Il saggio propone un approccio al fenomeno migratorio in un'ottica di 'generatività'. La figura del migrare è lumeggiata sotto più punti prospettici. Il suo senso è colto nel perseguimento dell'identità personale (10-12), e dunque nel «legame con se stessi» (24). Gli «approcci filosofici» (13-18) ne delineano il profilo 'sostanziale' di movimento e dislocazione, discontinuità di riferimenti, precarietà esistenziale; in un «approccio costruttivistico» sono messe in rilievo «le interazioni fra soggetto e situazione»; vi emerge, inoltre, «il tema della conflittualità sociale» e si configura una «aporia sociale» per la «impossibile coesistenza, all'interno di una medesima società, dei membri di culture differenti». In prospettiva sociologica (18-22), il fenomeno migratorio è visto caratterizzato dallo spostamento, nelle sue variazioni e combinazioni di spinta e di attrazione, fino alla figura del turista e dello studente universitario all'estero.
Il nodo problematico è individuato nel disorientamento provocato dall'ingresso dell’‘altro’ e dalla conseguente obsolescenza delle mappe culturali abituali. Peraltro, fra destabilizzazione degli equilibri stabiliti e progresso sociale è posto un nesso. Si tratta, pertanto, di «esplorare il modo in cui le migrazioni rigenerano la società» (24).
L’assunto è svolto in quattro passaggi con intermezzo. In apertura il richiamo al riferimento biblico ripropone le figure usuali di Abramo e della santa Famiglia, con l'aggiunta inusuale della figura dei Magi (29-59). In particolare, la valenza paradigmatica riconosciuta al migrare di Abramo quale prototipo di migrazione generativa poggia sulla categoria del 'decentramento': il suo migrare è nel segno della promessa, che ne fa uomo sbilanciato su possibilità che non può anticipare nella forma definitiva (26s).
È, quindi, a tema il movente del migrare. Sulla scorta dell'antropologo di riferimento, A. Appadurai, il suo scavo ruota attorno al rapporto di mobilità umana e immaginazione. L'asse si sposta decisamente sui fattori di attrazione, con una messa in pausa dei fattori di spinta, giusta la tesi di Appadurai per cui «l'immaginazione è oggi un palcoscenico per l'azione, non solo per la fuga» (94). Al fondo è all'opera il nesso identitario del soggetto con se stesso e si fa sentire la "fessura" ontologica (83), di ascendenza sartriana, della non coincidenza con sé. L'immaginazione assume valenza di «prassi generatrice di differenza» (90). La circolazione virtualmente illimitata di modelli di vita appariscenti e appetibili, amplificata dalla rete globale e dalla moltiplicazione delle connessioni, rafforza la capacità di presa sul soggetto da parte dell'immaginare il poter-essere-altrimenti, con la conseguente messa in movimento delle persone. D'altro lato, la libertà di movimento delle persone è di fatto sottoposta a limitazioni sul piano politico. Nella modernità globalizzata aumenta la sproporzione fra proliferazione di modelli di vita e controllo tendenzialmente rigido della mobilità. Invece di alterità da incontrare si hanno differenze da controllare. Entra in gioco, per dirla ancora con Apparudai, «il controllo tassonomico della differenza» (76). Su questa scia si impone il passaggio dal paradigma dell'altro, alla Lévinas, al paradigma del differente da decostruire. Si fa avanti la categoria della 'decostruzione', ripresa da J. Derrida: nel senso di rendere inutilizzabile la differenza "straniero/autoctono" (81). L’immaginazione assume valenza politica: non si lascia bloccare da confini, dogane, frontiere, soglie, ma passa da un lato all'altro di un confine nazionale. Emerge la figura di politica post-nazionale: a politiche interne di benessere non possono che corrispondere politiche estere di accoglienza di quanti si sentono attratti dal modello locale (90-93).
L’apologo narrativo costruito sulla fiaba I quattro musicanti di Brema dei fratelli Grimm costituisce l'intermezzo. Il messaggio è ricapitolato nella categotia heideggeriana della Geworfenheit, intesa come un «essere-gettato da un fuori verso un dentro» (123).
Il passo successivo intercetta il punto d'arrivo del migrare. Ci si imbatte nelle «cose e persone che non si muovono affatto, almeno all'apparenza» (126): in sostanza l'istituito, nella duplice modalità dell'ordinamento giuridico e dell'ordinamento culturale. Il primo profilo riporta allo Stato moderno di diritto. La sua configurazione è totalmente debitrice del positivismo giuridico di H. Kelsen. In particolare, la cittadinanza risulta non «dato politico naturale» ma status personale regolato dal diritto positivo e dunque dallo Stato (137s). Per dire del plesso culturale è assunta, ancora da A. Apadurai, la categoria di 'località': risultante della triangolazione di immediatezza sociale, interattività e relative tecnologie, relatività dei contesti (141ss). La 'località' produce appartenenza, di cui mantiene il controllo degli accessi. Cittadinanza e appartenenza costituiscono la variabile territoriale. Nella rinegoziazione della propria identità il migrante mira ad ottenere pieno riconoscimento nello Stato di arrivo su entrambi i livelli, di cittadinanza e di appartenenza sociale effettiva. Accantonate le illusioni di integrazione, assimilazione e simili, si affaccia la prospettiva transnazionale: «interazioni e legami che uniscono persone e istituzioni attraverso i confini degli Stati-nazione, connettendo così le società di origine con quelle di insediamento» (155). Tuttavia, poiché il rapporto al territorio non è da banalizzare, sorge l’interrogativo del numero di territori con cui mantenere contestualmente legami significativi. In simile situazione, ultimamente conflittuale, l'etica generativa si pone come questione della trasmissione di un patrimonio culturale, da parte sia di chi resta fermo sia di chi si sposta.
A seguire, sono a fuoco le dinamiche indotte dalla mobilità umana. L’ingresso dell'altro, lo straniero, che chiede spazio, e l'impatto di un mondo di vita su un altro smuovono resistenze e sollevano barriere, nel modo di frontiera, confine, soglia. Ma frontiera, confine, soglia sono anche «zone di passaggio che rendono possibile l'accesso dal fuori al dentro» (180). La categoria di «ospitalità assoluta» (185ss), ripresa da Derrida, in sintonia con la figura di «stato d'eccezione» (188) elaborata da G. Agamben, è fatta entrare in campo per dire di una accoglienza che si pone nella linea della 'generatività'. Su questa scia si attiva un «processo di transizione da una forma di sé e di rapporto con l'altro già conosciuta a una forma che non è bene definire a priori» (200). La corrispondenza di «ospitalità assoluta» e istruzione implicata nell'episodio evangelico della distribuzione dei pani in Gv 6 tiene il punto sullo stato del migrare: decisiva è la disponibilità personale a vedersi temporaneamente espropriato di qualcosa che per il soggetto è essenziale, come il controllo di casa propria (201ss).
Il finale ricapitola in chiave di 'etica generativa' la disanima fin qui condotta sul filo della 'decostruzione' del migrare. Inizia distinguendo fra loro le figure di «generazione» e «rigenerazione», connotate in termini di processi di produzione rispettivamente «esogeno», nel senso che «mette fuori di sé il suo prodotto finale» (205), ed «endogeno», nel senso che «non dà luogo a un prodotto esterno e oggettivabile in un nuovo essere» (207). In entrambi i casi gioca un suo ruolo la memoria, che assicura la continuità nella novità. Al «dissodamento sociale» operato dalla 'decostruzione' (213) segue la 'generatività': questa «raccoglie il lavoro della decostruzione nel momento in cui occorre ripensare la struttura sociale a partire dai legami su cui essa si fonda» (212). Si apre, quindi, un dittico: sul versante del 'generare', la figura del migrante, chiamato a vivere in prospettiva intergenerazionale la propria esperienza; sul versante del 'rigenerare', il cittadino autoctono, provocato al 'decentramento', nel senso di «anteporre il vantaggio di un altro che verrà al proprio che già c'è» (213) e di cogliere nelle migrazioni una forza di rigenerazione sociale, per cui «il futuro non è più una proiezione del presente, ma novità anch'essa da accogliere» (218). Perché questo accada, è necessario il passaggio intermedio del "lutto" (220), in una elaborazione della irreversibilità della situazione. Su questo sfondo, la speranza appare «figlia del decentramento» (221). Questo lo sguardo sul migrare alla luce della 'generatività'. La figura coniuga 'legame' e 'novità' e intende un «legame all'insegna della novità» (209), con riferimento all'individuo ma anche e soprattutto alla società. La ricognizione si avvale di una «bussola» (23.81), che segna il «nord generativo», «i legami interpersonali, il modo di favorirli e di rinnovarIi» (82). Nel mirino è non tanto «come deve essere la società di domani» quanto invece «come deve essere la matrice sociale, culturale, politica in grado di dare alla luce la novità che tutti aspettiamo» (205). Su questa scia, la figura di 'etica generativa' dice capacità «di aprire scenari innovativi per la società di domani» (204). Il migrare ne è momento decisivo.
Nel fitto delle figure e dei richiami che si rincorrono lungo la narrazione, più di un passaggio sollecita attenzione. L’arruolamento dei Magi nel campo dei migranti (47ss) suggerisce un'estensione della figura del migrare che ha come indotto una sua estenuazione d'intensità. Suscita perplessità la Geworfenheit heideggeriana intesa lungo l'asse dentro/fuori e come spostamento da un 'fuori' a un ‘dentro' (123). L'opposizione a quanto sembra reciprocamente escludente di 'bussola' e 'mappa' (23.81) suona stravagante: la bussola non è uno strumento più semplice, la mappa è sempre mappa orientata o da orientare, l'orienteering non è senza contestualità di bussola e mappa. La coppia 'esogeno'/‘endogeno' dice l'origine di un processo e non il suo esito (205). Che sia «ontologicamente prioritario» il «generante» rispetto al «generato» (206s) appare discutibile: l'uno non si dà senza l'altro, e viceversa. La continuità di 'decostruzione' e 'generatività' (211ss) è da sondare nella sua rispondenza alle pratiche derridiane. L’adozione come spunto risolutivo della figura derridiana di 'ospitalità assoluta' (185ss) non reca traccia del dilemma, pure derridiano, di "ospitalità incondizionata", che va al di là del diritto, e "ospitalità condizionata", circoscritta dal diritto e dal dovere, e non si cura dell'antinomia non dialettizzabile tra la legge e le leggi dell'ospitalità, pure presenti in Derrida.
In sintesi. Nel quadro della discussione su 'migrazione', fra i tre modelli di approccio frequentati nella letteratura e nel dibattito pubblico: assistenziale/pauperistico, provvidenziale, di giustizia sociale, il saggio sposa decisamente la figura provvidenziale. Al limite, si affaccia una visione postulatoria della migrazione: se non ci fosse, sarebbe da provocare, in vista di un rinnovamento/rigenerazione della stanca modernità occidentale. Quanto ai moventi del migrare, aspirazione a vivere meglio e necessità di sopravvivere, pull/push, 'attrazione'/‘spinta', il peso maggiore, e di fatto preponderante, è attribuito ai fattori di attrazione: in ultima analisi, la figura del profugo e del rifugiato sfugge in penombra. La frequentazione del riferimento biblico si muove in modo alquanto disinvolto e con andamento tendenzialmente allegorizzante: l'assegnazione di valenza paradigmatica passa a margine della fatica di rideterminare il messaggio biblico nelle condizioni storiche attuali e viceversa. Fra i due gruppi umani coinvolti nel fenomeno migratorio, il migrante e l'autoctono, il baricentro cade sull’‘altro’, sul migrante: è sintomatico che, a proposito di Abramo, non vi sia traccia delle sue negoziazioni con gli abitanti del luogo. Restano ultimamente in sospeso, o, se vogliamo, aperte, le coordinate del fenomeno migratorio: la temporalità, con il suo intrico di presente, passato, futuro, appare progressisticamente assorbita nel futuro “a venire", con sintonie derridiane; l'abbandono della mappa e l'esclusiva assegnata alla bussola e al suo “nord generativo" lasciano in ogni caso impregiudicata l'esigenza che punti di riferimento sono sempre da rintracciare e scenari sono da 'inventare' nel duplice significato del termine, sempre sul terreno, e dunque tenendo conto dei posizionamenti dei gruppi umani e delle culture. Il fenomeno migratorio non lascia le cose come prima: ma che nella storia non si resta fermi e non si ritorna indietro è lezione antica e sempre nuova. La pubblicazione si segnala per un dispiegamento sofisticato di strumentazione concettuale e per un massimalismo sottotraccia: con tutto questo, tuttavia, non si registra un incremento significativo del dibattito innescato dal migrare.
B. Seveso, in
Teologia 1/2020, 141-143