L’immagine è terribile: «La culla dondola su un abisso. La nostra esistenza è soltanto un fuggevole spiraglio di luce tra due eternità di tenebre». Così Nabokov nel suo autobiografico Parla, ricordo, tradotto da Mondadori nel 1962. A lui farà eco Bufalino: «La vita: uno squarcio di luce che la morte, come una chiusura lampo, fulmineamente richiude». L'intuizione, però, occhieggiava già nei Diari di Kafka quando descriveva la sua vita come l’affannosa ricerca di «una striscia assoluta di felicità», simile a una lama di luce in un oceano di tenebra.
A Nabokov rimanda esplicitamente fin dal titolo Come un chiarore furtivo, di Catherine Chalier, filosofa e scrittrice di grande originalità, discepola di Lévinas, appassionata studiosa di Spinoza e Rosenzweig: già questi percorsi di ricerca rivelano la sua insonne esplorazione del pensiero ebraico sia moderno sia del passato giudaico. Dopo aver insegnato alla nota università di Parigi X – Nanterre, dalla capitale francese ove continua a vivere fa risuonare la sua voce con intensità attraverso le pagine spesso fragranti di intuizioni.
È stato il caso di quel gioiello che è il Trattato delle lacrime, tradotto dalla Queriniana nel 2004, scandito da un sottotitolo emblematico Fragilità di Dio, fragilità dell'anima. Certo, che piangano Giacobbe, Esaù o Giuseppe, i profeti, Giobbe e il Salmista è comprensibile, ma come mai che dalle ciglia di Dio gocciolano lacrime, soprattutto quando ha a che fare con la sua creatura privilegiata, l'umanità?
Anche nel nuovo saggio si intuisce un fremito costante che sboccia da quella coppia di verbi destinata a essere la linea confinaria della nostra vita, nascere e morire, termini che sono il sottotitolo obbligato del libro.
Di fronte a queste frontiere si sono schiantati molti pensatori e scrittori, altri, invece, le hanno varcate arrischiandosi di penetrare in orizzonti tenebrosi o accecanti. Come non pensare a Dante e a mille altri, giù giù fino a Rilke che considerava il confine finale della morte come un inizio che svela «l'altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi»? O al celebre detto eliotiano «In my end is my beginning» che, però, era smentito nel suo Frammento di un agone: «Nascita, e copula e morte,/ tutto qui, tutto qui, tutto qui,/ nascita, e copula e morte./ E se tiri le somme, è tutto qui». Per non parlare dell'implacabile Caproni del Franco cacciatore: «Se ne dicono tante. / Si dice, anche,/ che la morte è un trapasso. / (Certo: dal sangue, al sasso.)».
Ritorniamo, però, alla Chalier e alle sue pagine che impongono una lettura lenta, quasi centellinata, sia per la densità del pensiero, sia per il rimando frequente a un sistema letterario-filosofico-teologico alternativo com’è quello della tradizione giudaica incessantemente ramificato anche a causa dell'incandescenza del tema cristallizzato nel citato binomio radicale della nascita e della morte. La complessità delle sue pagine, inoltre, è generata anche dalla filigrana di letture che partono da Platone, Plotino, Lucrezio e altri saggi e approdano a Byron, Tolstoj, Proust, Rilke, Heidegger, Ricoeur, Lévinas, Jonas e a tanti altri autori, raggiungendo persino Leonard Cohen con la canzone You Want It Darker...
Non è, quindi, possibile proporre una sintesi ma è necessario incamminarsi in un itinerario che, purtroppo, la temperie contemporanea ci ha abituato a evitare. Non per nulla nascita e fine vita, quando sono problematiche, vengono spesso ostracizzate o tagliate con un colpo di spada, piuttosto che affrontate come un modo gordiano da dipanare pazientemente.
Il cuore del saggio, capace anche di sciogliere l'enigma del titolo, è il c. 3, rubricato sotto il motto «Tra due nulla, tra due luci»; facilmente solubile secondo l’antitesi che segna la storia del pensiero e che sopra abbiamo già abbozzato:dal nulla al nulla, oppure dalla luce alla luce.
Tra questi due estremi, ecco l'intermezzo, la nostra esistenza storica che ha come stemma evidente la finitudine col suo corteo di interrogativi non solo teorici,ma tatuati nella nostra anima, anzi, nella nostra pelle stessa. Chalier ricorre, allora, a più riprese alla tradizione ebraica, come fa quasi in ogni capitolo intarsiandoli con intuizioni che spesso sparigliano le nostre grammatiche razionali pur raffinate. È in questo percorso che si va alla ricerca di un "punto interiore", centro intimo e segreto che «designa l’affioramento dell'unità divina in ogni umano». In noi avviene una contrazione dell’infinito divinonel nostro finito umano: è quel famoso simsum, ossia il ritrarsi del Creatore per lasciare spazio al creato, senza però staccarsi da esso.
In noi, perciò, permane – celata e implicita – l'unione con l'Infinito che la filosofa cerca di sviluppare in un imponente sforzo intellettuale-simbolico disteso a raggiera. Si tratta di un viaggio che genera vertigini e che può anche sconcertare ma che risulta inedito rispetto ai molteplici sistemi finora elaborati, pur non rigettandone o ignorandone i contributi. Un viaggio che si muove persino dall'alleanza pre-originaria con il bene che segna già la genesi della persona umana (tesi cara al suo maestro Lévinas) e procede fino a pervenire a una triade conclusiva ove si attesta il bilancio della nostra esistenza: riparazione/conversione, risurrezione, responsabilità.
Certo, non tutto in questa mappa così complessa è perspicuo e convincente; l'ancoraggio nel porto teologico-letterario biblico-giudaico non quieta tutte le tempeste che tormentano un mare tematico così esteso e misterioso, fatto di tante e ulteriori interrogazioni. Tuttavia, Catherine Chalier conferma a suo modo l'intuizione poetica di Wislawa Szymborska: «Non c'è vita che almeno in un attimo non abbia conosciuto l'immortalità» (Sulla morte senza esagerare).
G. Ravasi, in
Il Sole 24 Ore 16 giugno 2024, viii