Il liturgo e psicologo Carmine Di Sante, impegnato nel dialogo ebraico-cristiano, affronta un tema decisivo per la vita dell’uomo di ogni tempo, compreso quello odierno, alla luce del messaggio biblico. Egli indaga il rapporto che la Bibbia vede esistere tra la colpa e la pena, la riparazione e la rinascita alla luce del rapporto di alleanza tra Dio e l’uomo. Quando esso è violato, nel trasgredire l’alleanza si offende anche l’uomo, non riconoscendo l’alterità di Dio e dell’altro uomo.
Il modo di riparare il danno fatto riceve nel messaggio biblico una riposta molto diversa dal pensiero puramente giuridico-penale attuale, fondato sostanzialmente sulla legge del taglione. Una giustizia riparativa può aprire nuovi orizzonti anche per l’umanità odierna.
Nella sua introduzione (pp. 7-54), Di Sante esamina il binomio colpa-pena, trasgressione e male inflitto all’altro e autoinflitto. La semantica biblica parla di colpa, ribellione, peccato, trasgressione, castigo, punizione. E si serve spesso di tre simboli: la macchia, la vergogna e il rimorso. La prospettiva biblica generale da cui parte lo studioso è quella della benedizione divina: essa si esplica come creazione, come giustizia e come perdono.
Di Sante analizza il tema della legge biblica e la trasgressione. Questa è considerata come la conseguenza derivante dal tradimento della Legge consegnata da Dio sul monte Sinai e riassunta nel termine ingiustizia, nel quale si intrecciano il tema della pena e quello della colpa.
Per la Bibbia la colpa è il frutto della libertà dell’uomo. Da essa conseguono esiti drammaticiche dissolvono l’ordine del mondo, rendendolo luogo di pena, cioè di sofferenza.
Dal punto di vista antropologico, il peccato è la rottura della relazione dell’io con l’altro, la reificazione dell’altro. Dal punto di vista teologico, il peccato è la rottura della relazione con l’Alterità assoluta – Dio – e di quella peculiare alterità che è l’alterità umana.
Legge biblica e giustizia
Nel primo capitolo (pp. 55-102) l’autore espone dapprima il tema della legge biblica nel suo rapporto con la giustizia. Esamina la necessità e problematicità della legge e il rapporto tra legge e la rivelazione biblica. Qui subentrano i temi della critica di Paolo alla legge, l’antigiudaismo, la spiritualizzazione e la legge biblica. Nel rapporto tra la legge biblica e la giustizia si declinano vari temi: Dio è il giusto, Dio fa cose giuste, Dio vuole uomini giusti e Dio è il custode dei giusti. La legge biblica ha pure un rapporto stretto con la felicità. Essa è in rapporto con la terra promessa, con la dis-appropriazione, con la fraternità e con il giudizio divino.
Legge biblica e trasgressione
Nel secondo capitolo (pp. 103-152) la giustizia biblica viene messa in rapporto con la trasgressione. Si esamina la trasgressione con le risposte legate all’ambito giuridico, a quello culturale, all’ambito ideologico e a quello etologico-scientista.
Per la Bibbia l’uomo è libero nella sua risposta alla legge divina. La trasgressione è quindi studiata in rapporto con la libertà biblica. Nella Bibbia è presente una modalità narrativa della libertà ed essa ha un contenuto paradossale. La libertà ha una connotazione relazionale e fiduciale, nel gioco della reciprocità tra Dio e l’uomo al cui interno trova la sua “verifica”, nel senso etimologico e biblico di fare la verità, lasciandosi illuminare e plasmare dal suo darsi apparendo.
Nella Bibbia la libertà di Dio e la libertà dell’uomo coesistono e non sono in contraddizione. La libertà biblica ha un’origine extra-umana ed è finalizzata alla responsabilità.
Lo studioso esamina il tema della trasgressione e della colpa nella Bibbia, analizzando innanzitutto l’enigma della colpa, l’impossibilità della sua negazione e prendendo in considerazione la presentazione biblica della colpa. La trasgressione biblica viene poi messa in rapporto con il male. Si chiarifica innanzitutto il tema a livello lessicale.
L’autore affronta poi tre domande inquietanti: il perché della sofferenza dei bambini e degli innocenti, il motivo per cui ci siano esseri umani la cui volontà è di sopraffazione e, infine, il motivo per cui ci siano degli esseri umani che fanno il male, non lo riconoscono e addirittura lo approvano.
Le domande sul perché del male e da dove provenga trovano nella Bibbia un quadro generale in cui inserirle. Di Sante indica tre punti. Il primo riguarda il no dell’uomo a Dio. La ragione prima del male che devasta il mondo è la mancata risposta dell’uomo a Dio. Strettamente collegato è il no dell’uomo all’uomo.
L’alleanza è l’asse intorno al quale si struttura l’intero canone biblico ma è anche il principio del reale sul quale si regge il mondo: il principio di responsabilità che rimanda non alla metafisica della necessità o dell’Essere ma a quella del dover essere.
C’è un nesso costitutivo tra il mondo buono e la libertà buona dell’uomo. Il motivo per cui Dio chiede all’uomo di amare il prossimo nel mondo non è per metterlo alla prova o provare la sua fedeltà o per premiarlo con la vita ultraterrena, ma «affinché il mondo buono fiorisca dalla sua libertà buona. Di qui l’ontologia etica dell’alleanza per la quale l’essere dipende dal dover essere dell’uomo e il mondo buono dall’uomo giusto» (p. 148).
Interpretare il malum mundi alla luce dell’ontologia etica vuol dire non ridurlo alle sole cause materiali o razionali che concorrono a produrlo. «Assumere l’ontologia etica della Bibbia del malum mundi è impegnarsi a rimuovere i fattori che operano come precondizioni negative della coscienza morale per risvegliarla alla responsabilità di fronte a Dio e di fronte al prossimo» (p. 149).
Di Sante dedica, infine, alcune pagine alla Bibbia riguardanti la guerra.
La trasgressione biblica e la riparazione
Nel terzo capitolo (pp. 153-212) viene studiato il tema della trasgressione biblica e la riparazione. La giustizia punitiva ha di mira l’eliminazione del colpevole o la sua reclusione, superabili come schemi giuridici.
Parlando della giustizia riparatrice, Di Sante sottolinea la problematicità di Díkē, mentre vengono presentate poi la giustizia come ri-parazione, come re-instaurazione dell’“è giusto” e la giustizia come “verità”.
Altri aspetti della giustizia riparatrice sono quelli della riparazione dell’ordine sociale. La riparazione può essere allora considerata come ristabilimento dell’ordine sociale, come riconoscimento della dignità della vittima così come quella del colpevole. La giustizia riparatrice dell’offeso e dell’offensore permette la rinascita della relazione offeso-offensore.
Di Sante riporta due racconti di rinascita, uno tratto dal libro di Giuseppe Culicchia Il tempo di vivere con te (la ricostituzione del rapporto col proprio cugino brigatista Walter Alasia) e l’altro imperniato sulla figura di Lucia Montanino, vedova del poliziotto Gaetano Montanino ucciso da un giovanissimo criminale.
È possibile riparare l’ordine relazionale dell’io con l’altro, che una volta infranto, si è capovolto nel disordine della colpa e della pena? È possibile la riparazione? A quali condizioni?
Per la Bibbia il peccatore non è un virus da espellere o da isolare e neppure un errore della natura, ma è dotato della possibilità di restaurarla, alla condizione del perdono, che coinvolge nello stesso tempo l’offensore, chiedendolo, che l’offeso, donandolo.
Il perdono è un dono, all’ennesima potenza, un arci-dono. Un dono di cui è portatore chi ha subìto il torto non identificando il colpevole con la sua colpa. Teologicamente parlando, il soggetto del perdono nella Bibbia è Dio, che non si rassegna alla colpa e mette in moto le sue “strategie” di perdono per richiamare a sé il colpevole. Esse si attuano smascherando la falsa coscienza del colpevole e ponendolo di fronte al suo tradimento.
Lo smascheramento avviene attraverso varie modalità narrative come il lamento, il giudizio, la condanna e la punizione ma la cui finalità è sempre quella di fare in modo che chi ha infranto il patto d’amore ci ripensi perché innamorato perdutamente di lui, come Osea della sua moglie traditrice e prostituta.
Il perdono divino è, teologicamente parlando, al centro del racconto biblico perché per esso, il perdono divino è istitutivo del perdono umano. Dio perdona per insegnare all’uomo che deve – di quel dovere che è dovere etico – perdonare. Per la Bibbia, il problema della colpa può essere compreso e risolto solo all’interno di questa logica. Nella Bibbia la giustizia divina è sempre salvifica e raggiunge la sua verità nel recupero del colpevole al rapporto di alleanza infranto, pur con il percorso del riconoscimento della colpa, il pentimento, un percorso di presa di coscienza del proprio errore, la richiesta di perdono.
La riparazione biblica e il Messia crocifisso
Il capitolo quarto (pp. 213-278) è dedicato all’evento cristologico della morte di Gesù in croce e al legame paradossale e apparentemente assurdo che il kérigma istituisce tra questa stoltezza e “pazzia” e il messianismo, da una parte, e la condanna a morte di Gesù, dall’altra.
«Il messianismo è la chiave di lettura biblica del reale che consiste nell’incrollabile certezza che il male – nelle sue molteplici forme di ingiustizia, sofferenza e violenza – può essere debellato e che parola ultima dell’umano non sarà il suo trionfo ma la sua detronizzazione. Il messianismo biblico – continua Di Sante – è la più inimmaginabile forza sovversiva e utopica della storia che contesta ogni forma di fatalismo, di determinismo, di pessimismo e di dogmatismo che minacciano l’umano» (p. 52)
Ma, se tale è il messianismo, cioè il trionfo del bene sul male, la condanna di Gesù sul legno della croce, più che la sua realizzazione, non ne è forse la sua ennesima smentita? Non è stata questa la reazione dei discepoli che alla fine tragica del loro Maestro si erano dati alla fuga convinti che tutto fosse fallito e loro con lui?
Le cose cambiarono però dopo le apparizioni del Risorto che, aprendo loro la mente (cf. Lc 24,25), fa comprendere il legame tra la realizzazione messianica da una parte – la sconfitta del male e il trionfo del bene – e la condanna a morte di Gesù sulla croce dall’altra. «Il messia è questo: chi fa diventare amici i nemici, chi avvicina i lontani» (A. Chouraqui, cit. a p.53).
In questo capitolo Di Sante riflette sull’amore del Messia: la difficoltà di amare, l’ostacolo ad amare e l’amore incomparabile del Messia. L’amore estremo del Crocifisso fu compreso per un capovolgimento mentale degli apostoli attuato dallo Spirito Santo nella Pentecoste. Fu compreso l’amore estremo esploso sulla croce, unito alla libertà del Crocifisso.
L’amore estremo del Risorto fu compreso a partire dall’evento della risurrezione e dalla potenza di quest’ultima. Il linguaggio epifanico rivela che fu Gesù a farsi vedere ai discepoli, e allora la risurrezione non è frutto di un occultamento, un autoinganno o una negazione della realtà. La risurrezione rientra nell’intreccio mirabile dell’alleanza, dove la libertà divina ha interpellato la libertà di Gesù e questa ha risposto all’appello del Padre con una totale dedizione e con l’amore.
Da questo punto di vista, la risurrezione è quindi sia un evento meta-storico, in quanto riguarda Dio, sia storico, in quanto riguarda la libertà di Gesù, quella libertà che, di ogni storia personale, è la definizione inoppugnabile. La risurrezione resterebbe incomprensibile al di fuori della libertà di Gesù e della logica dell’alleanza e crollerebbe l’intero edificio ecclesiale neotestamentario.
Il memoriale del Risorto può essere raccolto – secondo Di Sante – attorno al memoriale del calice, a quello della lavanda dei piedi e alla Magna Charta delle Beatitudini.
Colpa, pena e giustizia riparativa
Sia la colpa che la pena instaurano relazioni di inimicizia. La prima causa la sofferenza alla vittima non riconoscendone l’alterità, la seconda produce nuova sofferenza per punire il colpevole e vendicare il torto subìto. Solo il perdono, secondo Di Sante e un pensiero giuridico che sta prendendo sempre più campo, è in grado di trasformare l’offensore e l’offeso – resisi nemici – in amici. Il problema della colpa e della pena viene affrontato dall’autore entro l’orizzonte del mistero di inaudita bellezza che è costituito dal Messia crocifisso.
Alla ricerca di un nuovo modello
Nelle sue Conclusioni (pp. 279-312), l’autore riflette sul fallimento della giustizia punitiva, che riempie le carceri ma non cambia il cuore dell’uomo e non raggiunge la riconciliazione e la reinstaurazione di un rapporto umano fra offensore e offeso.
Di questa irrilevanza si va prendendo coscienza, individuando in essa uno dei limiti sostanziali della giustizia punitiva e sanzionatoria della struttura carceraria e della necessità di un radicale ripensamento. Di Sante ne cita due principali.
Il primo è la contraddizione del sistema carcerario con la dignità dell’uomo (si cita Gherardo Colombo). Il secondo è la contraddizione con le finalità stesse del sistema carcerario che sono riconducibili a tre: la riduzione della devianza, la sicurezza dei cittadini, la sottrazione della libertà al reo isolandolo dalla convivenza sociale perché sia “rieducato”.
Dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso, a partire dall’America, passando per l’Inghilterra e arrivando in Italia, si è alla ricerca di un nuovo modello umano e giuridico, che si ispira al concetto di giustizia non punitiva ma riparativa (restorative justice). Il giurista Jill Marshall la definisce così: «Le pratiche di restorative justice rappresentano un processo in cui le parti che rivendicano una specifica offesa la risolvono collettivamente per condurre all’affermazione dell’offesa nelle sue implicazioni per il futuro» (cit. a p. 285).
Ripensamenti
I ripensamenti più importanti che la giustizia riparativa esige e pratica – secondo Di Sante – possono essere ridotti a quattro.
Il primo riguarda il reato, dal momento che la vita e l’episodio concreto non sono inquadrabili nelle norme giuridiche. La vita è sempre molto più complicata della legge. Gli ordinamenti giuridici restano impotenti nella ricostituzione della relazione tra offeso e offensore e di quella con il corpo sociale.
Il secondo ripensamento è quello della reclusione. La società ha il diritto di proteggersi ma con leggi non solo adeguate ma anche rispettose della dignità di ogni cittadino. Lo strumento della reclusione in celle disumane e deprivanti della libertà non sembra efficace a ottenere lo scopo prefissato.
Il terzo ripensamento riguarda l’assolutizzazione del modello retributivo premio-castigo,considerato da millenni l’architrave della giustizia penale.
Il quarto ripensamento riguarda proprio il concetto di giustizia. Per Ulpiano la giustizia è la «volontà costante e perpetua di dare a ciascuno il suo». Il teologo gesuita Eugen Wiesnet sottolinea da parte sua che la giustizia di cui parla la Bibbia è l’esatto contrario: la giustizia divina è salvifica. È una giustizia la cui finalità non è – e non deve essere – né individuare il colpevole per giudicarlo, punirlo e condannarlo né prendere le difese della vittima riconoscendone il torto e riparandone il danno, ma salvare, cioè guarire restituendo alla salute il “corpo” malato dell’uno, dell’altro e dell’intera società.
L’evangelo della giustizia salvifica
La giustizia salvifica è “evangelo”, “bella notizia”, che indica a tutti come comportarsi e cosa fare quando il tessuto relazionale, sofferente e lacerato da incomprensioni, ingiustizie e violenza, va risanato.
Wiesnet ricorda che «nella zedaqah [termine ebraico per giustizia] grazia, misericordia e perdono divengono una specie di categoria giuridica». Grazia, misericordia e perdono, legittimando la categoria giuridica, nello stesso tempo però la relativizzano e la trascendono, essendosi Dio rivelato come amore gratuito e fedele.
La Bibbia istituisce il fecondo paradosso del legame indissolubile tra la gratuità del Dio liberatore e provvidente, da un lato, e il dono della legge o alleanza da lui stipulata con il popolo d’Israele sul monte Sion, dall’altro.
Prima di dare la sua legge, Dio si presenta come Dio liberatore dalla schiavitù (cf. Es 20,2). E-vangelo, il Dio liberatore annuncia una triplice bella notizia: che il suo essere Dio è sottrarre dall’oppressione ogni creatura; che tutti gli stanno a cuore, in modo particolare gli indifesi e gli ultimi; che la liberazione è un dono fatto qui e ora e in ogni qui e ora, e non da questo mondo, ma dentro questo mondo. «Contro ogni concezione dualistica e pessimistica, come pure ingenua e ottimistica, la Bibbia coniuga la più vertiginosa utopia (“un nuovo cielo e una nuova terra”; Ap 21,1) con la più disincantata distopia (“Con dolore partorirai figli. […] Con dolore […] ne [dalla terra] trarrai cibo”: Gen 3,16-17). Il distopico – afferma Di Sante – si fa utopico nell’istante dell’incontro tra il Dio liberatore e l’uomo consapevole di essere liberato. È in quell’istante – l’istante della responsabilità – che nel distopico accade l’utopico» (p. 293).
L’evangelo del racconto biblico
Di Sante conclude il suo volume ricordando sette tratti salienti del Dio biblico della liberazione. È l’evangelo del racconto biblico.
1) Il Dio biblico è relazione o Alleanza.
2) Egli è gratuità, cioè amore gratuito che instaura con l’uomo una relazione d’amore che parte da sé ma non ritorna a sé, per la sua “gloria”. È un Dio benevolente verso l’uomo.
3) Il Dio biblico è libertà, che pone in essere un uomo capace di dirgli di no e di sottrarsi al suo amore gratuito, facendo fallire il suo disegno di benevolenza.
4) Il Dio biblico è creatore di libertà. Il Dio che ha creato il cielo e la terra afferma di essere il Signore, unico Dio del popolo di Israele, che lo ha fatto uscire dalla schiavitù. Israele non dovrà avere altro dio al fuori di lui.
La creazione del mondo non è tanto creare dal nulla, ma far essere le cose come dono di Dio all’uomo per amore gratuito. Per la Bibbia la creazione non è creazione ontologica ma etica. La priorità è quella del dover essere sull’essere, perché solo il dover essere crea l’essere buono e bello.
Questa priorità è per la Bibbia la stella polare che deve guidare il cammino conflittuale e incerto della storia umana. Essa è la forza generativa dei poveri e dei giusti che soffrono le ingiustizie del mondo, lottando per cambiarlo e migliorarlo; è il limite ordinatore che sottrae al fascino del potere, del dominio, del denaro e del piacere, facendo dono di quella libertà che libera dagli incantesimi e dalle sirene che illudono e schiavizzano l’uomo.
5) Il Dio biblico è creatore di responsabilità. Dio è parola interpellante, chiede all’uomo di ascoltarlo interrompendo il parlare dell’uomo tra sé e sé. Attende una risposta: se vuoi, devi. Dio sospende la sua onnipotenza per affidarsi alla risposta dell’uomo e lo fa per innalzarlo alla sua stessa possibilità di amore. L’uomo è essere relazionale, che è custodito e custodisce. È un soggetto duale, non è mai senza l’altro, ma sempre con l’altro. Chi non può è affidato da Dio a chi può, mentre chi può è chiamato da lui a prendersi cura di chi non può. Nella reciprocità asimmetrica del custodirsi vicendevolmente splende, per la Bibbia, la gloria di Dio e la santità dell’uomo.
6) Il Dio biblico esige Giustizia e Diritto. In linguaggio cristiano, l’uomo è interpellato perché ami e sia riamato.
Giustizia e diritto sono i poli costitutivi dell’ordinamento giuridico. Questo è definito dalla contesa fra due soggetti, dalla presenza di uno o più magistrati e, infine, da un tribunale che, a nome dell’organo giudicante, emette la sentenza dichiarando chi ha torto e chi ha ragione, oppure invitando i contendenti a trovare loro stessi una soluzione compromissoria.
Dio richiede dalle sue creature giustizia e diritto ma rivendica il ruolo di Giudice solo per sé; chiama a sé tutti i popoli della terra; emette le sentenze in modo sorprendente e scandaloso; vieta agli uomini di arrogarsi tale diritto perché ad essi è dato di osservare solo i comportamenti esterni e i reati commessi in violazione di leggi approvate, ma non di giudicare il cuore e la coscienza di altri uomini.
Il Diritto e la Giustizia voluti dal Dio biblico, e il giudizio che egli rivendica su tutti, si distanziano – secondo Di Sante – dagli ordinamenti giuridici dei sovrani e delle stesse democrazie, perché non è un monarca che esercita il potere in modo autocratico o tramite un parlamento, esposti entrambi alla fragilità del limite, dell’errore e della violenza. Egli è il Dio benevolente e fedele che richiede solo fiducia e obbedienza.
La Legge biblica consegnata a Israele da un Dio che libera e cura gratuitamente – prosegue lo studioso –, «contiene al suo interno un valore universale perché insegna che ogni ordinamento giuridico sorge dalla necessità di proteggere le componenti del corpo sociale, per promuoverne la sicurezza e la pace, impedire soprusi e violenze, porre limiti alla volontà dominatrice appropriativa dei potenti e dei prepotenti, attivare processi di liberazione da ogni sfruttamento e oppressione, a partire dai poveri, dagli ultimi e dalle vittime. Altro dalla Legge del Sinai, gli ordinamenti giuridici degli stati, se promuovono giustizia e diritto, non si contrappongono alla legge biblica, ma ne sono il riflesso nel cammino dell’umanizzazione dell’uomo; se invece, del diritto e della giustizia sono il palese tradimento, dalla legge biblica subiscono il giudizio e la condanna» – annota Di Sante (pp. 306-307).
Nella Bibbia la giustizia richiede il diritto e altre volte il diritto esige giustizia. Talvolta ai due termini si associano anche altri attributi divini, quali la misericordia e la fedeltà. Chi si allontana da Dio e dall’alleanza, cambia il diritto in veleno e la giustizia in assenzio (cf. Am 6,12). Dio smaschera l’autoinganno di chi esercita il potere.
7) Il Dio biblico oltrepassa Giustizia e Diritto. La giustizia e il diritto che Dio esige scaturiscono dal suo “grembo” divino materno, viscerale, che permane e non abbandona mai. Dio si rivela come Abbà, specialmente nella persona di Gesù. Il racconto della sua passione è un racconto teologico che non narra come Gesù di fatto sia morto sulla croce, ma come egli sulla croce abbia assunto la sua morte ingiusta di fronte a Dio, per sua libera decisione. Gesù usa la parola perdono per parlare della misericordia di Dio, per metterne in luce la sua dimensione ultimale in lui e a lui incarnata, cioè vissuta e svelata.
Nella Lettera agli Efesini, Paolo afferma che Gesù ha riconciliato l’umanità «uccidendo in sé l’inimicizia, cioè dopo aver ucciso l’inimicizia in sé», afferma Di Sante traducendo letteralmente. Il perdono donato dal crocifisso sulla croce coincide con “l’uccisione in sé” di quell’inimicizia che separa l’uomo da Dio e dagli altri e, separandolo, lo rende artefice di disordini, sofferenze e violenze, come narra il racconto della colpa delle origini.
«Proclamando che sulla croce Gesù ha vinto la morte con la sua morte e così risorgendo, ciò che il kérygma neotestamentario intende è che, per rinnovare e trasformare il mondo secondo la logica dell’alleanza, l’uomo deve prima far risorgere in sé il “cuore”, cioè il suo io assopito, insensibile, indifferente: rialzandolo, risollevandolo, risvegliandolo, portandolo fuori dal sepolcro putrido della morte, aprendogli gli occhi e facendogli prendere coscienza che ciò che ciascuno per prima cosa deve e può fare è “uccidere l’inimicizia in se stesso”» (p.311).
Sulla croce Gesù non salva sé stesso ma prende su di sé le colpe degli altri, pur non avendo fatto nulla di male. Il paradiso promesso al ladrone è la «possibilità offerta da Dio in ogni quie ora perché la sua creatura qui e ora torni a essergli fedele e responsabile partner, a cominciare dall’“uccisione in sé” dell’inimicizia per non reiterarla» (p. 312).
Come la giustizia e l’amore non si oppongono alla misericordia di Dio, allo stesso modo il perdono neotestamentario non si oppone alla misericordia di Dio. Di questa è la rivelazione escatologica, ovvero definitiva e ultima oltre la quale è impossibile andare. Per quanto la colpa umana sia pervasiva e persistente, l’evento del perdono vissuto e proclamato dal messia inchiodato sulla croce reca al mondo la buona notizia che il Padre che è nei cieli è sempre fedele alla sua creatura della quale non si dimenticherà mai. «[…] egli sarà sempre il Dio della consolazione (il Dio che si china su chi è fragile, sbandato, peccatore e impotente per abbracciarlo, risollevarlo, fargli sentire che non è solo e prendendosene cura) – che chiama a consolare» (cf. 2Cor 1,3-5) (ivi).
L’autore è convinto di aver mostrato che la soluzione del problema della colpa e della pena può avvenire solo all’interno di un quadro biblico di pensiero dominato dal Dio dell’alleanza, che per pura grazia dona il perdono, che solo può dare la forza di perdonare, ricuperare cioè le ferite dell’offeso e dell’offensore, all’interno di un processo di giustizia riparativa che salvaguarda la dignità alle persone e offre la possibilità di ricostruire la relazionalità fra le persone e con la società, che è la cifra dell’essere umano creato da Dio e la finalità ultima anche di ogni ordinamento di giustizia penale che sia veramente tale.
R. Mela, in
SettimanaNews.it 17 novembre 2023