Da Stefan Zweig a Frank Kafka, da Etty Hillesum ad Albert Camus, da Vasilij Grossman a Hannah Arendt e soprattutto Emmanuel Levinas: sono tanti gli scrittori e i pensatori che si sono interessati al tema della gratitudine. Ne tratta con grande competenza e partecipazione Catherine Chalier, allieva del filosofo lituano-francese, nel volume Scoprire la gratitudine. La sfida dell’asimmetria (Queriniana, pagine 222, euro 34).
Abbiamo a che fare con qualcosa che va oltre ogni contabilità e si confronta con l’altro soprattutto nella sofferenza.
In una scena di Vita e destino, il grandioso romanzo di Grossman sull’orrore di entrambi i totalitarismi che hanno segnato il Novecento, una donna russa offre un pezzo di pane a un soldato tedesco fatto prigioniero dai russi dopo l’assedio di Stalingrado, proprio mentre il giovane nazista teme di essere linciato. È una pagina emblematica dell’esistenza dei Giusti, di tutti coloro cioè che nel bel mezzo di una tragedia inenarrabile, rischiando spesso la propria vita e molte volte agendo quasi per istinto e senza scopi dovuti a un’ideologia, hanno aiutato un ferito anche se militava nelle fila opposte, hanno nascosto ebrei che venivano perseguitati, hanno visto insomma nell’altro un uomo e non un nemico.
E alla fine di Se questo è un uomo, Primo Levi racconta che negli ultimi giorni di prigionia un giovane malato di tifo sceglie di dividere il pane con tre operai: «Soltanto il giorno prima un simile avvenimento non sarebbe stato concepibile. La legge del Lager diceva: mangia il tuo pane e, se puoi, anche quello del tuo vicino, e non lasciava posto per la gratitudine. Voleva ben dire che il Lager era morto».
Due scene simili, capaci di far scattare la gratitudine. Che, come suggerisce la legge del dono indagata da Mauss, Caillé ed Hénaff, non è mai simmetrica. Scrive Chalier: «Questa gratitudine è vissuta come un furtivo e inatteso allontanamento dalla presa del male su se stessi, o anche come una tregua rispetto al tempo della desolazione mediante la sventura; essa si esprime con parole e gesti che significano per gli altri il primato della loro vita nell’ambito di un creato che la supera per immensità. Malgrado tutto, questa gratitudine non dimentica la tragedia del mondo e non vi si rassegna in alcun modo».
Quei gesti inaspettati rappresentano una ribellione verso un mondo spietato fatto di odio e sopraffazione. Si tratta di “qualcosa di indistruttibile”, come diceva Kafka, che ci trascina oltre la palude dell’indifferenza e del male e che è insopprimibile negli esseri umani.
Lo dice bene ancora Grossman, quasi intravedendo una sorta di teologia della bontà, in un racconto sul viaggio compiuto in Armenia, quando toccò con mano le conseguenze del genocidio turco e simpatizzò con i discendenti di coloro che erano stati massacrati (si veda Il bene sia con voi!): «Nell’epoca cruda e terribile nella quale la nostra generazione è stata condannata a vivere su questa Terra, non dobbiamo mai accettare di venire a patti con il male. Non dobbiamo mai diventare indifferenti nei confronti degli altri e indulgenti nei confronti di noi stessi».
Si tratta di una fragile asimmetria, commenta Chalier, che emerge «quando la coscienza si desta – o più esattamente vien destata da altri». Un’asimmetria che è propria della vita umana e che capovolge la simmetria del male. Un cortocircuito ben espresso ancora da Primo Levi: «Razionalità e irrazionalità sono opposte e simmetriche; c’è, tra le due, un rapporto di uguaglianza, pur nell’opposizione. Auschwitz è simmetrica rispetto alla ragione; ne è il perfetto rovesciamento, ma al tempo stesso ad Auschwitz domina la razionalità. È un sistema coerente, per quanto rovesciato rispetto alla vita normale».
La gratitudine non va confusa con la gioia e non è nemmeno un sentimento di debolezza. Rare volte purtroppo la sperimentiamo durante le varie fasi della nostra vita: quasi sempre ci dimentichiamo dei debiti che abbiamo verso gli altri e, quando essi diventano meno importanti, finiamo per ignorarli. Bene l’ha espressa nei suoi versi il poeta François Cheng: «Poi all’improvviso, è l’abbandono inatteso, / al di sopra dello smarrimento, alla gratitudine, / verso ciò che, malgrado tutto, / è stato donato e vissuto».
R. Righetto, in
Avvenire 3 giugno 2025