«Chi prega “nello Spirito di Gesù” non può più pregare voltando le spalle agli altri». L’indifferenza al dolore, alla violenza, alle ingiustizie, alle oppressioni, è inconciliabile con «la preghiera fatta nella sua sequela». Che, quando praticata davvero, «spinge il cristianesimo di oggi sempre più verso un cambiamento di posto gravido di conseguenze nel suo pregare: lo spinge cioè a non pregare solamente per i poveri e gli infelici, ma a pregare con loro». E tutto questo «può rendere la preghiera molto pericolosa». Ma autentica e vera, perché liberante e responsabilizzante.
Nel libro Preghiera degli occhi aperti. Per una fede concreta e responsabile Johann Baptist Metz (1928-2019) offre un antidoto prezioso a chi pensa che la fede cristiana sia fuga dalle incandescenze della vita e della storia, come pure a chi vive una fede cristiana ripiegata nell’intimismo, nel devozionismo, nell’astrazione. In queste pagine il teologo tedesco, allievo di Rahner e padre della teologia politica, offre riflessioni illuminanti per una spiritualità cristiana che tiene insieme fede e vita. Tutta la vita: anche quando è sofferenza, angoscia, oppressione, disperazione. Degli altri. E nostre.
Il piccolo volume raccoglie quattro contributi – “Invito alla preghiera”, “Una preghiera dal tono apocalittico”, “Pregare, fra crisi e storie di passione” e “La preghiera di un non credente” – nati da circostanze diverse ma che hanno come filo conduttore il “caso serio” della preghiera cristiana – come pure la sfida di una teologia che vuole riprendere contatto con la vita reale e lo fa riavvicinandosi al linguaggio della preghiera, così che il parlare di Dio torni a essere un parlare con Dio, un «chiedere Dio a Dio» che non teme di arrivare al «grido di lamento dal profondo».
Metz traccia la via di una «mistica concreta» che rende «concreto e politico» il nostro pregare. «Coloro che pregano devono fare attenzione che il loro pregare non diventi pretesto innodico, trasfigurazione dell’apatia delle loro anime, dell’indifferenza e dell’insensibilità dinanzi al dolore degli altri», avverte il teologo: «Il pregare maturo – insiste Metz – avviene sempre nella disponibilità ad assumersi una responsabilità». Per capire cosa sia la “preghiera degli occhi aperti” – e a Chi si rivolge questo pregare – è aiuto fecondo l’esperienza spirituale dell’Israele biblico. Ed è «importante guardare nuovamente alla preghiera dello stesso Gesù. Che il Dio delle sue preghiere è il “Padre nostro” si capisce non solamente dalle sue preghiere, ma da tutto il destino di Gesù, da tutto il suo comportamento, da tutta la sua vita. Si comprende che il Dio delle sue preghiere non è un Dio tiranno che umilia e neppure la proiezione di un potere e di un’autorità terrena, ma il Dio di un amore invincibile, il Dio di una patria appena sognata, il Dio che asciuga le lacrime e prende gli smarriti fra le braccia aperte della sua misericordia».
Ebbene: guardando alla nostra vita, al nostro farsi prossimo ai poveri, agli oppressi, ai sofferenti, nella lotta condivisa contro l’ingiustizia e il male, «si devono indovinare i tratti di quel volto divino, liberante e potente, al quale si rivolgono le nostre preghiere». Volto invocato. Volto atteso. Anche nell’ora più buia. Anche nell’esperienza dell’impotenza. Così «la preghiera deve e può diventare l’inizio del rinnovamento» dell’attesa di Gesù, «la rivolta contro la dominante assenza di aspettativa e il suo strisciante dissolvimento di ogni impegno non strumentalizzabile. È per questo che la più antica preghiera della cristianità è, al tempo stesso, la sua preghiera più attuale: “Vieni, Signore Gesù! (Ap 22,20)».
L. Rosoli, in
Avvenire. Gutenberg 22 novembre 2024