La celebrazione dei 1700 anni di Nicea: linee di tendenza di una rinnovata ricezione
di Alberto Cozzi
Un dato macroscopico che emerge dai recenti Convegni e da diverse pubblicazioni occasionate dall’anniversario del primo concilio ecumenico è l’intento condiviso di non concentrare l’attenzione sul dato dottrinale né solo sulla questione storico-politica della cosiddetta “svolta costantiniana”, ma di considerare complessivamente l’evento conciliare e la portata della “fede nicena” per la Chiesa di oggi. In tal modo si può cogliere ciò che sta all’origine come qualcosa che cammina con noi e ci dona un’identità da riattualizzare nel tempo, piuttosto che un’eredità intoccabile che ci blocca in un passato lontano. […]
1. Il tipo di approccio
Si tratta di verificare se l’evento di Nicea rappresenti ancora qualcosa su cui vale la pena di sostare, non solo per il simbolo di fede, che pure ha portata ecumenica e quindi rappresenta una solida base della fede condivisa dai cristiani. Il risultato dottrinale del Concilio, ossia il dogma niceno, non viene sottovalutato, ma «l’indagine attorno all’evento di Nicea in sé, prima ancora che attorno a quelli che ne sono stati gli esiti, ci permetterà di ridare spessore e riportare alla luce tutte le sfumature che fanno di questo Concilio una vera svolta, non solo nella storia della chiesa ma nel modo di stare, di credere e di pensare in essa» (Ripartire da Nicea, 8). […]
Complessivamente, si può vedere in questo sforzo pluridimensionale di rivisitazione di Nicea un vero e proprio “atto di ricezione”, ovvero il riconoscimento di un bene per la vita della Chiesa, che tende alla riappropriazione di ciò che c’era in gioco, in relazione alle nuove condizioni storiche e culturali. Questo sforzo implica però una non facile composizione: si tratta di dire l’attualità di Nicea senza idealizzazioni esagerate, anzi riconducendo l’avvenimento conciliare alle sue reali dimensioni storiche; ma si deve anche cogliere l’esemplarità, la normatività, l’unicità del discernimento niceno, senza peraltro scadere in irrigidimenti dogmatici della tradizione, che potrebbero imbalsamare la rilettura dell’operazione teologica lì realizzata, fissando lo sguardo su un passato intoccabile. Si comprendono le domande che dominano l’indagine: cosa è accaduto realmente a Nicea? Che consapevolezza emerge dall’evento? Quale operazione si è compiuta e cosa significa per noi oggi? Quali soggettività ecclesiali (magisteriali, teologiche, disciplinari) si sono con-costituite in quell’avvenimento e come hanno funzionato? Si tratta di onorare un evento di portata storica, recependone la vitalità per l’oggi. […]
In questa prospettiva, uno studioso dello sviluppo del dogma come M. Seewald sottolinea la normatività e l’esemplarità del concilio di Nicea proprio facendo notare l’integralità del pronunciamento nelle sue dimensioni costitutive: «Nicea è normativo per la chiesa perché questo concilio ha insegnato in una forma che deve essere preservata e trasmessa, in quanto nella professione di fede si uniscono in un unico atto la preghiera e la dossologia, la testimonianza e la dottrina». Una simile unità e integrità verrà presupposta nei Concili successivi, ma mai adeguatamente messa in opera: «Non bisogna perdere di vista la differenza formale tra il modo di insegnare di Nicea e quello dei concili successivi: al concilio di Nicea si è trattato dell’ortodossia attraverso l’omologia, attraverso l’atto della professione comune della fede, che ha implicazione dottrinali ma va ben oltre la dottrina, perché la professione di fede è anche preghiera, dossologia e testimonianza» (Ripartire da Nicea, 74).
Possiamo allora raccogliere da questo pronunciamento di fede integrale quattro dimensioni sintomatiche di questa celebrazione, nelle quali diversamente si ripropone la tensione tra delimitazione del fenomeno storico alle sue reali dimensioni e riscoperta della sua portata normativa ed esemplare per la Chiesa di ogni tempo. Queste quattro dimensioni rimandano approssimativamente alla ricostruzione dell’evento storico, alla sua ripercussione nella vita della Chiesa, alle implicazioni per il metodo teologico e all’ermeneutica dogmatica e culturale.
2. La delimitazione storica dell’evento e la sua portata reale
Nei saggi di impostazione più storica domina la preoccupazione di ridare all’evento conciliare la sua portata reale. Ciò comporta anzitutto l’attenzione a non limitare l’indagine al termine “consustanziale” e alle formule antiariane, per ricollocare il simbolo di fede battesimale nel contesto dei diversi canoni, che raccolgono indicazioni liturgiche e disciplinari più complessive (Ripartire da Nicea, 21-51). In positivo ciò significa superare una certa riduzione “dottrinalista” del Concilio, per cogliervi una dimensione ecclesiale più ampia, nella quale c’è in gioco una certa “forma di Chiesa”, in cui si vanno plasmando i diversi ruoli ministeriali, le relazioni tra le comunità e un modo di pregare e celebrare. […]
Per comprendere fino in fondo la portata di certe domande dottrinali, bisogna cogliere in profondità quale auto-comprensione della Chiesa vi è implicata e in che misura tali domande mettano in gioco la fede ecclesiale nella sua totalità e integrità. Oltre all’attenzione al contesto storico preciso, ci vuole quindi un’apertura alla domanda più generale di fondo, che concerne la fede della Chiesa di ogni tempo. […] Detto altrimenti: il dogma deve essere compreso a partire dalla domanda nella quale esso ha ricevuto la sua configurazione. Ma le domande ultime, che non interessano solamente singole scuole teologiche bensì toccano l’intera Chiesa e quindi esigono una risposta che riguarda la Chiesa come Chiesa, non possono mai morire del tutto. Possono venire coperte, possono celarsi dietro altre domande, ma se in esse si esprime l’appello e la speranza della fede, non diventano mai insignificanti. In tal senso la questione ariana pone questioni precise, delimitate nella storia e con presupposti culturali condizionati. Eppure ciò che c’è in gioco riguarda verità di fede universali, nello spazio e nel tempo, che conservano sempre il loro valore e se anche sono colte sempre in contesti culturali determinati, chiedono un’apertura a una verità più grande, che è sempre còlta in un determinato processo storico. […] La fede nicena prende forma e acquista il suo valore paradigmatico in un processo teologico e sinodale complesso, nel quale si approfondiscono gli argomenti e la portata delle questioni in gioco, esplicitando ciò che la vera divinità del Figlio Gesù comporta per la predicazione, la vita cristiana, la salvezza. In tal senso siamo rimandati alla seconda dimensione, ovvero le ricadute di Nicea sulla vita della Chiesa.
3. Le dimensioni della fede nicena nella vita della chiesa: liturgia e preghiera, predicazione e catechesi
Uno dei risultati più apprezzabili della recente pubblicistica su Nicea è la condivisa attenzione alle risonanze della fede nicena nella vita della Chiesa a diversi livelli. […] È vero – e va messo in evidenza – che i cristiani oggi incontrano il linguaggio su Dio e su Gesù Cristo, caratteristico della loro fede, nella forma di una preghiera da recitare e di una professione di fede da confessare in comunità e non anzitutto come un paradosso teologico o un enigma metafisico da ponderare razionalmente. La novità del Dio di Gesù Cristo ci raggiunge, anzitutto, nella preghiera comunitaria.
Per cogliere il tesoro spirituale racchiuso a Nicea occorre poi verificare il modo in cui la fede di Nicea nasce dalla lex orandi e a sua volta la nutre.Anche qui si può segnalare una situazione paradossale: Nicea è la premessa di quella svolta che pone al centro dell’attenzione il contenuto della fede, il suo oggetto indagato teologicamente, rispetto alla forma rituale della fede: «La preoccupazione per l’unità, da conseguire attraverso una formulazione più precisa della fede apostolica, tende da allora a spostare il centro dell’attenzione dalla forma al contenuto, ossia dalla rituale professione di fede all’oggetto concettuale della professione», di modo che il lavoro teologico si concentra più sulla formulazione della fede che sulla forma della sua celebrazione (Ripartire da Nicea, 187-199).
La sintesi nicena verrà frammentata nei concili successivi, mentre nel primo concilio ecumenico restano in primo piano il rapporto tra lex orandi e lex credendi, tra culto e santificazione e tra disciplina e dottrina. La professione di fede nicena resta “simbolo” all’interno dell’azione rituale, così che la fede in Dio Padre, Figlio e Spirito non è mai semplicemente una dichiarazione di contenuti, ma la parola autorevole interna a una sequenza rituale. Il capovolgimento della relazione tra fede e preghiera, con l’emergere del primato della preoccupazione dottrinale su quella rituale, si imporrà in seguito. In questo senso «Tornare al testo di Nicea è l’occasione per recuperare in modo pieno questo atto di “relativizzazione” delle parole in rapporto alle azioni con cui il soggetto entra in rapporto intimo e vitale col Dio di Gesù Cristo» (Ripartire da Nicea, 194).
Nella stessa direzione si muove la sottolineatura della voce teologica orientale e ortodossa, quando evidenzia il funzionamento paradigmatico di Nicea come luogo di elaborazione di un linguaggio della comunione (Ripartire da Nicea, 161-170). In questo, Nicea riprende niente meno che la logica e il fine dell’intera economia salvifica, nella quale Dio cerca di ristabilire l’unità tra divino e umano e tra gli esseri umani tutti: si tratta di un’economia di comunione. Il culmine di tale processo è l’evento Gesù Cristo e la pienezza di questa nuova comunione in Cristo costituisce il suo corpo che è la ecclesia. […] La conoscenza delle formulazioni non coincide con la conoscenza della verità. Perciò bisogna evitare di fare dei dogmi degli idoli concettuali, slegandoli dal loro fine pastorale e salvifico, cioè dal servizio alla restaurazione della comunione. […]
La fede nicena ha infine una ricaduta importante sulla preghiera dei cristiani, poiché autorizza a invocare il Figlio Gesù, perfettamente uguale al Padre, e a glorificarlo nella dossologia col Padre e con lo Spirito Santo. Viene così confermata la regola di fondo secondo la quale «Come siamo battezzati così anche crediamo, come crediamo così anche glorifichiamo», che ritroviamo in un testo di Gregorio di Nissa sulla preghiera, compresa e spiegata all’interno del processo di divinizzazione.
4. Il gesto di Nicea e le ricadute sul significato del lavoro teologico
L’attenzione al contesto storico ed ecclesiale e alle implicazioni spirituali e esistenziali complessive non deve lasciare in ombra la portata teologica del gesto fondamentale di Nicea, che si esprime nell’inserzione nel Simbolo battesimale del termine “consustanziale”. […] In particolare, a Nicea diventa chiaro che «l’essere di Dio è, da sempre e per sempre, generazione: dell’altro di Sé come un altro Sé», e quindi la legge ontologica a cui obbedisce «l’essere di Dio e, da Lui e in Lui, dell’essere di tutto ciò che è, è la legge della relazione, e cioè del “distinguere per unire” e “dell’unire senza confondere”» (Ripartire da Nicea, 213-225, qui 218s.). È la legge ontologica, libera e gratuita dell’agape che Dio stesso è (1 Gv 4,8.16): Dio si rivela non come possessore esclusivo e autoreferenziale della sua sostanza eterna, ma come Colui che eternamente la condivide, gratuitamente e generosamente. […] Se ne ricava una stimolante provocazione al lavoro teologico, che non deve aver timore di dialogare con altre forme di sapere, né con la razionalità filosofica e “naturale”: si tratta infatti di risorse disponibili a manifestare diversamente ciò che la rivelazione ha affidato alla ragione umana. Tutto si gioca nella capacità di raddoppiare il discorso, non di sostituire.
Infine non mancano saggi e studi che cercano di determinare e delimitare il senso e la portata del linguaggio dogmatico niceno nel “definire” il mistero (Ripartire da Nicea, 201-211). Nicea rappresenta uno sforzo considerevole di elaborazione di un linguaggio adatto a comunicare il Dio rivelato da Gesù Cristo, con la sua novità (Ripartire da Nicea, 53-65). Ma tale sforzo deve essere consapevole dei suoi limiti e di alcuni criteri ermeneutici. Il punto di partenza è la Scrittura, col suo discorso narrativo e le sue metafore originali. La teologia lavora su questo primo tipo di linguaggio, che è già inculturato e contestualizzato, e lo concettualizza in formule di fede che a loro volta sono espressioni parziali e culturalmente determinate, con le quali ci si appropria della verità rivelata, senza la pretesa di dirla in maniera esaustiva. Ne deriva un processo incessante di “decontestualizzazione e ricontestualizzazione”, che costituisce la Tradizione vivente.
Ma la cosa che bisogna sottolineare, rispetto a tutti i problemi di uso e abuso del linguaggio teologico, commisurato alla nostra esperienza e autorizzato ad esprimere il divino con grande cautela, è la situazione nuova che il dogma niceno ha creato: bisogna trovare un linguaggio che ci permetta di abitare negli spazi infinti della vita eterna di Dio. Si deve trattare di un linguaggio che esprima l’ineffabile della vita trascendente di Dio, cioè le relazioni trinitarie eterne. Sarà un linguaggio tecnico e preciso, consapevole dei suoi limiti e della sua parzialità, più preoccupato di manifestare qualcosa del mistero, che non di definire e rappresentare. La svolta di Nicea consiste infatti nell’aver aperto un “nuovo spazio teologico” di riflessione e formulazione, al di là del principio di tutto ciò che è, che contenutizza i nomi divini non solo in relazione alle azioni storico-salvifiche (e quindi in termini scritturistici) né solo nel rimando allusivo e apofatico all’essenza divina indicibile (e quindi in termini mistico-speculativi). Dall’economia si passa alla teologia, dalla cosmologia si passa alla divinizzazione, con la necessità di elaborare un discorso teologico tecnico, non limitato alle metafore e narrazioni storico-salvifiche, ma aperto alla vita eterna di Dio. I nomi divini (Padre, Figlio e Spirito) dicono relazioni eterne e in esse “identità ipostatiche” in relazione, nelle quali risuona l’Io divino che dice di Sé. Siamo inseriti, col nostro balbettare sul mistero, nella relazionalità trinitaria eterna.
5. Il dogma di Nicea alla prova della cultura: l’istanza femminista e il problema dell’inculturazione
Un’ultima dimensione caratterizzante la ricezione di Nicea nel suo anniversario è quella della cultura. […]
In diversi saggi emerge l’esigenza di chiarire le implicazioni per la teologia di un discorso su Dio che insiste sul genere maschile. Bisognerebbe vigilare con spirito critico sulla storia degli effetti prodotti da parzialità di genere nella tradizione cristiana e in particolare su possibili strumentalizzazioni di un discorso androcentrico e patriarcale […]. L’istanza femminista è nota, ma è interessante la ricaduta sull’interpretazione di Nicea. Segnaliamo l’emergere di due possibili ermeneutiche. Quella più critica vede nell’accostamento del linguaggio metaforico e narrativo di genere maschile col discorso ontologico della sostanza un possibile irrigidimento metafisico del primato del maschile nel discorso su Dio (Ripartire da Nicea, 105-120). Il dogma ingesserebbe quindi ulteriormente il discorso teologico in logiche patriarcali, maschiliste e androcentriche: la teologia rimane prigioniera della concettualità del consustanziale da un lato e del linguaggio antropomorfo del Padre dall’altra. Ci si chiede allora se non si debba “alleggerire” il senso delle metafore maschili, per lasciare sullo sfondo la connotazione di genere e il tipo di legame familiare (paterno/filiale), per puntare invece sulla sola relazionalità, oltre il ritmo binario di genere, concentrata piuttosto sulle relazioni molteplici come luoghi di scambio gratuito e amicale, nei quali si realizzano quelle potenzialità positive che Gesù ha realizzato tra noi. Il referente di un simile discorso teologico rimane Gesù, inteso come “parabola di Dio”, di cui interessa meno l’origine e più l’azione liberante e rinnovatrice. Un’ermeneutica più positiva, invece, vede nell’accostamento di due tipi di linguaggio, quello metaforico, con connotazione di genere, e quello ontologico della sostanza, una duplicazione di senso da tenere aperta in una sorta di corridoio linguistico da percorrere nei due sensi, di continuo, così da liberare il discorso su Dio da chiusure idolatriche e riduttive (Ripartire da Nicea, 53-65). Questa seconda ermeneutica ci sembra più promettente.
Conclusione. Nicea come spartito musicale da interpretare sempre di nuovo
Il rimando alla musica serve a indicare il carattere di performance della fede nell’atto di tradizione: si tratta meno di custodire dei contenuti concettuali e dottrinali fissi e immutabili, quanto piuttosto di riprendere un’operazione per fare esperienza della relazione salvifica col Dio di Gesù Cristo. Per comprendere tutta la portata di Nicea occorre assumere una comprensione della tradizione basata sulla performance, un’ermeneutica della performance: «Infatti, è chiaro che il cristianesimo è come la musica: una stretta analogia con le opere musicali e con l’esecuzione musicale contribuisce ad una più profonda comprensione delle tradizioni cristiane nella storia e alla nostra appropriazione di esse per la vita cristiana di oggi» (Ripartire da Nicea, 79-104). […]
L’immagine della musica esprime bene le dimensioni e lo stile della rilettura di Nicea in questo anniversario significativo. Resta però aperta la domanda, più di ermeneutica dogmatica, se sia davvero sufficiente una lettura “sintattica” della definizione nicena e quanto invece ci sia un contenuto semantico imprescindibile e normativo, in relazione al quale si dischiude lo spazio di pensiero teologico all’altezza del sapere proprio della fede riguardo all’origine di Gesù Cristo in Dio e quindi riguardo al nostro destino in Lui e con Lui.
A. Cozzi, in
Teologia 2/2025