Associo in questa recensione due testi di autori differenti, ambedue famosi e apprezzati cultori contemporanei di teologia morale e in particolare di morale sessuale, perché di fatto accomunati da una ricorrenza (il 50° anniversario della pubblicazione della enciclica Humanae vitae di papa Paolo VI, firmata dal pontefice il 25 luglio 1968), che intendono ricordare e celebrare, ed entrambi apparsi a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro nella ben nota collana di studi teologici «Giornale di Teologia» della editrice Queriniana.
Parto dal volume di Lintner, teologo moralista e docente allo Studio Teologico Accademico di Bressanone, la cui formazione e cultura è però decisamente di area germanofona. Il suo lavoro, suddiviso in due grandi capitoli più una conclusione, ha un taglio principalmente storico-teologico. Nel primo capitolo intende per prima cosa ragguagliare sull’iter che ha storicamente preceduto la redazione dell’enciclica (pp. 19-69), esaminando però non le discussioni tra teologi ante e postconcilio Vaticano II bensì il lavoro svolto da due organismi ecclesiali: 1) la Commissione Pontificia per lo studio della popolazione, della famiglia e della natalità, istituita da papa Giovanni XXIII già nel marzo 1963 e poi confermata e allargata da papa Montini; al termine aggiunge qualcosa anche sui lavori della Commissione episcopale istituita, sempre da Paolo VI, nel marzo 1966 per esaminare il Rapporto conclusivo (più precisamente i 3 rapporti) con cui si erano chiusi i lavori della suddetta Commissione; 2) la Sottocommissione conciliare sul matrimonio e la famiglia, incaricata della redazione della parte della costituzione Gaudium et spes relativa al matrimonio e alla famiglia (nn. 47-52) e le discussioni che anche in tale sede c’erano state circa il problema della regolazione della fertilità, come pure le vicende che avevano caratterizzato gli ultimi giorni di redazione e dibattito conciliare della GS (in particolare i 4 modi, ovvero proposte migliorative, avanzati da papa Paolo VI nella fase finale di stesura dei nn. 47-52).
A completare e impreziosire la panoramica, due brevi ma importanti excursus: il primo (pp. 23-27) sulla antecedente dottrina magisteriale cattolica in materia (a cominciare dall’enciclica Arcanum divinae sapientiae di Leone XIII fino alle allocuzioni pubbliche di Pio XII); il secondo (pp. 45-50) sul «Memorandum di Cracovia» redatto dal vescovo polacco Wojtiła, insieme ad altri teologi, quale contributo ai lavori della Commissione Pontificia di cui era membro.
Nella seconda parte del primo capitolo (pp. 70-87) l’autore si sofferma sulla redazione della enciclica Humanae vitae e ne illustra sinteticamente la struttura e i contenuti. Il secondo capitolo si occupa di altri tre aspetti ugualmente interessanti: 1) l’iniziale reazione alla pubblicazione dell’enciclica, con gli interventi di ben 38 Conferenze episcopali nazionali (però il testo riporta solo qualche stralcio dei documenti dei vescovi italiani, tedeschi e austriaci); 2) la ricezione che in HV si può riscontrare dei nn. 47-52 di GS; 3) la ricezione/rilettura che HV ha ricevuto nei tre pontificati posteriori di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco; circa quest’ultimo, il riferimento, oltre che ad Amoris laetitia, va ai due sinodi sulla famiglia del biennio 2014-2015.
Nella «Conclusione» (pp. 143-168) Lintner traccia un suo bilancio conclusivo e lo fa adoperando espressioni piuttosto forti e radicali, mutuate da altri teologi moralisti tedeschi, in particolare Schockenhoff. Parla, in rapporto alle conclusioni normative di HV, di una «decisione sbagliata» e aggiunge che anche lo sforzo del magistero di Giovanni Paolo II di fornire argomentazioni antropologiche di tipo personalista, in linea con gli orientamenti del Vaticano II, pur apprezzabile, non risulta convincente.
Nell’insieme un testo molto critico, ricco di osservazioni originali ed acute, dove l’autore, non nascondendo il suo rammarico per le decisioni finali del papa ma ancor più per le modalità con cui erano state prese, non ritiene decisivo l’apporto argomentativo wojtiliano e, sul piano etico mette anzi in luce come il magistero di Giovanni Paolo II non tenga sufficientemente conto della complessità del rapporto tra la legge e le situazioni contingenti e molteplici, né dia adeguato rilievo al ruolo della coscienza morale personale in rapporto alla legge.
Differente, e a mio parere più positivo, il secondo testo, quello di Aristide Fumagalli, anche lui docente di Teologia morale alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale con sede centrale a Milano. Già la scelta del titolo è significativa: Humanae vitae. Una pietra miliare, giacché, come si legge nell’«Introduzione» che funge anche da «chiave interpretativa» dell’intero volume, tra le due interpretazioni che hanno visto nell’enciclica o una pietra di confine che ha fissato limiti invalicabili o una pietra d’inciampo che ha impedito l’aggiornamento della morale coniugale, l’autore ne privilegia una terza che interpreta appunto la HV come «pietra miliare, il cui significato non è quello di interrompere, opportunamente o indebitamente, il cammino, ma di orientarlo» (p. 5) verso una migliore ricomprensione della dottrina enunciata.
Il volumetto è suddiviso in 10 brevi capitoli, che, senza ora esaminarli singolarmente, percorrono il seguente itinerario: dopo un’iniziale contestualizzazione dell’enciclica nel momento storico della sua redazione, si passa a mostrare come il suo messaggio si inserisca all’interno di una tradizione precedente che già affermava che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla vita; messa poi in luce la novità conciliare in relazione al tema matrimonio-famiglia, consistente essenzialmente in una nuova prospettiva improntata al personalismo, si presenta sinteticamente la dottrina della HV e se ne evidenzia il nucleo dottrinale principale: l’affermazione della inscindibile unità dei due significati, unitivo e procreativo, dell’atto coniugale, letta come l’espressione/applicazione dell’ottica personalista alla questione «regolazione delle nascite». I capitoli dal quarto all’ottavo sviluppano e approfondiscono la riflessione su tale doppia significazione dell’atto coniugale: si rileva che, malgrado l’intenzione personalista, HV ancora privilegia la prospettiva giusnaturalistica e biologistica e si ricorda l’integrazione apportata da Giovanni Paolo II col suo magistero sulla corporeità e l’amore coniugale, i possibili conflitti che possono nascere fra i due significati e i rispettivi valori morali e le vie per superarli, e infine il rischio che, nella proposta dei metodi naturali, si privilegi il significato procreativo a spese di quello unitivo. Il nono capitolo riflette sul ruolo del discernimento della coscienza dei coniugi nella scelta dei comportamenti da tenere.
Nell’ultimo capitolo l’autore indica l’attualità del messaggio di HV e in pari tempo la direzione verso cui l’enciclica apre, anche se direttamente non la percorre. Cito due frasi che mi paiono emblematiche: 1) l’annuncio fondamentale dell’enciclica (la pietra miliare del titolo) «è che la fecondità appartiene alla verità dell’amore… [ne è] una dimensione costitutiva e ineliminabile» (p. 99). Ciò la rende a un tempo tradizionale (perché sempre la Chiesa ha insegnato così) e profetica (per i tanti tentativi e modalità odierni di scindere i due significati, per motivi egoistici, eliminandone uno dei due: una unione coniugale senza generazione o una generazione senza unione coniugale); 2) tale pietra miliare «resta come l’ideale pieno della fecondità coniugale», ma «nella concretezza della condizione storica», ossia nelle concrete, mutevoli e talora imprevedibili circostanze della vita, tale ideale a volte «è solo parzialmente e imperfettamente praticabile ed è affidato alla responsabilità dei coniugi». Ciò è quanto insegna l’Amoris laetitia di papa Francesco che «promuove come criterio per vivere l’intera realtà del matrimonio […] il discernimento pastorale che mira all’individuazione hic et nunc della massima fecondità possibile» (p. 100).
Una prospettiva, a mio modo di vedere, positiva e affascinante, che non legge il singolo intervento magisteriale come qualcosa di concluso in sé, ma come parte di un cammino dove, in presenza di situazioni storiche sempre in evoluzione e in contesti storico-culturali molto vari, la Chiesa, intesa nella sua complessità e nell’interazione tra popolo di Dio, magistero e teologia, gradualmente, ma con crescente lucidità, arriva a discernere le vie giuste per dare risposte adeguate, di tempo in tempo, ai profondi interrogativi del cuore umano.
M. Cassani, in
Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 46 (2019) 480-483