerhard Lohfink si confronta con il tema della morte e della risurrezione. La sua riflessione si sviluppa sullo sfondo mutevole delle concezioni e delle attese del nostro tempo. Le sue risposte si basano sulla sacra Scrittura, sulla tradizione e sulla ragione. Con un linguaggio che non vuol essere convenzionale e scontato, l’autore fa risplendere la forza della risurrezione – la risurrezione di Cristo, che diventa poi la nostra. In particolare, mostra di parlare di eventi che non si collocano in un remoto futuro; la loro prossimità a noi, anzi, è tale da superare le nostre capacità di comprensione.
All’alternativa tra “il nulla” e “la risurrezione dei morti” generalmente noi tentiamo di sfuggire in due modi: semplicemente rimuovendo il pensiero della nostra dipartita, oppure raccontandoci una qualche soluzione mediana – del tipo: “alla fine si scompare nella natura”, o “si sopravvive nei discendenti”, come dicono i più raffinati. Lohfink prende in esame proprio queste soluzioni illusorie, mostrando come esse non siano delle vere possibilità.
Alla fine resta un vero aut aut: o la risurrezione o l’inesorabile nulla. Ne va delle grandi domande dell’esistenza umana. Ne va dell’idea stessa di una giustizia.

«Come si può parlare oggi della risurrezione? Rispondendo a questo interrogativo, c’è una cosa di cui ho avuto sempre timore e che ho cercato di evitare in ogni pagina: annoiare il lettore».

Recensioni

Come si risponde al problema della finitezza e della morte? E come stanno le cose dopo? Se ne scrive molto, ma girandoci intorno (come ci si prepara, come si assiste chi sta per incontrarla, come si sta con chi patisce perdite...). Tuttavia, la morte resta un problema concreto ancora irrisolto. La si guarda da lontano e non se ne parla perché c'è poco da dire. Chi la conosce per poterne parlare? Anche per gran parte dei cristiani credenti è così. Ci si orienta a pensarci il meno possibile concentrandosi su un presente in permanente estensione, riuscendo in un sol colpo a cancellare anche le prospettive sul futuro (defuturizzazione) impegnati come siamo a ripetere questo vivere sempre uguale a se stesso in una tragica monotonia.

Le difficoltà si raddoppiano secon Lohfìnk, e con moltissimi altri, constatiamo l'afasia che da anni ha colpito il trattato (la riflessione sistematica ma anche la predicazione) sull'escatologia cristiana. Peraltro, anche il pensiero più "laico" circa le realtà ultime è ormai spalmato e assorbito nella tecnologia ( cf. Z. Bauman). Non c'è scampo. Tutti prima o poi veniamo colti dal dubbio se la morte ci porti al nulla o a una vita nuova.

È un interrogativo che rimane senza risposta, però. E anche sela gente rigira la domanda a chi della fede ne sa qualcosa di più, al clero e ai teologi, ne ricava rassicurazioni vaghe in un abile esercizio elusorio. A sentire certe omelie o catechesi si ha l'impressione che si conosca bene il principio di indeterminazione di Heisenberg più che la certezza che viene dalla fede in Cristo Signore. Forse al di fuori della trattatistica e della sistematizzazione logica dei postulati, nel discorrere comune le affermazioni e le riflessioni sulle faccende escatologiche "non trovano parole" per dire pensieri che hanno dell'incredibile. Un incredibile creduto, ma più da evocare che da spiegare. Ma in sintesi qual è la risposta cristiana alle perplessità dell'uomo contemporaneo?

Una e una sola: Gesù Cristo risorto. Nella sua «pasqua» sta il fondamento ed è contenuta la risposta: una «speranza certa» (san Francesco d'Assisi) della gloriosa risurrezione futura di tutti coloro che sono di Cristo. Sarà una risurrezione a immagine di quella di Cristo stesso. Questo è il contenuto della speranza cristiana.

Da qui si parte per intendere il senso dei «tempi ultimi» e della «venuta del regno», che non è la fine della storia, ma il dinamismo che la fermenta e l'avvia al compimento. Alla fine il nulla, allora? No, ci dice Lohfìnk, ma la risurrezione.

La bibliografia sull'escatologia trabocca di testi di ogni genere. L’editrice Queriniana ne ha tradotti ed editi molti (prima di questo testo di Lohfink ha edito il manuale di Johanna Rahner). Il tema interessa su molti versanti della riflessione teologica (dall'antropologia all'apocalittica), ma sostiene anche le flessioni che abbiamo avviato in questa monografia di «CredereOggi» circa gli animali. Per una «teologia» degli animali è necessaria una rilettura storico-salvifica della creazione come primo evento cosmico della salvezza. È una responsabilità invero tutta escatologica.

Di fronte a una visione scientifica delle cose la risposta escatologica può restare ancora una dote della chiesa? Il tema si fa complesso. Ci basti qui segnalare che. il problema dell'escatologia resta quello della dualità tra regno e storia. Come si nota, anche il linguaggio in genere si fa complicato e a volte ermetico. Non è il caso di questo libro. Qui Lohfink ci presenta un manuale sui generis perché abbandona il linguaggio tecnico della teologia per farsi una narrazione scorrevole complessivamente ben orchestrata e accattivante. Il lettore riesce ad acquisire quella chiarezza che cerca, ovviamente nei limiti della questione.

Cinque capitoli densi i cui titoli possono essere "girati" come domande: Che cosa si pensa riguardo all'aldilà? (pp. 11-61); Che cosa sperimentò Israele? (pp. 65-95), Che cosa venne al mondo con Gesù? (pp. 99-128), Che cosa avverrà di noi? (pp. 131-230) e Che cosa possiamo fare? (pp. 233-257). L'approccio è quello del biblista in grado, per gli anni e l'esperienza, di fare sintesi in questo caso dei testi neotestamentari. La sintesi e la proposta teologica di Lohfink si trova negli ultimi due capitoli, il quarto più teologico e il quinto più pastorale.


D. Passarin, in CredereOggi 2/2022, 183-185

Gerhard Lohfink è un teologo tedesco, professore di Nuovo Testamento all'Università Eberhard Karls di Tubinga fino al 1986. Nel 1987, su propria richiesta, lasciò l'incarico nell'Università per poter vivere e lavorare nella Comunità Cattolica d'Integrazione (KIG) a Monaco di Baviera. Continua a studiare e a tenere conferenze sull'ecclesiologia e l'escatologia.

Proprio su quest'ultimo argomento in questo testo Lohfink si confronta con il tema della morte e della risurrezione. La sua riflessione si sviluppa sullo sfondo mutevole delle concezioni e delle attese del nostro tempo. Le sue risposte si basano sulla Sacra Scrittura, sulla tradizione e sulla ragione. La costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo del Concilio Vaticano II, scrive: «In faccia alla morte l'enigma della condizione umana diventa sommo. Non solo si affligge, l'uomo, al pensiero dell'avvicinarsi del dolore e della dissoluzione del corpo, ma anche, ed anzi più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre. Ma l'istinto del cuore lo fa giudicare rettamente quando aborrisce e respinge l'idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona» (GS 18).

Queste brevi frasi possono rappresentare una sintesi particolarmente adatta del volume in questione, che si articola in cinque parti, le quali corrispondono ad altrettante sezioni del volume. Dopo un'articolata ed esauriente Prefazione, nella prima parte (Che cosa si pensa riguardo all'aldilà) si parte dal presupposto che i primi uomini non possedessero ancora un'idea della fine dell'uomo. Lentamente, siamo al paleolitico, si iniziano riti di sepoltura come anche l'usanza di spargere polvere di ocra rossa sul corpo del defunto per rappresentare ritualmente il sangue come simbolo efficace che il defunto continuasse a vivere.

Lohfink fa una breve rassegna delle diverse dottrine che sono state elaborate riguardo a ciò che ci attende dopo la morte: lo scetticismo e l'immortalità dell'anima di matrice platonica: «il saggio... non dà ascolto ai continui desideri del corpo, portando così, già in questa vita, il centro più intimo di se stesso a prendere le distanze dal corpo... La conoscenza pure presuppone la liberazione dal corpo» (p. 13), la continuità della vita attraverso la sopravvivenza nelle discendenze «spesso le iscrizioni sepolcrali degli antichi greci e dei romani mostrano sempre che, per ricordare i propri morti, gli uomini dell'antichità hanno composto testi toccanti espressi in forma idiomatica. Spesso si esprimevano addirittura in un solo verso» (p. 25), la possibilità di continue e nuove reincarnazioni, interessante l'idea che alla base di questa "migrazione delle anime" ci sarebbe stata l'idea che la forza vitale del padre passasse al figlio e, allo stesso modo, quella della madre alla figlia, la dissoluzione nell'universo, il radicale annientamento. Nell'hinduismo la dottrina della reincarnazione è legata strettamente all'idea del karma, cioè tutte le azioni di un essere umano hanno delle conseguenze che si riflettono sul destino futuro perché estendono il loro effetto oltre la morte. L'anima dopo la morte si incarna in un nuovo corpo di esistenza superiore o inferiore, in base al modo in cui l'individuo ha vissuto.

La seconda parte (Che cosa sperimentò Israele) indaga "una fede che cerca di comprendere" ed è dedicata a esaminare il messaggio veterotestamentario, che risulta sorprendente: «Quando si apre l'Antico Testamento», scrive l'autore, «e gli si chiede che cosa abbia da insegnare sulla morte e su cosa ci sia dopo la morte, ci si trova dapprima di fronte a un fenomeno inaspettato. Si incontra uno scetticismo profondo rispetto a tutte le idee religiose sull'aldilà» (p. 69). Nell'Antico Testamento ci sono ampie sezioni che non considerano l'esistenza di una vita dopo la morte. Il Salmo 39 ricorda che la vita dell'uomo si dilegua e il suo spirito si dissolve, il suo corpo ridiventa polvere. In effetti sembra permeare l'idea di un radicale aldiquà: la vita vera è in questo mondo, nella storia che si avvicenda, luogo della benedizione, della gioia e della lode di Dio. Tale modo di pensare era comune in molti popoli dell'antico Oriente. Il mondo delle "ombre", lo Še’ôl, l'Ade,il mondo degli inferi, era presente anche nel mondo greco. L'epopea mesopotamica di Gilgamesh narra l'impossibilità di raggiungere la vita eterna.

La fede nella risurrezione dei morti trova una sua iniziale espressione alla fine dell'Antico Testamento, nonostante ciò non tutte le correnti all'interno del giudaismo recepirono la fede in una risurrezione dei morti. Al tempo di Gesù, infatti, il gruppo dei "sadducei" la rifiutava (cf. Mt 22,23) poiché non contemplata nella Tôrâ. Lohfink fa presente che Israele è stato sempre convinto del valore insostituibile della vita terrena, e «la teologia cristiana deve continuare a conservare in sé la centralità che l'aldiquà ha ricoperto nel pensiero d'Israele» (p. 92). Comunque il rifugio sicuro in Dio e la fede incipiente nella risurrezione, affermano che, seppur attraverso un percorso lento e complesso, il popolo di Israele fece sua la «fede in una vita eterna presso Dio» (p. 95).

Nella terza parte (Che cosa venne al mondo con Gesù) Lohfink concentra l'attenzione sulla predicazione e le azioni prodigiose di Gesù, nelle sue azioni fu Dio stesso ad agire: la verità di Dio divenne in lui realtà visibile, tangibile. Gesù annunciava il Regno di Dio, ha chiamato i discepoli a seguirlo e li ha invitati a unire Israele sotto la signoria di Dio che trasformerà il mondo. I Vangeli narrano dei miracoli e delle opere prodigiose compiute da Gesù, ma, al contempo, ci fanno anche vedere l'impotenza di Gesù, in piena sintonia con il suo messaggio. Gesù, ad esempio, fu impotente di fronte alle calunnie dei suoi avversari e accusatori. Ugualmente la sua impotenza si manifesta quando alcuni discepoli non lo comprendono e lo abbandonano. Impotenza anche di fronte alla morte che avrebbe dovuto dire la parola fine sulla sua esistenza, come d'altronde pensano i discepoli che tristi vanno verso Emmaus. Gesù, invece, diventa il primogenito dei morti, sottolineando in particolare il realismo del racconto dell'evangelista Luca, il quale «vuole dire ai suoi lettori che la salvezza dalla morte è più che un evento puramente spirituale. È l'uomo intero ad essere redento, non solo il suo spirito. Non è salvata un'anima diafana ma la storia della nostra vita tutta intera, la nostra carne e il nostro sangue, tutto ciò che noi siamo stati» (p. 117).

Nella quarta parte (Che cosa avverrà di noi) si snoda il nocciolo della questione come se - scrive Lohfink - «tutto quello che si è detto finora è stato una preparazione, un'introduzione e l'interesse sarà rivolto soprattutto all'interpretazione teologica delle affermazioni della fede» (p. 131). La quarta parte ha il suo fondamento nella risurrezione di Gesù perché l'escatologia cristiana interpreta soltanto ciò che è accaduto nella predicazione, nella vita, nellamorte e nella risurrezione di Gesù. Vita, morte e risurrezione sono il punto di partenza e il centro di tutta l'escatologia cristiana. L’autore riflette sul destino dell'uomo e affronta alcuni argomenti molto importanti e delicati: l'incontro definitivo con Dio (p. 132), la morte come giudizio e il giudizio come la misericordia divina (pp. 143-153), la purificazione nella morte e l'esistenza dell'inferno (pp. 158-166). Numerose e complesse sono le altre argomentazioni proposte da Lohfink: l'essere umano intero, tutta la storia del mondo, la creazione intera, la città desiderata, sulla relatività del tempo, sulla sopravvivenza dell'anima, sulla partecipazione.

Nella morte l'uomo incontra Dio, ma di certo ciò avviene anche prima della sua morte, spesso senza saperlo, nella sua felicità, nel suo lamento, nella sua tristezza. In tutto l'impianto l'autore pone costantemente l'accento sull'infinita misericordia di Dio e sulla volontà divina di non lasciare che vada perso ciò che è stato creato. Gesù Cristo sarà il "luogo" del nostro incontro con Dio nell'aldilà della storia, sarà, per tutta l'eternità, ciò che è stato quando era nella sua forma umana tra gli uomini, colui nel quale ci è donata la vita e Dio ci dice la parola eterna del suo amore.

Il libro si conclude con il capitolo Che cosa possiamo fare, e si affronta il tema della vera sollecitudine verso i defunti e il morire cristiano. Come accennato nella prima parte, il lutto per i defunti ci deve essere stato fin dall'inizio: quanto più l'uomo diventava tale e quanto più cresceva in lui la comprensione della separazione dai defunti, tanto più naturale e al tempo stesso umano doveva diventare il lutto. Con un linguaggio che non vuol essere convenzionale e scontato, l'autore fa risplendere la forza della risurrezione, la risurrezione di Cristo, che diventa poi la nostra. In particolare, mostra di parlare di eventi che non si collocano in un remoto futuro; la loro prossimità a noi, anzi, è tale da superare le nostre capacità di comprensione. All'alternativa tra il "nulla" e la "risurrezione dei morti" generalmente noi tentiamo di sfuggire in due modi: semplicemente rimuovendo il pensiero della nostra dipartita, oppure raccontandoci una qualche soluzione mediana, del tipo: "alla fine si scompare nella natura", o ''si sopravvive nei discendenti", come già visto nella prima parte.

Lohfink prende in esame proprio queste soluzioni illusorie, mostrando come esse non siano delle vere possibilità. Alla fine resta un vero aut aut: o la risurrezione o l'inesorabile nulla. La conclusione a cui giunge l'autore è costituita da una chiara riaffermazione della verità salvifica della risurrezione di Cristo.

La Bibliografia di ben 11 pagine mostra con accuratezza come l'autore sia riuscito a sostenere il suo impianto teologico, anche se la presentazione organizzata dell'abbondante bibliografia di riferimento avrebbe indirizzato il lettore agli argomenti trattati. Chiude il saggio l'Indice dei nomi.

Il testo di Gerhard Lohfink può sembrare che sia destinato solo ad addetti ai lavori, a coloro che vivono l'ambiente ecclesiale, ma è invece un testo per tutti quelli che vogliono interessarsi dell'uomo e del suo futuro, una possibilità per ritornare a discutere su come e quando i segni descrittivi dell'annuncio passano anche attraverso lo studio delle Scritture perché ci si rende consapevoli di quanto sia liberante la fede cristiana nella risurrezione dei morti. Il cristiano può vivere senza affanni nel "qui e non ancora", perché ogni istante della sua vita ha importanza e può essere vissuta nella speranza, anzi, sublimemente afferma l'autore, vissuta nella forma più alta di preghiera: l'adorazione. In essa il nostro animo è appagato e non vogliamo più niente da Dio, nell'adorazione il nostro sguardo è rivolto esclusivamente su Dio e noi siamo, già da ora, presso Dio. Quando ci fermiamo in adorazione, in quel momento inizia già l'eternità, uno spazio e uno stato che non ci rende estranei al mondo, ma che ad esso si apre senza riserve, certi di essere, figli nel Figlio, destinati all'Eterno.


A. Clemente, in Asprenas n. 1-2/2022, 202-205

Superati gli ottant'anni di età, Gerhard Lohfink torna su un tema che l'ha visto impegnato lungo tutta la sua carriera universitaria, da quando, cioè, nel 1975, insieme a Gisbert Greshake, pubblicò, per i tipi della Herder, Naherwartung, Auferstehung, Unsterblichkeit. Nel suo ultimo volume, recentemente tradotto in italiano e inserito da Queriniana nella «Biblioteca di Teologia Contemporanea», Lohfink depone il paludamento dell'accademico per rispondere, alla luce della rivelazione cristiana, alle domande che ogni uomo si pone di fronte all'enigma della morte. L'esito del suo lavoro è un saggio che si legge tutto d'un fiato e che trae ispirazione principalmente dai testi dell'Antico e del Nuovo Testamento, senza, però, la pretesa d'affrontare le singole questioni esegetiche che essi sollevano.

Il volume è ben congeniato. Nella prima parte – che potremmo definire «di contesto» – l'A. offre una panoramica sulle risposte dei nostri contemporanei al problema della morte: sopravviviamo nei nostri discendenti; la nostra anima migra in un altro corpo; veniamo reimmessi nei cicli della natura; ci affranchiamo dal peso della malattia e della vecchiaia. Nessuna di queste risposte riesce, però, a soddisfare pienamente gli interrogativi che l'esistenza pone, per cui, alla fine, l'A. scorge un'unica alternativa: o la risurrezione dai morti, o il nulla. È quanto si evince già da 1 titolo del volume: Alla fine il nulla?

Sulla base di ciò, la seconda e la terza parte del saggio rappresentano un percorso biblico, incentrato sul tema della risurrezione: in particolare, sulla sua genesi (per quanto riguarda l'AT) e sulla sua reinterpretazione cristiana (per quanto riguarda il NT). Nei diversi capitoli emerge una tesi di fondo, che viene più volte ripresa e che, quindi, merita particolare attenzione. L'A. è persuaso che, per Israele, la vera vita sia in questo mondo, perché YHWH è il Dio della creazione e della salvezza, è il Dio della vita. Sarà proprio a partire da questa consapevolezza che Israele arriverà a sperare nella vittoria di Dio sulla morte. L'A. riscontra questa costante anche nella predicazione e nel ministero di Gesù: annunciando il Regno di Dio, egli ne proclama la venuta in questo mondo, come rivelano le sue parabole e i suoi miracoli. È stato poi l'evento pasquale ad avere aperto la fede della Chiesa alla speranza nella risurrezione, da pensare, però, come l'ingresso di ogni momento della vita dell'uomo nel mondo di Dio.

Di particolare interesse l'interpretazione che l'A. dà delle apparizioni post-pasquali: le visioni erano fenomeni assai diffusi nella cuItura del tempo: Dio si è servito di questo genere d'esperienza umana per rivelare la salvezza di Gesù dalla morte (cf. p. 114).

La quarta parte del volume (la più ampia) è riservata a una riflessione sistematica sul significato della risurrezione dei morti all'interno dell'escatologia cristiana. Essa è speranza di salvezza di tutto l'uomo: della sua storia, delle sue relazioni, del suo mondo. Come dice poi l'espressione – «risurrezione dei morti» –, è una speranza «al plurale». Non a caso l'Apocalisse, tra le immagini che usa per descrivere la condizione escatologica, ricorre a quella della città. La risurrezione avverrà alla parusia di Cristo, che l'A. intende come «il "presentarsi" di tutti gli uomini, nessuno escluso, che "insieme” e "al contempo" incontrano Cristo nella loro morte» (p. 211).

Questa ben nota tesi dell'A. viene riproposta, corredata da un'approfondita riflessione sull'uso analogico delle categorie temporali oltre la morte. Nonostante la «simultaneità» delle «risurrezioni» dei morti, l'A. non tralascia il valore fondativo e paradigmatico di alcune di esse, in particolare di quella di Cristo e di Maria, mostrando così di accogliere le osservazioni contenute nella celebre lettera della Congregazione per la dottrina della fede, del 1979, su alcune questioni di escatologia. Non mancano, infine, alcuni accenni al significato del giudizio, dell'inferno e dell'anima, che recepiscono le principali istanze della teologia contemporanea a riguardo. Il giudizio è, al tempo stesso, buona notizia ed evento di purificazione. L'inferno è un'opzione reale, sebbene si debba sperare che nessuno la faccia propria. L'anima è il concetto dialogico di cui la teologia si serve per colmare l'abisso tra la morte e la risurrezione: essa, infatti, deve la sua immortalità a Dio, non a se stessa.

Il volume termina con una sezione di taglio pastorale, che si concentra, da una parte, sui mezzi di cui i fedeli dispongano per esprimere la loro solidarietà coi defunti (impegno per il Regno, preghiera, cammino di conversione, celebrazione dell'eucaristia, esperienza della comunione ecclesiale). Dall'altra, evidenzia l'attualità dell'escatologia: ogni nostro istante è anticipo della vita eterna, in quanto in essa confluirà tutta la nostra esistenza, momento per momento. Questa consapevolezza non deve diventare una zavorra che ci fa ripiegare ancor di più su noi stessi, ma una spinta per diventare «liberi per gli altri» (p. 254), l'unico atteggiamento col quale possiamo costruire qualcosa d'eterno.

Tra i numerosi pregi del volume, ne indichiamo tre: l'unitarietà dell'argomentazione, resa possibile dalla centralità del tema della risurrezione, caratteristica non comune per un saggio di escatologia, sempre esposto al rischio della frantumazione, l'immediatezza del linguaggio, che rende il volume estremamente fruibile anche ai non addetti ai lavori: la qualità della traduzione, curata da Valentino Maraldi.


F. Badiali, in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 2/2021, 533-535

L’interrogativo posto nel titolo del libro Alla fine il nulla? - presente pure nel titolo originale in lingua tedesca del 2017 - ha il tono provocatorio di chi vuole attirare l'attenzione su una questione importante: cosa c'è dopo la morte? L'A. del libro è il noto biblista Gerhard Lohfink, nato nel 1934, che attualmente vive e lavora come teologo nella Katholische Integrierte Gemeinde (Comunità cattolica d'integrazione), nata con lo scopo «di rendere presente il vangelo in un mondo secolarizzato» affinché «anche i lontani possano trovare di nuovo un accesso alla fede della chiesa cattolica» (Statuti, 1978). Già a conclusione del libro Dio ha bisogno della chiesa? Sulla teologia del popolo di Dio (San Paolo 1999) egli aveva affermato che ciò che si vive nella "comunità di fede" deve essere «sperimentabile concretamente» altrimenti potrebbe trasformarsi in qualcosa di veramente "pericoloso". Nel caso della chiesa, coloro - e sono molti - che si sono riuniti con lo scopo di costruire qualcosa di nuovo con le proprie mani, si sono talvolta trovati delusi. «Forse ci sarei anch'io tra questi delusi se nel 1982 [...] non avessi incontrato la Integrierte Gemeinde (Comunità d'integrazione). Essa rappresentò la risposta ai molti interrogativi sul rinnovamento della chiesa che da lungo tempo m'appassionavano» (p. 383), interrogativi spesso presenti nei titoli dei suoi libri (Per chi vale il discorso della montagna?, 1990; Dio ha bisogno della chiesa?, 1999; Gesù come voleva la sua comunità?, 2015). A ogni modo dopo l'abbandono nel 1987 dell'incarico di docente ordinario di Nuovo Testamento presso l'Università di Tubinga, Lohfink orientò il suo lavoro di ricerca su tematiche di area teologica, di ecclesiologia e di escatologia con un taglio sistematico-propositivo. Pubblicò La morte non è l’utima parola (1993) e alcuni lavori sulla figura di Gesù (Gesù di Nazaret: cosa volle, chi fu del 2014 e Contro la banalizzazione di Gesù. Discorso su Gesù e sulla chiesa del 2018), ma in Alla fine il nulla? decise di affrontare il tema della risurrezione e della vita eterna, evitando di dilungarsi sul noioso dibattito delle diverse opinioni teologiche, con l'unico scopo di mostrare come le soluzioni intermedie e apparenti non siano delle vere possibilità, in quanto «alla fine resta un vero "o... o". O risurrezione o l'inesorabile nulla» (p. 5). Perciò ecco la domanda: cosa c'è dopo la morte?

Quanto sia insopprimibile la domanda è documentato sin dal primo stadio dell'umanità nei riti di sepoltura, nel pensiero filosofico, nelle iscrizioni funerarie sulle tombe, nell'antica credenza della natura divina dell'anima o in quella della sopravvivenza nella discendenza, oppure nella fede nella reincarnazione, nell'idea che con la morte tutto si dissolve nell'universo in quella "Madre natura" da cui tutto emana e tutto a se stessa riconduce, oppure ancora che la morte coincida con il desiderio di spegnersi uscendo autonomamente da questo mondo, per propria libera scelta. Oggi il desiderio dell'aldilà si colora di esoterismo, ma la domanda sulla sorte dell'uomo dopo la morte non si è ancora tacitata: riemerge sotto tanti aspetti perché «fa parte dell'essenza dell'essere umano che, in tutto ciò che fa, si protende verso l'infinito» (p. 60).

L’A. dopo questo piccolo scorcio iniziale su Cosa si pensa nell'aldilà (parte prima) che gli è servito a mostrare come dal punto di vista delle possibilità umane non ci sia una risposta univoca alla domanda, orienta la pista della ricerca verso una risposta teologica proveniente dall'esperienza ebraico-cristiana, in cui egli trova una particolare conoscenza su ciò che accade dopo la morte. È una conoscenza per esperienza che Israele fa passando «soltanto attraverso Dio» e «mediante una fede che si mette in ascolto» della Rivelazione (p. 67). Israele si mostra scettico nei confronti di tutte le idee religiose sull'aldilà di cui viene a conoscenza e afferma un "radicale aldiquà". La vita vera è in questo mondo, dove l'essere umano è stato posto dal Creatore. Per questo prende le distanze dall'ambiente religioso circostante, convinto com'era che «il suo Dio era un Dio per questa vita» e di «essere al sicuro nelle sue mani» (p. 79). Per quanto riguarda la fede nella risurrezione dei morti, il suo sviluppo è avvenuto in modo incipiente nella tradizione apocalittica come certezza della fedeltà di Dio che supera la morte. Non fu frutto di una fede speculativa né un'idea di risurrezione nella trascendenza bensì consapevolezza maturata nel tempo che «il luogo della vita nuova è il mondo terreno rinnovato da Dio» (p. 87). La fede nella risurrezione andò formulandosi in epoca tardiva come risurrezione "donata" da Dio.

Per Lohfink, sia la fede cristiana sia la teologia cristiana devono conservare "la centralità che l'aldiquà ha ricoperto nel pensiero di Israele» (p. 92). Del resto anche Gesù ha annunciato la "signoria di Dio" (il Regno di Dio), la venuta definitiva di Dio per condurre «liberamente la creazione a diventare ciò che essa deve essere» secondo il disegno del Creatore. E Gesù si è pienamente inserito nel mondo creato, ha accettato di apparire impotente di fronte al male sebbene abbia compiuto azioni prodigiose e di confidare totalmente in Dio. Questo diventa evidente nella risurrezione e nelle apparizioni sperimentate dai discepoli espresse nei termini della corporeità, eventi nei quali essi hanno potuto comprendere che la redenzione non è liberazione dal corpo bensì inaugurazione di un nuovo mondo messianico che riguarda tutti e tutto l'essere umano, la sua storia, il suo mondo, le sue relazioni, il suo essere proteso verso l'infinito. Per Lohfink risurrezione dei morti e creazione nuova sono concetti da tenere insieme perché fondati nella risurrezione di Gesù. Anche la conoscenza delle cose ultime (escatologia), ossia di ciò che avverrà di noi, deve essere ricondotta al Cristo risorto, al Cristo che risorge come "luogo" dell'incontro con Dio. Infatti «senza di lui, per noi non c'è risurrezione, né tantomeno c'è un incontro definitivo con Dio» (p. 132).

Su questo fondamento l'A. affronta nella quarta parte alcuni argomenti classici dell'escatologia: l'incontro definitivo con Dio, la morte, il giudizio, la purificazione dopo la morte, l'inferno, la città desiderata, la relatività del tempo, la sopravvivenza dell'anima, la partecipazione degli uomini risuscitati alla gloria di Gesù risorto e alla vita del Padre, la partecipazione dell'intera creazione alla vita del Dio trinitario.

Egli tuttavia non perde occasione di avvertire il lettore che le affermazioni riguardanti Dio e la risurrezione dei morti utilizzano un "linguaggio metaforico", che si parla per "analogia" poiché la «dissomiglianza è maggiore della somiglianza» (p. 131). Alla fine (parte quinta: Che cosa possiamo fare) Lohfink offre alcune indicazioni di carattere pastorale sulla sollecitudine per i defunti e sul morire cristiano (ars mariendi)concludendo con una domanda curiosa: “Quando inizia l'eternità?”. La risposta: oggi, ora, qui! «Perché il regno di Dio è già in mezzo a voi» (Lc 17,21). Non c'è infatti discontinuità tra presente e futuro (escatologia del presente), tra esistenza finita ed eternità, tra relazioni individuali e partecipazione alla vita divina.

L'argomento del libro è interessante in quanto ci riguarda come esseri umani dotati di desiderio d'infinito. "Cosa c'è dopo la morte?" è la "domanda delle domande". Lohfink risponde in modo perentorio, senza lasciare scampo e senza andare verso soluzioni ingannevoli: il nulla o la risurrezione. La risposta "risurrezione nella morte", al netto da un influsso platonico, viene rivelata all'uomo dal Cristo risorto e che risorge cioè da Colui che tutto rinnova e tutto ricapitola senza che nulla vada perduto.

Su questo principio di fede, Lohfink traccia un percorso biblico-apocalittico e teologico nel quale viene messa da parte qualsiasi visione dualistica (corpo e anima, aldiquà e aldilà) mostrando come tutto riceve unità e compimento nella risurrezione di Cristo. Il libro si lascia leggere con curiosità in quanto prende sul serio molti interrogativi riguardanti la vita futura dell'essere umano per dare una risposta all'uomo di oggi che sembra lasciare ai margini dell'essenza umana il desiderio di immortalità.


G. Zambon, in Studia Patavina 2/2021, 360-363

Il libro di cui è chiesta la nota è la traduzione di Am Ende das Nichts? Über Auferstehung und Ewiges Leben (Freiburg 2017); l’autore Gerhard Lohfink (1934-), già professore di Nuovo Testamento all’Università di Tübingen, è un esegeta e un teologo di rilievo, anche perché sempre attento a proporre in un modo non astruso, ma “vicino” e comprensibile le sue pur rigorose ricerche. Possiamo qui ricordare due testi significativi: Wie hat Jesus Gemeinde gewollt? Zur gesellschaftlichen Dimension des christlichen Glaubens (Freiburg 1984) e Jesus von Nazaret. Was er wollte, Wer er war (Freiburg 2011). Non fa eccezione il libro in esame, il quale, arrivando in un’età abbastanza avanzata, si propone come l’espressione più matura delle conoscenze e della saggezza di una vita, che sa andare all’essenziale delle questioni, riuscendo a comunicarlo. E qui si tratta niente di meno che delle questioni escatologiche, da sempre difficili, da credere e di conseguenza anche da spiegare. Ma Lohfink le affronta in modo esemplare, guardando da una parte alla sua esperienza di credente e di studioso, e dall’altra a un mondo in cui l’aldilà è pensato spesso con scetticismo. Per questa ricchezza l’analisi del libro si offre anche come l’occasione per fare un po’ il punto sulla situazione attuale dell’escatologia, che in ambito tedesco ha negli ultimi anni presentato almeno altri due testi interessanti: J. Wohlmuth, Mysterium der Verwandlung (Paderborn 2005); J. Rahner, Einführung in die christliche Eschatologie (Freiburg 2010).

Cominciando dalla struttura del libro, ne cogliamo subito la linearità e la chiarezza: dopo un primo capitolo su “La domanda delle domande”, cioè quella sull’oltre la morte, seguono il capitolo sulla fede nell’Antico Testamento, quello sul Nuovo Testamento, quello sulla sistematizzazione delle varie questioni e infine quello intitolato “Che cosa possiamo fare”, sul rimbalzo nella vita del discorso escatologico. All’interno di questa struttura Lohfink organizza i vari elementi del rinnovamento dell’escatologia del secolo scorso: non potendo elencarli tutti, ne ricordiamo due particolarmente importanti, perché capaci di cambiare non solo la visione di singoli temi, ma anche l’approccio alle questioni escatologiche, dei teologi ma anche dei cristiani in generale.

1) Innanzitutto lo smascheramento, alla luce di una lettura fedele del giudizio di Dio nella Scrittura, della falsa dialettica tra misericordia e giustizia: «I grandi testi biblici sul tema della “misericordia di Dio” non partono affatto da considerazioni teoriche, al di fuori del tempo e staccate da situazioni concrete. Esse sono sempre inserite nella storia drammatica di Dio con il suo popolo […] nella Bibbia si descrive come la misericordia di Dio si manifesti, di fronte al peccato e alla perdizione di Israele, entrando nelle più diverse situazioni storiche» (p. 134). Diventa perciò inutile, e al limite anche stucchevole, andare a ragionare su cosa, tra la misericordia e la giustizia, prevale o su qual è il loro rapporto.

2) Va poi sottolineata l’idea della “risurrezione nella morte”, che Lohfink ha già proposto anni fa insieme a G. Greshake in Naherwartung, Auferstehung, Unsterblichkeit. Untersuchung zur christlichen Eschatologie (Freiburg 1975), un testo che ha acceso un vivace dibattito nel mondo teologico. All’idea, differenziandosi in questo percorso da Greshake, Lohfink arriva lavorando sul tempo: «Ci si chiede: “nella” morte o “dopo” la morte c’è ancora il tempo nel senso terreno? Si ritiene che, perlomeno, questo “tempo” dell’aldilà non possa più essere commensurabile con il tempo terreno. Per questo motivo, l’”intermedio” fino alla risurrezione universale dei morti non si potrà formulare semplicemente con i concetti usati per il tempo terreno. Pertanto, si parla di risurrezione “nella” morte, tenendo presente però che ovviamente anche questo “nella” è un concetto analogo, del quale non ci si può più fare una rappresentazione» (p. 184). La distinzione tra il tempo di qua e il “tempo” di là non è nuova, nella sua schematicità anni prima l’aveva presentata anche E. Brunner in Das Ewige als Zukunft und Gegenwart (Zürich 1953): la peculiarità di Lohfink sta nell’averla approfondita ed elaborata come una delle chiavi per capire tutta l’escatologia, riuscendo in tal modo a tenere insieme l’uomo, la storia e il mondo, e a superare perciò la deleteria dicotomia tra escatologia individuale ed escatologia cosmica.

«Morendo, e lasciandosi alle spalle il tempo terreno, la persona arriva a quella dimensione in cui giunge alla sua fine o al suo compimento “contemporaneamente” ad essa tutta la restante storia, che intanto, nella dimensione del tempo terreno, può aver percorso tratti di strada infinitamente lunghi. Ovviamente, in questa formulazione, il “contemporaneamente” va compreso in senso analogico e non come contemporaneità temporale terrena» (p. 209). Questa posizione sulla risurrezione rappresenta una delle idee più geniali nel rinnovamento dell’escatologia.

Nel libro Alla fine il nulla?, come il frutto dello studio di una vita, riconosciamo dunque una sorta di compimento di tanti spunti che hanno arricchito e trasformato la riflessione escatologica degli ultimi decenni, per i cattolici del dopo Concilio, quella, per intenderci, debitrice in sostanza alle idee e alle prospettive contenute, come piccoli semi, in due saggi: H. U. von Balthasar, Eschatologie (Einsiedeln 1957) e K. Rahner, “Theologische Prinzipien der Hermeneutik eschatologischer Aussagen” (in Schriften zur Theologie, IV, Einsiedeln 1961, 401-428). Ma proprio in quanto porta a maturazione le linee secondo cui si è sviluppata l’escatologia recente, il nostro testo abita come un limite bifronte, perché compiendosi quelle linee hanno detto quanto potevano dire, tutto quanto era compreso nelle loro conoscenze, opzioni e prospettive, affidando perciò ad altri, ad altre conoscenze, opzioni e prospettive, il compito di continuare a pensare le questioni escatologiche. Il fatto che ormai diffusamente, anche se in forme diverse, si parla di uno sviluppo del dogma, testimonia che anche per la teologia vale ciò che appartiene alla logica scientifica, e cioè che ogni meta raggiunta è al tempo stesso un punto di partenza per l’ulteriore ricerca, spesso da assumere in “paradigmi” diversi.

Così nel testo di Lohfink è possibile individuare l’emergere di alcune questioni “nuove”, che restando tali rappresentano il da pensare dell’escatologia contemporanea e quindi il compito a cui i teologi sono chiamati per evitare che i trattati escatologici si giustifichino soltanto per sfumature quasi insignificanti. Considerare sotto questo aspetto il nostro testo non significa, sia chiaro, ridurne il valore, ma anzi riconoscere che ha compiuto perfettamente il suo compito scientifico. Allora, a partire da alcuni suoi passaggi, vediamo di fissare quei punti che, a nostro avviso ovviamente, possono arricchire il futuro dell’escatologia.

1. «Cosa c’è dopo la morte?» (p. 11): il cap. I inizia con questa domanda, che sembra voler guidare la riflessione seguente, e, dopo aver presentato le diverse risposte, si conclude con altre domande, tra cui: «Il nostro io svanisce per sempre? o dopo viene quella vita che i cristiani, con un’espressione così logora e comunque insostituibile, chiamano “beatitudine eterna”?» (p. 60). In questo modo l’escatologia si ritrova collocata da subito all’interno di una prospettiva antropologica, alla luce della quale vengono organizzate le varie questioni, in sostanza diventa la risposta a questa e ad altre domande a questa correlate. Ora, che la morte sia il grande interrogativo per l’uomo – potremmo azzardare di ogni tempo? – è fuor di dubbio, ma è ancora un interrogativo neutro, per tutti, in varie forme a seconda delle culture, per cui l’escatologia assume un’impostazione che certamente co-risponde all’interesse di molti (speriamo!), ma non corrisponde all’interesse del cristianesimo pimitivo che ha dato, o dovrebbe dare come il tono alla riflessione teologica successiva. Quando E. Käsemann nel celebre saggio Die Anfänge christlicher Theologie (in Zeitschrift für Theologie und Kirche, 57, n.2 (1960) pp. 162-185) ha sostenuto che «l’apocalittica è la madre della teologia cristiana», al di là dei riferimenti al discorso che andava facendo, intendeva dire che la teologia – e di conseguenza l’escatologia – nasce dall’interesse cristologico per la venuta di Gesù, che genera la domanda fondamentale su chi è il Signore della storia, e che perciò è a partire da qui che vengono fuori tutte le altre domande teologiche. Non dimentichiamoci che la questione della risurrezione dei morti nel Nuovo Testamento compare di fronte alla morte di cristiani che sembravano così esclusi dalla partecipazione alla venuta prossima di Gesù (1Tes 4,13-18). È a partire dalla questione della parusia, perciò, che nell’escatologia l’uomo e il mondo si trovano correlati, e quindi vanno pensati, e non a partire dalla struttura dell’esistenza umana e dal suo interrogativo sulla morte.

2. «Ci si deve domandare: secondo quale schema rappresentativo, secondo quale forma i primi testimoni percepirono l’evento pasquale? che cosa fu sperimentato dai discepoli, nelle apparizioni pasquali, di ciò che era accaduto a Gesù? Questo interrogativo viene posto raramente perché la risposta appare ovvia: i discepoli sperimentarono Gesù come risorto dai morti. In realtà, qui non c’è nulla di ovvio, perché, nel giudaismo dell’epoca, c’erano tante altre forme rappresentative con le quali i discepoli avrebbero potuto esprimere la loro esperienza pasquale» (p. 118). A proposito della risurrezione di Gesù, Lohfink si pone questa domanda intelligente e tutto sommato rara. Ma si può anche allargare la faccenda, domandandosi in quale contesto è stato possibile ai discepoli parlare di risurrezione di Gesù e vedere così che la risurrezione era uno degli elementi fondamentali della visione/“spiritualità” apocalittica. I discepoli è con occhi apocalittici che “vedono” l’evento pasquale, e questo perché cercavano di seguire lo sguardo di Gesù che si rifletteva nella sua predicazione e nei suoi gesti prodigiosi. Ecco allora che l’escatologia non può evitare di domandarsi sul contesto apocalittico di Gesù e del cristianesimo primitivo. Certo ne è passato di tempo, in tutti i sensi, dalla Geschichte der Leben-Jesu-Forschung (Tübingen 1913) di A. Schweitzer, ma qualche suo spunto può essere fruttuoso ancora oggi.

3. «Ciò che una volta la fede ha voluto dire parlando del ritorno di Cristo, sarà allora realmente e totalmente vero, non però nella forma di uno spettacolo apocalittico davanti agli occhi del minuscolo sottoinsieme dell’intera umanità del mondo di tutti i tempi ancora casualmente vivi nel momento x, ma in forma totalmente altra: come il “presentarsi” di tutti gli uomini, nessuno escluso, che “insieme” e “al contempo” incontrano Cristo nella loro morte» (p. 211). È evidente che parlare di parusia e apocalittica impone la domanda ermeneutica, ma la risposta che troviamo in questo passaggio potremmo vederla come una “traduzione moderna” che si lascia l’apocalittica alle spalle. Ma l’escatologia non può liquidare facilmente l’apocalittica, come avendone distillato il nucleo, perché questi nuclei rivestiti culturalmente, di cui spesso in teologia si parla, in realtà non ci sono, o, se si preferisce, sono inafferrabili. Dunque l’escatologia deve pazientare di più con l’apocalittica, restandovi dentro e pensandola seriamente e costantemente, quasi come una compagna di viaggio, un po’ impertinente, di tutti i suoi ragionamenti che mette in questione le sue soluzioni “moderne”.

4. «Una seconda considerazione preliminare: di ciò che accade dopo la morte si può parlare solo per immagini. Tutte le affermazioni sulla risurrezione dei morti, esattamente come le affermazioni su Dio, sono un “linguaggio metaforico”. La teologia parla per “analogia”. Ciò significa: in ogni discorso su Dio e sulla vita definitiva con Dio la dissomiglianza è maggiore dellla somiglianza» (131). Entrare nel problema dell’apocalittica in particolare e dell’escatologia in generale significa confrontarsi con un mondo diverso dal nostro – Bultmann lo chiama mitico, ma è frettoloso – e perciò in ultimo anche con un linguaggio diverso dal nostro. Ma la questione del linguaggio non vale solo per l’escatologia, perché riguarda l’intera teologia, tanto che Lohfink parla giustamente di una “considerazione preliminare”. Però… immagine, metafora, analogia, e in altri autori troviamo anche simbolo, sono parole diverse, con significato diverso, tutt’altro che intercambiabili, per cui: che tipo di linguaggio è quello escatologico? Immaginifico? metaforico? analogico? simbolico? E poiché ognuno di questi linguaggi ha una sua “logica”, non è indifferente per la ricerca escatologica approfondire la questione, magari privilegiando il tema della metafora, che Paul Ricoeur in La métaphore vive (Paris 1975) ci ha mostrato essere più che una semplice figura retorica e poetica, per cui possiamo e dobbiamo parlare anche di metafore vere.

5. «Quando incontreremo Dio nella morte riconosceremo, per la prima volta e in modo assolutamente chiaro, chi siamo veramente. Dio non ha bisogno di ergersi giudice al di sopra di noi; non ha bisogno di convincerci, come fanno i giudici umani nei confronti degli imputati; non ha bisogno di dirci: hai sbagliato miseramente in questo e quest’altro punto, ti devo rimproverare questo e questo, la tua colpa è questa e quest’altra, ti devo condannare. Non ci sarà nessun giudizio di questo tipo. Nell’incontro con il Dio santo, i nostri occhi si apriranno su noi stessi. Conosceremo chi siamo. Noi stessi giudicheremo e condanneremo il male in noi. L’incontro con Dio sarà per noi un autogiudizio» (p. 151). L’immagine, meglio: la metafora del giudizio ci apre a quello che è il compito più difficile per l’escatologia del futuro, un’impresa quasi disperata, perché la mentalità giuridica è come una pericolosa seconda pelle dell’uomo religioso, dalla quale i trattati escatologici non ci hanno ancora liberato. Questo accade perché se nei vari libri esplicitamente la neghiamo o la interpretiamo, in realtà non ci rendiamo conto della fiction, visto che da una parte continuiamo a usare il linguaggio giuridico, dall’altra ci illudiamo che per cambiare una mentalità, che testimonia di un modo di porsi nella vita, basta dire che è sbagliata, ammissione che invece riguarda il mero aspetto intellettuale.

Così in fondo l’idea dell’autogiudizio sembra essere usata come una sorta di parola magica per far dimenticare il Dio terribile e castigatore e segnare il passaggio della responsabilità dell’inferno dal Dio padre all’uomo peccatore, al punto che, contenti di questa conquista, non riflettiamo oltre: hai visto mai che compaiano altri problemi? Ma è una vittoria di Pirro, e per due ragioni. La prima: nella Scrittura il giudizio escatologico è opera peculiare di Dio che sconfigge i nemici e riafferma la sua divinità, sulla storia e quindi sul singolo, e non è certo l’opera decisiva dell’uomo. La seconda: in un simile scenario il Dio creatore e salvatore, che Gesù ci ha insegnato a chiamare padre e che come tale sempre accompagna l’uomo durante la sua vita, se ne distanzia proprio nel momento finale, e come un notaio prende atto o come un ragioniere fa la somma tra bene e male. Non c’è niente da fare: quando si parla di escatologia, ma anche in genere di religione e di rapporto con Dio, non riusciamo a uscire dal linguaggio giuridico, perché non riusciamo ancora a capire la reale portata del linguaggio metaforico della Scrittura. Di fronte a questa complicata riflessione ecco facilmente l’accusa, semplice, di “buonismo”: allora Dio perdona tutti, l’inferno non esiste; o di “relativismo”: allora bene e male sono relativi, l’inferno non esiste; con questo inferno che ritorna e che sembra fatto apposta per corrispondere al nostro bisogno di una nostra giustizia, sotto sotto a volte forse anche vendicativa. Ma l’accusa non coglie proprio nel segno. Qui non si tratta di negare il dogma dell’inferno, che nella sua verità non è soggetto alle mutazioni culturali né è a disposizione di ciò che l’uomo desidera, ma di superare la visione giuridica del rapporto dell’uomo con Dio, una liberazione che fa parte dell’essenza del vangelo annunciatoci da Gesù. Capiamo che è un altro problema. Ma un problema, sembra, quasi irrisolvibile.

Nel 1966 Martin Heidegger concesse un’intervista a Der Spiegel, che però fu pubblicata solo nel 1976 poco dopo la sua morte. Alla domanda sulle capacità dell’uomo di affrontare i problemi contemporanei Heidegger rispose: «La filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera impresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparizione del Dio o all’assenza del Dio nel tramonto» (Der Spiegel, 31 maggio 1976). Parafrasando la conclusione, forse ci resta di preparare, nel meditare la parola di Dio e nel pregare, la venuta dell’idea giusta. Quel giorno la teologia (e non solo) ce ne sarà immensamente grata.


A. Nitrola, in Gregorianum 3/2021, 683-687

Il tema delle cose ultime, di quello che accadrà al mondo, all’universo, all’umanità nel futuro più lontano, al momento del Giudizio Universale, formula misteriosa che racchiude timori e promesse, è sempre stato vitale, ma negli ultimi decenni sembra aver acquistato nuovo interesse e vivacità. Una nuova comprensione della misericordia divina conseguente al Vaticano II ha messo in discussioni molte delle acquisizioni relative ad esso date per assodate. Gerhard Lohfink, uno dei maggiori teologi viventi, lo affronta nel numero 200 della prestigiosa «Biblioteca di Teologia Contemporanea» della editrice Queriniana. Le domande che l’autore si pone sono molteplici, e per molte di esse deve confessare che dare una risposta risulta impossibile. La contemplazione del mistero non risulta per questo inutile. Tutt’altro. Essa porta in sé occasioni di preghiera intensa, di confronto con l’inconoscibile, di considerazione della profondità del creato, di meditazione sulla figura di Gesù, sulla pienezza della sua duplice natura e sulla complessità dell’atto sacrificale che conclude la sua vita umana.
S. Valzania, in RadioInBlu 17 ottobre 2020

Il titolo originale del volume, risalente al 2017, è tradotto alla lettera in italiano. Dunque anche in tedesco vi è un interrogativo, a cui segue un sottotitolo senza che ci sia la presenza di un esplicito «no». La formulazione adottata suona non priva di aspetti paradossali. Sarebbe stato più lineare optare per una titolazione tipo: «Alla fine l’eterno? Sulla risurrezione e sulla vita in Dio». La scelta compiuta dall’anziano biblista gesuita (è nato nel 1934) è giustificata dal fatto che una delle tesi di fondo del volume è legata a un aut aut: o c’è il nulla o c’è la risurrezione e la vita eterna, tertium non datur.

In realtà l’alternativa duale si pone solo in linea di principio; nell’ordine delle convinzioni le cose stanno altrimenti. Il terzo è dato infatti nella mente di molti. Non a caso la I parte del libro, «Che cosa si pensa riguardo all’aldilà» (11-61), s’impegna a descrivere (attraverso una documentazione anche attuale) e a valutare una serie di risposte antiche riformulate, in chiave nuova, nella contemporaneità: disperdersi nella natura, sopravvivere nei discendenti, affidarsi alla trasmigrazione delle anime. Tutte queste prospettive sono giudicate dei palliativi non convincenti. Il discorso va ricondotto a un’unica, radicale alternativa: o il nulla o la risurrezione e la vita eterna.

Chi ci dischiude la prospettiva dell’eterno? La risposta la si trova nella II e nella III parte, intitolate rispettivamente «Che cosa sperimentò Israele» (65-95) e «Che cosa venne al mondo con Gesù» (99-128). Occorre dunque affidarsi al messaggio biblico? Certamente sì; tuttavia il discorso va approfondito.

In quasi tutto l’Antico Testamento la vita dopo la morte è pensata soltanto come una sopravvivenza larvale nello Še’ol, si tratta di una condizione nella quale il trapassato è privo di relazioni con Dio e con gli altri viventi. Israele ha sperimentato la salvezza non già nell’aldilà bensì nella vita e nella storia. Se così si potesse dire, il popolo ebraico uscendo dall’Egitto si è liberato anche dell’ossessione per l’aldilà propria di quella civiltà.

Soltanto negli strati più recenti dell’Antico Testamento si registra una «fede incipiente nella risurrezione» (84-89). Nella parte storica del libro va registrata la mancanza pressoché completa di ogni riferimento all’apocalittica giudaica, vale a dire proprio alla corrente che affermò in modo ampio e riconoscibile l’idea d’immortalità e di risurrezione. Non si tratta, va da sé, di assenza dovuta a ignoranza. Questo buco, inspiegabile se ci si attenesse alla genesi storica delle visioni dell’aldilà, trova la sua ragion d’essere nella estraneità tra la concezione apocalittica del passaggio da questo mondo a quello a venire e la visione della risurrezione e della vita eterna proprie del messaggio evangelico. Si tratta di una differenza tanto radicale da rendere impossibile presentare l’apocalittica come un presupposto all’idea neotestamentaria di risurrezione. Non per nulla Lohfink guarda con maggior attenzione ed empatia ai testi sapienziali deuterocanonici volti ad affermare l’immortalità.

L’osservazione appena compiuta, problematica sul piano storico-culturale, deve misurarsi anche e soprattutto con difficoltà ermeneutiche relative al linguaggio, impregnato di spirito escatologico-apocalittico, presenti in vari testi del Nuovo Testamento. In essi il passaggio da questo mondo a quello a venire si compie attraverso il collasso dell’attuale creazione e l’avvento di un giudizio aperto sul fronte sia della beatitudine sia della dannazione «là dove ci sarà pianto e stridor di denti».

Che pensarne? La sfida interpretativa è affrontata lungo due vettori principali. Il primo è costituito dalla predicazione di Gesù, relativa al regno di Dio, incentrata su una dimensione presente volta a trasformare la storia. La prospettiva consente perciò di recuperare il senso di terrestrità inscritto nell’Antico Testamento. La visione cristiana della risurrezione della carne non nega lo sfondo ebraico. Per l’anti-apocalittico Lohfink l’impegno per trasformare la storia in base al messaggio di Gesù costituisce una caparra della vita eterna.

Il secondo vettore è costituito dalla scelta di privilegiare, nella lettura complessiva del Nuovo Testamento, passi di Paolo e soprattutto di Giovanni. Una espressione riassuntiva di questa posizione la si trova alla fine del volume (250s) là dove si prospetta «l’escatologia del presente». In base a questa visione, la risurrezione dei morti è già ora e ciò costituisce uno sviluppo coerente della «predicazione di Gesù cronistorico». In termini più ampi, la prospettiva consente di collegare la vita eterna con l’impegno storico per la trasformazione del mondo attuato secondo il messaggio evangelico.

Va ricordato che Gerahard Lohfink (al pari del fratello Norbert) fa parte della Katholische Integriete Gemeinde (Comunità apostolica della Chiesa cattolica che, come dato di cronaca, è stata soggetta nel 2019 a visita canonica per iniziativa dell’arcivescovo di Monaco di Baviera). Lo scopo più riassuntivo della Comunità è appunto quello «di rendere presente il Vangelo in un mondo secolarizzato».

Il chiarimento definitivo della posizione di Lohfink si ha nella IV e più ampia parte: «Che cosa avverrà di noi» (da lui stesso giudicata la più importante; 132-230). In essa si concentra la riflessione teologica; mentre la V, «Che cosa possiamo fare», ha un carattere, per così dire, più pastorale (233-257). La IV parte dà ragione delle due espressioni presenti nel sottotitolo. Per risurrezione s’intende l’incontro con Dio grazie a Gesù Cristo nella morte. Non si deve affatto pensare a tombe che si aprono e a corpi che ne escono incorrotti. «Risurrezione della carne» significa che in Dio sarà salvato l’uomo intero, cioè tutto il suo vissuto e tutte le relazioni che lo hanno legato agli altri. Siccome però le relazioni tra gli esseri umani si dilatano sempre più, si conclude che la salvezza è dotata di una portata universale.

«Vita eterna» non significa una vita senza fine. Se così fosse non ci si libererebbe dall’idea (per usare un’espressione hegeliana, invero non adoperata dall’autore) di essere giunti a un «cattivo infinito» (cioè a un finito prolungato indefinitamente). In Dio non c’è né un prima né un dopo. Ciò comporta abbandonare la concezione che distingue nettamente tra giudizio particolare (del singolo dopo la morte) e universale (della storia intera alla fine del mondo).

Con la morte si entra nel «tempo» (le virgolette sono d’obbligo) di Dio che non è paragonabile al nostro. Eppure occorre anche affermare che in quell’eternità sarà purificato e completato tutto quanto di positivo ha contraddistinto la vita degli individui e dell’umanità intera. L’eternità di Dio e quella delle creature umane in Dio sono realtà profondamente diverse tra loro, il loro congiungimento è però possibile perché Dio in Gesù Cristo «si è fatto uomo».

Nulla va perduto nella vita eterna. Provocatoriamente però ci si può chiedere se in essa non vada smarrito proprio il nostro finire che costituisce una struttura fondamentale della nostra esistenza: viviamo in quanto mortali. Lohfink affida alla nozione di anima (intesa in maniera non dualistica rispetto al corpo) l’idea della continuità tra la nostra individualità relazionale e quella futura (212-218); l’opzione costituisce il modo in cui si ripensa a quanto la liturgia afferma dicendo che la vita non ci è tolta ma trasformata (cf. 1Cor 15,51). Tutto allora si concentra in una unica domanda: qual è la trasformazione a cui dobbiamo rivolgere la nostra speranza?


P. Stefani, in Il Regno Attualità 18/2020, 554

«In faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo. Non solo si affligge, l’uomo, al pensiero dell’avvicinarsi del dolore e della dissoluzione del corpo, ma anche, ed anzi più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre. Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona». Queste considerazioni, tanto brevi quanto incisive, tratte dal n. 18 della Gaudium et spes, la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo del Concilio Vaticano II, rappresentano una sintesi particolarmente felice della questione della morte e dell’aldilà, che da sempre ha affascinato e intimorito gli uomini. Lungo i secoli, intorno a essa si sono affaticati filosofi e teologi, scienziati, scrittori e artisti di ogni genere; anche il cosiddetto «uomo della strada» non è mai rimasto insensibile di fronte al grande e drammatico evento della fine dell’esistenza terrena e di un’eventuale sua prosecuzione sotto altre forme in un futuro che va oltre il tempo.

Convinto che non vi siano soluzioni intermedie, Gerhard Lohfink, noto teologo tedesco, per molti anni professore di Esegesi del Nuovo Testamento presso l’Università di Tubinga, fin dal titolo del libro propone un’alternativa che non ammette ulteriori ipotesi: o la risurrezione o il nulla. La conclusione a cui giunge l’autore è costituita da una chiara riaffermazione della verità salvifica della risurrezione di Cristo.

Egli vi perviene attraverso un cammino che si snoda in cinque tappe, che corrispondono ad altrettante parti del volume. Nella prima, intitolata «Che cosa si pensa dell’aldilà», Lohfink fa una breve rassegna delle diverse dottrine che sono state elaborate riguardo a ciò che ci attende dopo la morte: l’immortalità dell’anima di matrice platonica, la continuità della vita attraverso la discendenza, la reincarnazione, la dissoluzione nell’universo, il radicale annientamento.

La seconda parte si intitola «Che cosa sperimentò Israele» ed è dedicata a esaminare il messaggio veterotestamentario, che risulta sorprendente: «Quando si apre l’Antico Testamento – scrive l’autore – e gli si chiede che cosa abbia da insegnare sulla morte e su cosa ci sia dopo la morte, ci si trova dapprima di fronte a un fenomeno inaspettato. Si incontra uno scetticismo profondo rispetto a tutte le idee religiose sull’aldilà» (p. 69). Lohfink fa presente che Israele è stato sempre convinto del valore insostituibile della vita terrena, e «la teologia cristiana deve continuare a conservare in sé la centralità che l’aldiquà ha ricoperto nel pensiero d’Israele» (p. 92). Comunque l’A. afferma che, seppur attraverso un percorso lento e complesso, il popolo di Israele fece sua la «fede in una vita eterna presso Dio» (p. 95).

Nella terza parte, che reca il titolo «Che cosa venne al mondo con Gesù», Lohfink concentra l’attenzione sulla risurrezione di Cristo, sottolineando in particolare il realismo del racconto dell’evangelista Luca, il quale «vuole dire ai suoi lettori che la salvezza dalla morte è più che un evento puramente spirituale. È l’uomo intero ad essere redento, non solo il suo spirito. Non è salvata un’anima diafana ma la storia della nostra vita tutta intera, la nostra carne e il nostro sangue, tutto ciò che noi siamo stati» (p. 117).

Nella quarta parte, intitolata «Che cosa avverrà di noi», l’autore riflette sul destino dell’uomo e affronta alcuni argomenti molto importanti e delicati: l’incontro definitivo con Dio, il giudizio, la misericordia divina, l’esistenza dell’inferno, la sopravvivenza dell’anima, la parusia e altri temi ancora. Numerose e complesse sono le argomentazioni proposte da Lohfink, il quale, peraltro, riguardo a quegli argomenti, ammette l’esistenza dell’insuperabile dimensione del mistero. Egli pone costantemente l’accento sull’infinita misericordia di Dio e sulla volontà divina di non lasciare andare in rovina niente di ciò che è stato creato.

Il libro si conclude con il capitolo «Che cosa possiamo fare», in cui Lohfink ribadisce la certezza che il pensiero dell’aldilà e dell’eternità non deve distoglierci dalla vita terrena e dagli impegni che discendono dalla sequela di Cristo, primo fra tutti l’amore del prossimo e la gratitudine verso il Padre che ci ha donato la vita e l’intera creazione.


M. Schoepflin, in La Civiltà Cattolica 4083-4084 (1 agosto/5 settembre 2020) 330-331

Gerhard Lohfink (Frankfurt a. M. 1934-) è stato professore di Antico Testamento a Tubinga fino al 1986, per poi spostarsi a Monaco, dove vive e lavora come teologo nella Katholische Integrierte Gemeinde (sigla CIG, in italiano “Comunità cattolica di integrazione”) e collabora per l’insegnamento della teologia a distanza. È fratello minore di Norbert, emerito di AT a Francoforte. Con linguaggio semplice, vuole analizzare le domande che tanti si fanno o che rimuovono per scomodità e inettitudine d’animo.

Nella nostra segnalazione ci limiteremo a render conto delle prime tre parti dell’opera, per molti tratti di natura biblica, alla luce delle quali si possono facilmente dedurre le riflessioni ulteriori compiute da Lohfink nella quarta e quinta parte del volume, più strettamente di natura teologico-sistematica. Molte citazioni dirette dell’autore daranno conto con precisione del suo ricco pensiero.

Domanda ineludibile e risposte insoddisfacenti

Risurrezione o il nulla? Per l’autore si tratta di una domanda essenziale dell’essere umano, che non può essere tacitata. Ma non c’è solo questa alternativa. Molti pensano ad una reincarnazione, a una seconda vita. «Per molti nostri contemporanei, al suo posto c’è una grande quantità di soluzioni intermedie, tranquille e rasserenanti, come quella di “scomparire nella natura”, di “sopravvivere nei discendenti” o di avere “sempre nuove reincarnazioni”» (p. 5). Queste soluzioni intermedie e apparenti sono indifendibili e totalmente insoddisfacenti secondo l’autore. Pochi sopravvivono nel ricordo o nei discendenti. Chi ha vissuto ingiustizie e soprusi non vedrebbe rivendicata la propria vita e rimarrebbe senza vita e senza onore. Le risposte intermedie fra una vita oltre la morte e il nulla rimangono del tutto insoddisfacenti: permanenza nel ricordo dei posteri e nella vita dei discendenti, continue reincarnazioni, karma e autoredenzione, il nirvana con la relativizzazione della storia, la combinazione tra migrazione delle anime e la teoria dell’evoluzione in Rudolf Steiner, dissoluzione nell’universo/natura, eutanasia attiva, suicidio assistito, desiderio di spegnersi…

Tante domande si affacciano alla mente: solo con la risurrezione di Gesù si ha una risposta soddisfacente alle domande di senso odierne sulla fine della vita e sulla sorte ultraterrena? Quando inizia la risurrezione? Se non c’è più il tempo, essa inizia fino d’ora, insieme a tutti i defunti? Alla fine del mondo?

Con la sintesi efficace dell’autore: «… cosa risorge propriamente alla risurrezione? Un essere umano astratto? o invece tutta la storia di questo essere umano, con le sue sconfitte e vittorie, le sue miserie e le sue estasi – dunque con tutto ciò che questa persona ha pensato e voluto, desiderato e amato? … Ancora, che ne è del cosmo, della materia, degli animali, degli ominidi che hanno preceduto la comparsa dell’essere umano, del numero sterminato di coloro che non sono nati, che non hanno avuto neppure la possibilità di venire al mondo – la risurrezione c’è anche per loro? Infine, nel cielo ci sarà soltanto Dio e nient’altro? oppure ci sarà tutto ciò che abbiamo desiderato, ci saranno tutti coloro che abbiamo amato – però appunto con Dio e in Dio, così che Dio sarà «tutto in tutti»? (pp. 5-6).

L’autore sente urgente la necessità di trovare un nuovo linguaggio, che, senza essere per forza accattivante, sappia rendere con serenità il messaggio vivo e consolante attestato nella Bibbia.

Lohfink organizza la sua esposizione in sei momenti: dopo una prima parte introduttiva dedicata alle idee più diverse che oggi si hanno sull’aldilà (pp. 11-64), egli si sofferma sull’esperienza concreta di Israele, attestata nell’Antico Testamento (pp. 65-98) e su che cosa venne al mondo con Gesù circa questo problema fondamentale (pp. 99-131). La riflessione indugia a questo punto lungamente su cosa avverrà di noi, concretamente (pp. 132-232), per poi distendersi nella parte conclusiva più breve su cosa possiamo fare noi fin da questo momento (pp. 233-258). La riflessione dello studioso si snoda con chiarezza e linguaggio semplice nel testo, lasciando nelle note le indicazioni bibliografiche accompagnate dal dialogo scientifico accademico.

Le risposte del mondo pagano e la fede di Israele

Il mondo greco-romano si svela tra mancanza di indizi testuali sulle convinzioni ultraterrene, la prospettiva di una sopravvivenza della sola anima – spesso considerata eterna e di natura divina e che sale nell’etere – o la discesa nel mondo umbratile dell’oscurità degli inferi. «Sarete circondati d’oscurità e avvolti dall’oblio eterno», si trova scritto (cit. p. 21). Erano diffusi anche scetticismo, sarcasmo, perplessità e amarezza. «Altro mattino non verrà – scrive d’altronde Bertold Brecht –. Morite con tutte le bestie e non c’è niente, dopo» (Canto notturno di Lucifero, cit. pp. 22–23). Con la morte finisce tutto.

La fede di Israele attestata nell’Antico Testamento si rivela essere una fede che cerca di comprendere. Essa procede lentamente e a tentoni sul tema della vita ultraterrena, con molto scetticismo sull’aldilà, rimanendo legata in modo radicale alla vita attuale, da vivere secondo i dettami di YHWH, per sperimentare fin d’ora i suoi benefici sulla terra. «La vita vera è qui, in questo mondo. Il posto dell’essere umano è la storia che sta accadendo ora. È essa il luogo della benedizione, della gioia e della lode di Dio. La comunione con Dio resta legata totalmente alla vita terrena. La felicità che l’israelita desidera dal suo Dio consiste in una vita lunga e prospera» (p. 71). Nei profeti emerge poi con forza la speranza nel futuro di giustizia, ma sempre nell’aldiquà.

Le esperienze salvifiche fondanti

A differenza del mondo cananeo ed egiziano, Israele prende la distanza dall’aldilà, dal momento che la sfera di YHWH e il mondo della sacralità non hanno niente a che fare con la sfera della morte. Si deve vivere prima di tutto nell’aldiquà. YHWH è un Dio per questa vita, egli vuole questo mondo. Forte era la fede nel fatto che YHWH è vicino al suo popolo, al singolo, costituendo per i credenti in lui un sicuro rifugio che non verrà mai meno (cf. Sal 36). Non ci si fa troppe domande sul “dopo”.

L’esperienza fondamentale dell’esodo fu, in definitiva, il motivo che spinse Israele a concentrarsi su questa vita, su questa storia, su questo mondo. In vari salmi inizia a emergere lentamente la certezza che YHWH non abbandonerà la vita dei suoi fedeli agli inferi, ma li strapperà di lì con mano forte (cf. Sal 16; 22; 73). La comunione con Dio è così forte che durerà oltre la morte: «… la fede di Israele resta pienamente terrena – ma nella sua profondità essa è aperta a un agire di Dio che ora abbraccia anche l’ambito della morte e degli inferi» (pp. 82-83).

In conclusione «il motivo del lungo silenzio su una risurrezione era motivata in Israele dal fatto che la fede in YHWH non era compatibile con il culto dei morti di Canaan e con l’ossessione per l’aldilà dell’Egitto. Dall’altra, però, questo silenzio proveniva dal sapere che proprio questo mondo terreno era voluto dal Dio di Israele. Esso era sua volontà, il suo desiderio, la sua creazione – mentre appunto non lo era un qualche mondo al di là di questo mondo» (pp. 83-84). Solo verso la fine dell’AT (Is 24–27; Dn 12,1-3; Ez 37,1-1; cf. anche l’apocrifo LAB 3,10) emerge la fede in una vita nuova per i pii giudei di Israele. «Non si tratta […] di una risurrezione nella trascendenza. Il luogo della vita nuova è il mondo terreno rinnovato da Dio» (p. 87). Una terra trasformata, forse, più che una trascendenza.

Lohfink accenna solamente in una breve nota di due righe i testi di 2Mac 7. L’autore afferma quindi in una sintesi conclusiva: «La fede nella risurrezione in Israele viene formulata solo in epoca tardiva. […] Israele fu costretto, in un primo momento, a prendere le distanze dal culto dei morti dei popoli vicini e dal loro tentativo di assicurarsi una vita eterna. Solo quando il riferimento all’aldiquà della fede di Israele fu sufficientemente consolidato, fu possibile compiere un passo ulteriore e si poté parlare di una risurrezione donata da Dio, con cui veniva superata l’esistenza umbratile nello Š ’ôl, nella “terra della polvere”. Però le radici delle formulazioni che si trovano ai margini dell’Antico Testamento, in Is 24–27, Dn 12 ed Ez 37, erano molto più antiche. Erano le esperienze salvifiche di Israele» (p. 89).

Lohfink è convinto che, anche se i cristiani credono alla risurrezione, la teologia cristiana deve continuare a conservare in sé la centralità che l’aldiquà ha ricoperto nel pensiero di Israele. Ciò significa che la morte non è la grande festa della libertà umana, che il cristiano porterà sempre nel cuore questa gioia per l’aldiquà ed è attento all’essere umano nella sua integralità, pieno di passione, di amore e di gioia. L’autore ne è convinto: «Israele dovette attraversare un’epoca di totale mondanità affinché la centralità dell’aldiquà, propria del suo pensiero, fosse radicata per sempre nella fede ebraico-cristiana» (p. 95).

Alla venuta di Gesù: annuncio del Regno e segni prodigiosi di vita

La rivelazione è una scoperta di conoscenze, basata su eventi salvifici di Dio. Nella storia di Gesù la parola di Dio si è fatta carne. Gesù annuncia la venuta del Regno, con attenzione alla vita concreta di questo mondo e la parola “risurrezione” compare solo marginalmente nel suo annuncio. Con azioni concrete “controcorrente” e segni visibili prodigiosi, egli offre degli anticipi concreti del “Regno” o della “sovranità di Dio”. «La venuta del regno di Dio trasforma il mondo e lo fa diventare ciò che da sempre avrebbe dovuto essere secondo la volontà di Dio» (p. 101). «La signoria di Dio – continua ancora Lohfink – non vuole essere altro che condurre liberamente la creazione a diventare ciò che essa deve essere secondo Dio: un mondo di giustizia e di pace. E questo non solo in virtù di un evento che accadrà alla fine del mondo, ma come una trasformazione profonda di tutti i rapporti che ora, attraverso Gesù, è già iniziata in mezzo a Israele e che da allora continua a cambiare ogni cosa, in modo inarrestabile Ovviamente, l’orizzonte di questa signoria di Dio è sconfinato: la rivoluzione di Dio elimina anche la morte e, alla fine, porta alla vita eterna in Dio […]; il “mondo” della risurrezione non può essere nient’altro che il mondo in cui viviamo ora portato al suo compimento, alla sua integrità e alla sua salvezza. […] «La signoria di Dio trasforma le situazioni, trasforma la società, il mondo. Essa abbraccia, sanando e salvando, anche il corpo e affronta pure la morte» (pp. 105-106).

Malattia, morte e impotenza di Gesù

«Nella concezione di Israele tutte le malattie, le sofferenze e le situazioni di necessità, in cui un individuo si può trovare, hanno già a che fare con la sfera della morte – ricorda lo studioso –. Affrontando la malattia, Gesù affronta la morte. Compiendo una guarigione, egli supera già la morte» (p. 107), e lo ha fatto più di una volta (Mc 5,21-43; Lc 7,11-17). In sintesi: «… le azioni prodigiose di Gesù rivelano la stessa cosa della sua predicazione. La signoria di Dio, desiderata e invocata da Israele, è giunta. Essa non vuole trasformare solamente i cuori e i pensieri ma, insieme ad essi, la situazione reale di Israele – e mediante Israele quella del mondo. Gesù deve aver predicato e agito con un “potere” (Mc 1,22.27) inedito» (p. 108).

Gesù fu però impotente contro le calunnie degli avversari, la mancanza di fede indurita, rispetto ai suoi discepoli che lo abbandonano increduli, di fronte alla sua ingiusta condanna e alla sua uccisione. In ogni caso, egli rifiuta assolutamente ogni forma di potere e di violenza.

La risurrezione di Gesù e gli incontri pasquali

Il «Descendit ad inferos» proclamato nel Simbolo Apostolico – afferma Lohfink – significa solo che Gesù ha sofferto la morte fino in fondo. Il regno di Dio viene in incognito, con una rivoluzione “silenziosa”. «Morendo, ogni cristiano e, in generale, ogni essere umano, in primo luogo si viene a trovare come Gesù in una situazione d’impotenza estrema. La morte non è affatto il vertice della vita, in cui l’uomo raggiunge il culmine della propria libertà. Essa è miseria, è sofferenza ed è essere messi in potere altrui. Proprio così essa significa però una vicinanza estrema a Gesù» (p. 112).

Gesù risorse/Dio fece risorgere Gesù dai morti, con il suo spirito, la sua anima e il suo corpo. Le apparizioni pasquali – o, meglio, gli incontri con il Risorto che possiede una corporeità di tutto se stesso che ha qualcosa di drastico e sconvolgente – ci furono veramente. In esse la grazia di Dio e del Risorto agisce come sempre mediante le cause secondo, in questo caso l’intera persona umana, anche con i suoi aspetti legati all’inconscio da parte dei testimoni.

La risurrezione non è liberazione dal corpo. «Non è salvata un’anima diafana ma la storia della nostra vita tutta intera, la nostra carne e il nostro sangue, tutto ciò che noi siamo stati» (p. 117). Gli apostoli esperimentarono il Risorto come una «totalità». Le sue ferite testimoniano che «ogni momento, che un uomo ha vissuto, viene portato dentro la vita eterna con Dio» (p. 118). Celebrando la risurrezione di Gesù collegandola alla notte della liberazione di Israele, in un’unica notte, la liturgia nell’Exultet pasquale celebra il fatto che essa «non si realizza più nello spazio e nel tempo. Tuttavia, essa trasforma e raccoglie tutta la storia di Gesù davanti a Dio e si manifesta dentro la storia – in questo senso essa deve essere paragonata alle grandi e fondamentali azioni salvifiche di Dio verso Israele e celebrata con il canto» (p. 119).

Gesù, il primogenito dei morti

Lo schema rappresentativo secondo cui i discepoli percepirono l’evento pasquale fu questo: sperimentarono Gesù come risorto dai morti. «Usando la formula “Dio lo ha risuscitato dai morti”, non scelsero una convenzione linguistica secondaria, ma usarono l’espressione evidentemente necessaria, anzi indispensabile per dire ciò che avevano sperimentato in Gesù e attraverso Gesù» (p. 119). I discepoli non usarono lo schema del «rapimento» (cf. Elia), o quello secondo cui una persona è «presa» da Dio (cf. Enoch), del quale non si trova né il luogo di sepoltura né la tomba ma che è «conservato» presso Dio fino a un suo ritorno con una funzione escatologica. Questo era uno schema che valeva per una singola persona. Non fu usato neppure lo schema del martire risuscitato da Dio immediatamente dopo la morte né lo schema dell’“innalzamento” (seppur usato in vari testi cristologici come sviluppo secondario).

Con l’espressione «Gesù risuscitato dai morti» si fa invece un’affermazione escatologica che allude ad un inizio del nuovo mondo messianico, una radicale cesura escatologica. «Con il suo risuscitamento è già iniziata la risurrezione universale dei morti […]. Con Gesù Dio ha già inaugurato ciò che riguarda tutti» (p. 123). Gesù è «il primogenito dei morti» (Col 1,18; Ap 1,5), «il primo tra i risorti da morte» (At 26,23).

Questo schema rappresentativo significa «il legame inscindibile tra la risurrezione di Gesù e la risurrezione di tutti i morti (1Ts 4,14). Anzi, con ciò si afferma che tutti i credenti sono già coinvolti nel processo della risurrezione di Gesù (Ef 2,5-6)» (p. 123).

Il dono salvifico della nuova creazione

Con l’adozione di questo schema rappresentativo di tipo escatologico divenne «chiaro che la risurrezione di tutti i morti, la restaurazione e la trasformazione del mondo, la creazione nuova di Dio che è la meta finale di tutta la storia – tutto questo è “già” iniziato con la risurrezione di Gesù» (p. 124).

Parlando di «nuova creazione» si allude al fatto che la risurrezione «non è un fenomeno naturale che spetta all’essere umano quasi fosse un’eredità biologica. Con altre parole: la risurrezione non è il vertice di un processo naturale in cui culmina, in modo necessario, l’evoluzione degli esseri viventi. […] Essa è un’azione salvifica di Dio, non gli è dovuta, è un puro dono» (ivi). La teologia cristiana parla di una di una «creatio continua, vale a dire di un atto creatore divino incessante. “Continuamente” Dio chiama la sua creazione dal nulla» (ivi).

Secondo Lohfink, diventa «necessario, interpretare la risurrezione dei morti come “nuova creazione”, mettendola così in rapporto con la creazione del mondo. In questo modo, infatti, diventa chiaro che la risurrezione dei morti non è un’aggiunta che poteva esserci oppure no, ma che essa fa parte – pur essendo pura grazia – del disegno divino della creazione: essa è pensata fin dal principio per il compimento, per la gloria, per stare con Dio» (p. 125). La «creazione del mondo» e la «nuova creazione del mondo nella risurrezione» sono strettamente unite.

La nuova creazione non è un’idea cristiana ma era già annunciata dal profeta Isaia (Is 43,18-19, 65,17-18), così come era presente – con altri toni e contesti – negli apocrifi paratestamentari. A differenza di essi, per la fede cristiana «“questo eone”, nonostante tutte le colpe e tutto il caos provocato dagli esseri umani, resta la creazione buona di Dio, e proprio in essa si compiranno le sue promesse» (p. 126). Anzi, la creazione nuova «attraverso lo Spirito vivificante di Dio si realizza già dentro questa storia. Nello stesso senso va la teologia battesimale di tutto il Nuovo Testamento: con lo Spirito Santo, che è donato nel battesimo, i battezzati si trovano già nel campo di forza della creazione nuova di Dio») (p. 126; cf. 2Cor 5,17).

«Redenzione non significa fuga dal mondo o separazione dal mondo, non significa rapimento in un aldilà estraneo al mondo. Significa, invece, salvezza e trasformazione proprio di questo mondo presente, significa portare la creazione intera al raggiungimento della sua meta» (p. 127). «La risurrezione dei morti – conclude il teologo tedesco –, pur non essendo un evento fisico-naturale, è però la conseguenza della creazione del mondo per pura grazia. Essa, però, è soprattutto la conseguenza del risuscitamento di Gesù dai morti. Gesù, infatti, è l’immagine originaria e il primogenito di ogni creatura (Col 1,15-17)» (p. 128).

Cosa avverrà di noi?

Nella parte quarta della sua opera, estesa quasi metà del volume (pp. 129-232), Lohfink affronta a livello di teologia sistematica il tema di “Cosa avverrà di noi”, tentando di descrivere le caratteristiche concrete che la risurrezione dei morti comporta per il singolo e per il creato.

Le conclusioni a cui arriva lo studioso possono essere ben intuite a partire dalla sintesi del contenuto delle tre parti precedenti che abbiamo tentato di presentare. I titoli dei dodici capitoli della quarta parte dell’opera danno l’idea del lungo cammino e del percorso espositivo compiuto dall’autore: 1) Incontro definitivo con Dio; 2) La morte come giudizio; 3) Giudizio come misericordia; 4) La purificazione nella morte; 5) E l’inferno?; 6) L’essere umano intero; 7) Tutta la storia del mondo; 8) La creazione intera; 9) La città desiderata; 10) Sulla relatività del tempo; 11) Sulla sopravvivenza dell’anima; 12) Sulla partecipazione.

Cosa fare?

La quinta parte dell’opera (pp. 233-258) si sofferma, infine, sul compito dei credenti (e di ogni uomo): “Che cosa possiamo fare noi?”. Lohfink parla della vera sollecitudine per i nostri defunti, del morire cristiano e conclude con una riflessione circa l’inizio effettivo dell’eternità. Chiudono il ricco volume la bibliografia (pp. 259-270, l’indice dei nomi (pp. 271-274) e i ringraziamenti (p. 275, da leggere nell’indice).

L’opera di Lohfink si raccomanda per l’importanza del tema trattato, l’esigenza di trovare un linguaggio nuovo per i nostri tempi nell’esporre il pensiero della fede cristiana e l’estrema semplicità – davvero poco “tedesca” – della sua esposizione. Dalle sue pagine si percepiscono la profondità del pensiero teologico ma anche l’amore per la vita vissuta degli uomini del nostro tempo, da lui compartecipata con animo pastorale nella Katholische Integrierte Gemeinde di Monaco.


R. Mela, in SettimanaNews.it 26 aprile 2020

Si racconta che il confessore di un granduca di Toscana, un frate cappuccino, al suo penitente moribondo avesse ingenuamente suggerito: «Altezza, è bello andare in paradiso!». Ma il granduca con un filo di voce replicò: «Ma io sto così bene anche a Palazzo Pitti!». Uno degli effetti non voluti del coronavirus è stato quello di sbattere in faccia a tanti un volto sempre esorcizzato, quello che pochi chiamano con san Francesco «Sorella Morte». Di fronte ad essa le reazioni spesso sono spontaneamente affini a quella del granduca. Nelle ultime settimane, non di rado, l’incontro con la morte non ha avuto neppure quel corteo di atti rituali consolatori che sono in vigore anche in questa civiltà secolarizzata.

Tutte le religioni hanno cercato in forme diverse di varcare la frontiera mortale che è il segno più netto della nostra creaturalità, cercandovi «l’altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi», come suggeriva Rilke. Lo stesso desiderio di gettare uno sguardo oltre quel limite ha pervaso per secoli la storia dell’arte, della letteratura e della filosofia (Platone insegna) in mille iconografie e tipologie diverse di terrore e di gloria. Persino Clint Eastwood, ad esempio, ha raccolto questa sfida nel 2011 col film Aldilà, esplicito già nel titolo. Naturalmente un coro parallelo di negatori si è affacciato in quell’«oltre», convinti col Caproni del Franco cacciatore, che la «morte è un trapasso. / Certo, dal sangue, al sasso».

Imponente e incessante è, dunque, la bibliografia che si è insediata su questo terreno confinario minato, tenendo spesso i piedi piantati sulle zolle terrestri e terrene, come ha fatto recentemente in un’auto-confessione quieta eppur incandescente il grande genetista non credente Edoardo Boncinelli col suo Essere vivi e basta, emblematicamente sottotitolato «Cronache dal limite». Il suo è un percorso accidentato su quel crinale tagliente, avanzando con lucida attenzione, ma anche sballottato dal vento di una tempesta, «confuso e allucinato nella testa, sofferente e incontrollabile nel corpo», in pratica col bagaglio pesante della fragilità legata alla vecchiaia. Tanti sono i pensieri e le emozioni che hanno suscitato in me, di poco lontano dall’età del professore, pur nella diversità degli approcci, le sue pagine pacatamente agitate. Ma non li svilupperò perché, nella carrellata di testi recenti sul tema in questione, dedicherò la selezione solo a chi guarda «al di là», sia pure da angolature diverse.

Il primo a venire idealmente incontro è un noto esegeta di Tubinga, Gerhard Lohfink, coi suoi 86 anni e con un saggio scandito da un interrogativo lapidario Alla fine il nulla?, subito però attutito e neutralizzato dal sottotitolo pacificamente cristiano, «Sulla risurrezione e sulla vita eterna». Questa dualità è, in un certo senso, strutturale al testo. Infatti, esso si apre con una lunga disamina sul «che cosa si pensa riguardo all’aldilà», un orizzonte nel quale non è accampata solo la legione di coloro che impugnano il drappo nero del Nulla, ma neppure la processione di coloro che inalberano il vessillo bianco pasquale. Si muovono, infatti, tante pattuglie con soluzioni intermedie. Dal quesito «Che cosa avverrà di noi?», dotato nel libro di un ampio spazio di pagine, si ramifica un grappolo di risposte le più varie.

Ci si può aggrappare all’immortalità «mnemonica», non rara anche in alcune concezioni religiose, ossia nel sopravvivere rimanendo incisi su quella lastra tombale viva che è la memoria dei posteri. Oppure ci si abbandona al flusso incessante della natura, la grande creatrice, gigantesca macchina che tutto produce e trasforma in un ciclo costante. In questa linea, anche se pubblicato in forma anonima nel 1783, si muoveva il Frammento sulla natura che esprimeva la concezione del giovane Goethe: «La natura, come mi ha messo qui, così mi porterà via. Ho fiducia in lei. Non odierà la sua opera... Tutto è colpa sua, tutto è merito suo». Ma la ricerca di Lohfink è squisitamente teologica e il suo programma, molto articolato (talvolta anche un po’ verboso e predicatorio), ha il compito di trasferire il lettore dal «nulla» del titolo alla «risurrezione e vita eterna» del sottotitolo.

Nell’Otello verdiano il perfido alfiere Jago non esita a cantare: «La Morte è il Nulla / e vecchia fola il Ciel» (Atto II, Scena II). In antitesi ideale il teologo tedesco intona, invece, il Resurrexit cristiano, ricercandone le radici nell’esperienza dell’Israele biblico, attestandosi poi in modo pieno sul «che cosa venne al mondo con Gesù». L’evento cristiano vede l’incrocio stretto tra l’umano mortale e il divino eterno per una nuova creazione che il teologo Joseph Ratzinger delineava così: «Nella risurrezione la materia apparterrà allo spirito in modo del tutto nuovo e definitivo e che per questo sarà tutt’uno con la materia». Finito e infinito intrecciati inestricabilmente, temporale e trascendente avvinghiati in unità, al modo dell’espressione paolina «Dio sarà tutto in tutti» (1Corinzi 15,28).

Sta di fatto che quella frontiera interpella un po’ tutti, anche un non credente come il filosofo e scienziato francese Pierre-Henri Castel che sottotitola un suo scritto così: «Saggio incalzante sulla fine dei tempi», ridimensionato da un titolo più pessimistico ma pertinente, Il male che viene. La sua è un’apocalisse senza il regno di Dio finale. Le sue riflessioni non si appoggiano a nessuna fede, pur transitando per i crocevia ideali soprattutto cristiani. Il suo sguardo sulla storia, sulle varie follie umane a livello planetario, sugli sconvolgimenti della natura e della stessa nostra esistenza fisica (e qui può riaffacciarsi il Covid-19) lo conduce a un estuario antitetico rispetto a quello cristiano: «La dinamica del peggio è l’unica a rendere conto del carattere intrinsecamente traboccante del Male».

È, quindi, un confronto dialettico aspro con la speranza che regge l’escatologia cristiana. Ma è anche un vaccino contro ogni semplificazione consolatoria o astrazione illusoria dal terreno della storia: significativo è il duello finale che simbolicamente anche l’Apocalisse neotestamentaria mette in scena tra Babilonia e Gerusalemme, tra la Prostituta e la Sposa, tra la Bestia e la Chiesa, ma con un esito radicalmente differente da quello prospettato da Castel.


G. Ravasi, in Il Sole 24 Ore 12 aprile 2020, IX

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