Filosofo e teologo cattolico ungherese, Boros si è imposto nel panorama teologico contemporaneo con una sua originale concezione relativa all’escatologia cristiana e con una serie di scritti di spiritualità di cui Vivere nella speranza. L’attesa del futuro nell’esistenza cristiana è un esempio. La tesi che fa da tessuto connettivo al saggio è che la speranza per il cristiano non costituisce un segmento di un discorso di fede più vasto, ma rappresenta la condizione indispensabile per poter realizzare un’esistenza che possa dirsi effettivamente volta alla sequela di Cristo.
D’altra parte, come sottolinea l’autore, si è costretti a constatare che i trattati della dogmatica cristiana che affrontano il tema della speranza, «del cielo» come scrive lo stesso Boros, sono fra quelli più incolori, meno robusti, specie se li si confronta con un testo fondamentale di tutto il secolo scorso quale è Prinzip Hoffnung (Il principio speranza) del filosofo marxista Ernest Bloch. Scrive, infatti, il teologo ungherese: «La filosofia della speranza di Bloch – con tutte le sue vaste ricerche – fa comprendere al pensatore cristiano quanto insufficiente ed “esangue” sia lo stile, con cui noi cristiani parliamo del regno di Dio, che è già iniziato nel nostro mondo. Ciò fornisce materiale sufficiente per un più ampio esame di coscienza […] l’opera Prinzip Hoffnung ferisce sul vivo noi cristiani, più di qualunque altra» (p. 9). A quale ferita si riferisce Boros è presto detto: all’abitudine nel pronunciare dei lunghi discorsi su quanto sia deprecabile e miserevole l’attuale situazione dell’intera umanità.
Viceversa, la speranza, cioè il saper assaporare il gusto della felicità, l’essere ottimisti devono costituire componenti essenziali della vita umana e il cristiano, pertanto, ha il dovere di mostrare ai suoi simili che nel mondo esiste il sogno, il desiderio, la passione, la speranza che si coniuga con un’autentica fame di futuro. Mettendosi in relazione al pensiero di Bloch, Boros ne fa propria l’ontologia, fondata sulla potenzialità dell’essere e sull’apertura al cambiamento, una ontologia che è definita da Bloch medesimo come «ontologia del non ancora». Ma, al contempo, la stravolge in quanto, a differenza del pensatore hegelo-marxista, Boros è credente.
Il volume consta, quindi, di una serie di meditazioni volte a porre la questione di Dio sotto la prospettiva di ciò che attende l’uomo nel futuro, esaltando il binomio esistenza umana-esistenza di speranza. Da questa prospettiva Boros tenta di non scivolare in meditazioni troppo filosofiche, ma, tenendo ferma la bussola della spiritualità, tratta delicate problematiche, a iniziare dall’interiorità dell’uomo che si è soliti definire anima. Essa è già presente nell’embrione e sarà suscettibile di una ulteriore perfezione che ha bisogno di essere liberamente realizzata. Ciò significa che ogni donna, ogni uomo devono avere la possibilità di integrare le proprie «esteriorità» (ossia il corpo) nella «interiorità» dell’essere, vale a dire che ogni creatura umana deve avere la possibilità di aprirsi all’Assoluto.
In tale contesto la morte diviene una vera e propria opzione decisiva: «Nel momento della morte avremmo dunque ancora una possibilità di scelta; o meglio, soltanto in morte noi avremmo la possibilità di una presa di posizione pienamente personale e totale» (p. 25).
«In morte»: per Boros non si tratta dello stato che precede la morte dell’individuo, piuttosto significa che nel momento più cruciale di un essere umano quest’ultimo è libero di fare la scelta definitiva nei confronti di Cristo. Pensare la morte significa, pertanto, porsi un radicale aut-aut che comporta la decisione per eccellenza. Infatti, solo con la scelta in favore della Parola vivente possiamo aprirci a un più vasto spazio che include il cambiamento e il rinnovamento di questo mondo. Creazione e trasformazione – altro binomio chiave nelle meditazioni di Boros – sono, infatti, per l’Eterno un’unica, grande realtà.
Ogni uomo, ogni donna divenuti «uomo nuovo» e «donna nuova» che hanno scelto il plérōma di Cristo, cioè un Cristo vertice e sintesi della realtà umana circondato da un mondo ormai glorificato, diventano lo strumento per la trasformazione della realtà mondana. La grazia concessa all’epoca che ci è toccata in sorte è, quindi, prendere una volta per tutte coscienza delle dimensioni divine ed escatologiche del nostro passaggio terreno.
D. Segna, in
Protestantesimo vol. 78 (3-4/2023), 337-338