Davanti al mistero dell’incarnazione Stefano Fenaroli «si toglie i sandali dai piedi» (15) e con un’azione «immersiva», piuttosto che di «fronteggiamento», compenetra nella Deep Incarnation quasi in assonanza con l’aggettivo che la connota. Ne fanno testo anche la ricca e articolata bibliografia e soprattutto lo stile, tecnicamente accurato, chiaro e fluido, che attira in una lettura impegnativa ma appassionante.
Che cosa significhi il termine «deep»(profondo), connesso a «incarnation», per questa nuova (per il pubblico italiano) sensibilità teologica, e il compito di cui l’autore s’incarica, partendo dalla sua genesi che vede nel teologo danese Niels H. Gregersen l’iniziatore.
E la domanda sul male e «sul dolore nel corso dell’evoluzione» (428) che muove questo studioso a scrutare con occhi nuovi le parole giovannee «Il Verbo si fece carne» e il loro legame con l’evento della croce, via via maturando l’idea che per il mondo d’oggi sia necessario ri-pensare il rapporto trascendenza/immanenza e il carattere sacramentale della presenza di Dio in Gesù.
Sinteticamente, si può affermare che Gregersen s’assume il compito di ri-configurare l’antica domanda anselmiana: non più (solo) Cur Deus homo?, bensì Cur Deus caro? (cf. 430). La «profondità» di cui si parla connota l’evento dell’incarnazione in quanto si riferisce al «farsi carne» come assunzione, da parte del Logos, dell’«essenza stessa della materialità del creato» (55 et al.) e della destinazione nella vita divina per ogni creatura «ricapitolata e redenta in Cristo, Logos incarnato, risorto» (ivi).
Il notevole movimento di ri-significazione che innesca la Deep Incarnation investe i nomi – Logos, sarx (carne), Figlio, mondo… – e s’incardina su un’ermeneutica che, penetrando le Scritture, li ri-configura estendendone il significato e imprimendo in essi come un movimento d’inclusione sia in senso soggettivo sia oggettivo.
L’operazione volta a inquadrare teologicamente la proposta di Deep Incarnation e compiuta a partire, oltre che da un rilevante lavoro di scavo, storico e fenomenologico, sullo «stato» dell’idea cristiana di incarnazione, dall’emergenza dei richiami d’ordine ecologico-ambientale e dalla ricerca di una risposta alla sfida del male evolutivo (cf. 445).
La I parte del libro ricostruisce l’immagine della Deep Incarnation su tre assi portanti: l’indagine esegetica sulle due parole-cardine, logos e sarx;il dialogo con i Padri; il ripensamento del rapporto Dio/mondo. Il c. 3 è interamente dedicato alle grandi figure di Ireneo, Atanasio, Gregorio di Nazianzio, Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore, cui è riservato un significativo rilievo; il terzo asse, anch’esso molto ricco, consta di due cc., il primo sulla «Presenza di Dio», il secondo dedicato a quattro studiosi contemporanei – Elisabeth Johnson, Denis Edwards, Christopher Southgate, Celia Deane-Drummond – che si sono confrontati con la Deep Incarnation, in dialogo critico con il suo iniziatore.
I primi tre cc. sviluppano la parte in-formante (250) intenzionata a dare forma a questo soggetto teologico; il terzo asse, con un’originale scelta ermeneutica, fa precedere alla trattazione delle proposte teologiche contemporanee il c. dal titolo «Deep Incarnation e presenza di Dio», che spazialmente si trova nel libro in posizione quasi centrale e lo è altrettanto per densità e contenuto. La domanda che regge e conduce il discorso è se il concetto di «Dio», così come si è giunti a pensarlo a seguito della storia del dogma cristologico, sia effettivamente idoneo per pensare questo Dio trinitario in relazione con il creato, in grado di donarsi alle creature e ricondurre a sé l’intera opera creata.
Questa ermeneutica riconfigura la relazione di cui si dice secondo una rinnovata prospettiva radicalmente storico-salvifica: Dio è presente non solo e non tanto alle creature, ma in, with, under (in, con e sotto) il mondo creato (cf. 430, 440 et al.) e questo a partire dal suo essersi rivelato come creatura.
Collegato a ciò, il concetto strategico di extended body (corpo esteso) permette di radicare i livelli di profondità dell’incarnazione nella singolarità storica di Gesù, da cui risalire alla relazione fondante e costituiva dell’esistenza stessa di Gesù, cioè il suo essere Figlio, incarnato, in continua relazione con il Padre nello Spirito.
Si delinea, così, il legame radicalmente inclusivo e patetico del Verbo con tutta la creazione, fondato su un’assunzione «a doppio senso» (twofold assumption,altro concetto centrale nel disegno di Gregersen): l’assunzione divina della carne nel Verbo e l’assunzione del medesimo Verbo in Dio con la resurrezione (cf. 25, 187, 434). La nuova pensabilità della presenza di Dio è proposta secondo un modello allo stesso tempo panenteistico e kenotico,unendo in un paradossale binomio la trascendenza assoluta di Dio, in cui tutto sussiste, con la sua spoliazione e donazione in Cristo (437).
È in questo contesto che va segnalato lo sforzo di Gregersen (e di altri teologi) per avvicinare la teologia al mondo delle scienze naturali, in particolare alla ricerca fisicoquantistica e biologica, che rappresenta un’imprescindibile chiave d’accesso per il pensiero teologico chiamato a una vera epochè (cf. 444) per leggere e comprendere la realtà come oggi si manifesta.
La seconda sezione del libro, intitolata «Corrispondenze», ricerca «lo sguardo d’altri» a confronto con la Deep Incarnation e propone, nella I parte, l’esame critico della teologia di Paolo Gamberini e nella II il contributo teorico dello stesso autore «in dialogo con l’incarnazione profonda» (427). Al teologo gesuita viene dedicato un ampio e articolato esame che nelle conclusioni ipotizza un passaggio da un «primo» Gamberini, orientato all’elaborazione di una cristologia relazionale (399), al Gamberini «2.0», impegnato in un ripensamento della teologia in chiave monista-relativista su cui Fenaroli avanza la propria riserva critica, basata su alcuni decisivi nodi concettuali: il rapporto tra identità del divino e individualità; l’idea d’incarnazione come assuntio humanae naturae in personam filii (418); la comprensione del «finito» come semplice espressione della relazione infinita di Dio con il mondo creato; la realtà divina declinata come pura consapevolezza (senza nome).
La ripresa del termine «Logos» nella sua rilevanza cristologico-trinitaria segna l’avvio del contributo dell’autore che s’interroga sull’incarnazione del Verbo nella storia di Gesù come Figlio. Gesù è il punto focale che riassume il rapporto universale del mondo con Dio, a partire dalla sua relazione con il Padre, e non con una generica natura divina. In questo senso si deve parlare del mondo del Figlio e non solo del Logos: la verità del Figlio è l’evidenza della storia di Gesù in quanto «il rapporto storico dell’uomo Gesù con Dio è la realizzazione della sua figliolanza divina, viceversa la sua figliolanza divina non può essere conosciuta se non nel rapporto dell’uomo Gesù e della sua storia con Dio» (484).
La dinamica trinitaria, come precisa l’autore, non è una teoria «adatta» a spiegare ciò che poi è avvenuto nella storia di Gesù. Al contrario, la storia e la stessa sarx di Gesù rivelano una diversa presenza di Dio, il cui senso è stato riconosciuto, ed è riconoscibile, nella relazione filiale con il Padre per mezzo dello Spirito.
L’aver scelto, come esergo e come conclusione, citazioni da un racconto di J.P. Sartre da un’altra ventata di profondità, riportandoci l’eco di quel «figlio del tuono» che scrisse e trasmise le inesauribili parole «Il Verbo si fece carne».
B. Maggi, in
Il Regno Attualità 4/2025, 95