«Tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del vangelo» (Evangelii gaudium 20). Il riferimento alle periferie (rigorosamente al plurale) è divenuto famigliare nel lessico ecclesiale dalla pubblicazione dell’Evangelii gaudium (2013), documento nel quale il termine ricorre per ben nove volte. A questa insistenza pastorale su un fenomeno urbanistico iniziato a livello globale negli anni ’60 non sempre è corrisposta un’adeguata riflessione teorica. Prova a colmare questo vuoto l’elaborato studio di Emanuele Iula, gesuita romano specializzatosi in etica e filosofia politica a Parigi, autore di diversi saggi sull’etica generativa. Ed è proprio facendo ricorso alla chiave della generatività che l’A. vede la prospettiva piú promettente per affrontare un tema complesso come le periferie (da cui il sottotitolo del libro), uscendo dalla loro interpretazione foucaultiana come “eterotopie”, cioè luoghi completamente altri rispetto a tutti gli altri, non addomesticabili con gli strumenti del pensiero, della politica e della cultura. Per Iula l’eterotopia è «la gemella diversa dell’utopia» (p. 15), nel senso che, a differenza delle utopie, le eterotopie si sviluppano in un luogo reale e non fantastico. Inquietano e non incantano.
Nel primo capitolo (Affinare lo sguardo), Iula mostra come il concetto di eterotopia, pur non coincidendo con quello di periferia, tuttavia sia utile per cogliere le problematiche connesse alle periferie, che non sono solo «le zone dismesse dalla città, quelle lontane dal centro, ma tutti i luoghi che segnano una separazione e una disparità sociale tra individui considerati normali, quindi degni del “centro”, e individui considerati al di fuori di questa normalità» (p. 29). Un esempio concreto della struttura di una periferia è dato dal quartiere Zen di Palermo, che Iula analizza riprendendo lo studio di Ferdinando Fava. Nel secondo capitolo (Nascita della periferia) i due concetti di periferia (quello classico e quello foucaultiano) vengono comparati con uno sguardo fenomenologico, concludendo con un’osservazione precisa: «Ciò che fa una periferia è l’emergere di una distanza» (p. 83). La struttura distanziale si caratterizza per un rigido controllo dell’accesso, per l’esclusione e il nascondimento.
L’ontologia sociale tracciata nel secondo capitolo sfocia nel terzo (Esseri periferici) in una fenomenologia degli abitanti delle periferie, accumunati da uno stigma indelebile. Nascere e vivere in periferia significa condividere lo stigma di alcune distorsioni sistemiche causate dall’assenza dello stato e dal mancato controllo sociale di un territorio. Gli abitanti del quartiere Zen, alla pari di realtà simili come Corviale, Scampia ecc., sono stigmatizzati, «indipendentemente da qualsiasi merito o demerito personale» (p. 120), fino a essere confinati all’interno di uno spazio dove fa da regina la follia, per contrasto alla ragione normativa. Tutto ciò, come viene raccontato nel capitolo quarto (L’azione del centro), è reso possibile dall’assenza di una normatività che il centro nega sistematicamente alle periferie, lasciandole nello squilibrio. Nel quinto e ultimo capitolo (Rigenerare le periferie), Iula si impegna nella formulazione di alcune prospettive generative, valorizzando un saggio della filosofa americana Judith Butler. È possibile vivere una vita buona all’interno di una vita cattiva a condizione di «ripensare il vivere sociale intorno all’asse che è dato dai legami e dalla loro qualità» (p. 201). Occorre entrare nella logica intergenerativa del dono per recuperare la speranza nel discorso sulle periferie: ciò comporta il saper «dare ciò che non si ha a chi non c’è ancora, in vista del momento in cui non ci saremo piú» (p. 210, corsivo dell’A.). Ciò comporta una conversione intellettuale ed etica: «Deve esserci resistenza nei confronti della vita cattiva in modo da favorire quella buona» (Judith Butler).
S. Didonè, in
Studia Patavina 67 (2020) 3, 573-574