Nato a Berlino nel 1940, da vari decenni Dietmar Mieth – già docente di Etica teologica a Friburgo e Tubinga, fondatore del Centro di etica di quest'ultima università e membro di vari organismi internazionali a tutela dei diritti umani nella biomedicina – è un sicuro punto di riferimento per la teologia morale europea. La sua voce, specie su argomenti complessi come quelli che affronta in questo libro, la questione del fine vita e i suoi riflessi teologici, è dunque quanto mai autorevole e, aggiungerei, necessaria. Tanto più in mesi come questi, con la vicenda pandemica in cui ci troviamo immersi che ha favorito l'irruzione della morte nelle case e nelle famiglie, come presenza realissima o almeno come spauracchio costantemente incombente; e, contestualmente, ha costretto a ridisegnare passaggi quanto mai delicati quali la gestione del lutto in assenza della salma del defunto e la pietas naturale verso i morenti.
L'obiettivo del teologo tedesco è qui di riempire di contenuti il meno possibile astratti la nozione che da sempre lo muove nella ricerca, la dignità umana come criterio chiave dell'etica cristiana sin dalle intuizioni bibliche sul divieto di uccidere. Ecco allora la critica all'idea, impostasi nell'opinione pubblica, secondo cui la persona sarebbe resa pienamente libera e messa in condizione di realizzare la propria dignità in merito alle scelte sanitarie relative a salute e vita per il solo fatto che le sia attribuita, al riguardo, un'autonomia decisionale: anche qualora ne derivi la richiesta di un'attivazione per anticipare il momento della morte, con il suicidio assistito o un'eutanasia diretta.
A scanso di equivoci, va precisato che Mieth non intende ridiscutere la centralità del consenso del paziente nell'attività sanitaria, ma contestare il ruolo semplificatorio e unilaterale che, su tali scelte, si vorrebbe ascrivere all'autodeterminazione, da cui si fanno emergere troppe false promesse: perché «non è detto che ovunque compaia sull'etichetta l'autonomia, il pacco la contenga davvero». Nello specifico, gli preme rilevare come la possibilità di decidere, che spesso si trasforma nel dovere solitario di rispondere alle modalità di gestione della malattia proposte dalla società o dalla legge, non implichi necessariamente il realizzarsi della libertà: il paziente «solo in apparenza viene reso libero nel momento in cui deve assumere unicamente su di sé ogni situazione e ogni accadimento personale», dato che l'idea di un'autodeterminazione liberata dalla cura vicendevole rischia di produrre in lui, in realtà, illusioni e aggravi, che non gli sono di aiuto.
È solo nella relazione, infatti, che l'autonomia personale si realizza appieno: contro ogni riduzionismo filosofico, «la libertà concreta non è la libertà pura dell'imperativo categorico di Kant», ma è figlia della solidarietà.
B. Salvarani, in
Jesus 1/2021, 90-91