L’autore del volume è un teologo francese docente all’Institut de science et théologie des religions di Marsiglia.
Dopo aver delineato la società del tempo di Paolo come una società sull’orlo dell’abisso, sovrastata dall’impero romano e divisa al proprio interno fra varie correnti religiose, egli traccia un breve profilo biografico di Saulo (Paolo) di Tarso. Questi appartiene a tre mondi culturali: ebraico, greco e romano. Egli è un ebreo fariseo, un ellenista che conosce i rudimenti del pensiero filosofico del tempo (in specie dello stoicismo) e un cittadino romano. Nato all’inizio dell’era volgare, morirà a Roma sotto Nerone, nelle congerie suscitata dall’incendio di Roma di cui vengono incolpati i cristiani.
Il “cambiamento radicale” di Damasco
Fariseo zelante, Saulo intraprende un’azione volontaria di violenza contro i discepoli della “Via” e, nei pressi di Damasco, va incontro un “cambiamento radicale”. Ploux non parla mai di conversione. In questa forte esperienza dello Spirito, Saulo (Paolo) si imbatte nella prima metanoia.
Secondo gli Atti degli Apostoli, la scena viene descritta con toni impiegati dai Vangeli per il battesimo di Gesù (apertura dei cieli, voce che si ode, luce…). Anche attraverso la mediazione di Anania, a Saulo viene rivelato il Cristo come il Messia di Israele, atteso e preannunciato dalle Scritture. Egli fa corpo unico con i suoi discepoli perseguitati da Saulo, che fonda la propria vita sull’osservanza della Legge e sulla frequentazione del tempio, assieme a tutte le tradizioni dei padri.
Da quel momento in poi Saulo/Paolo annuncerà il Messia di Israele a partire dalle attestazioni della sacra Scrittura, in ambienti segnati dal giudaismo che egli intende far giungere alla pienezza della loro fede, facendo vedere in Gesù il compimento delle attese messianiche.
Secondo la Lettera ai Galati, l’evento di Damasco fu una rivelazione attuata dalla grazia benevola di Dio Padre che rivelò in Paolo il Figlio suo Gesù, perché fosse annunciato a tutte le genti.
Atene e la metanoia di Corinto
Nel corso del suo secondo viaggio missionario Paolo si troverà ad Atene a parlare a un uditorio pagano, sprovvisto del retroterra fornito dalle sacre Scritture.
Egli cerca un linguaggio comune con gli uditori a partire dalla filosofia stoica, che, con i concetti di Logos, Pneuma e kosmos, potevano comprendere l’annuncio di un Dio creatore che tiene insieme l’universo. L’annuncio di un uomo che, alla fine dei tempi, alla risurrezione, giudicherà il mondo, segnerà per lui l’interruzione pratica del dialogo e l’irrisione della maggioranza. Per alcuni studiosi non è un vero fallimento. Per Ploux lo è, e cocente.
Paolo si reca a Corinto e, a leggere la Prima Lettera ai Corinzi, vive volontariamente la scelta di una seconda metanoia: Io decisi di non conoscere altro se non Cristo Crocifisso, sapienza e potenza di Dio… Dio sceglie ciò che non è, ciò che è stolto agli occhi degli uomini per rivelare la sua gloria, il “peso” di ciò che è dentro di sé. Dio vuole salvare il mondo con la parola della croce.
Dio mostra se stesso nel Crocifisso, vero Logos e sapienza che tiene insieme il mondo, riscattandolo dalla sua perdizione.
La “parola” della Croce di cui parla Paolo abbraccia in sé i significati di predicazione della Croce, della Croce come parola e del Logos in croce. Secondo Ploux, per comprendere il disegno di Dio non bisogna partire dalla risurrezione, ma dalla croce, dall’abbassamento totale abbracciato da Cristo, che lo rende solidale con tutti gli uomini impoveriti del mondo, i peccatori, i deboli, gli oppressi della storia, col destino comune che tocca tutte le creature umane.
Nella Lettera ai Filippesi, Paolo descriverà il tragitto umano e spirituale di Cristo nello svuotamento di sé abbracciato nell’incarnazione e nella morte in croce. La sua esaltazione abbraccia il punto più basso raggiunto nella morte solidale con gli uomini e la porta al suo esito di gloria. Dalla Croce si passa alla Risurrezione.
Nella stessa lettera Paolo descriverà la sua autobiografia spirituale e affermerà che per lui vivere è Cristo (Fil 1,21). Egli ritiene spazzatura tutti i privilegi storico-teologici del suo passato, al fine di guadagnare Cristo. L’importante per lui è essere trovato in una condizione di giustizia, di buon rapporto con Dio, non basata sulla Legge e la sua osservanza scrupolosa, ma in quella derivante dalla fede-affidamento a Cristo che ha amato ciascun uomo, Paolo compreso, fino a consegnare se stesso alla morte ingloriosa della croce per amore.
Il fondamento della teologia e l’unità/universalità della Chiesa
Il fondamento della teologia di Paolo è chiaramente il vangelo riassunto nella morte in croce di Cristo, risuscitato dal Padre nello Spirito. Su questo fondamento Paolo curerà l’unità della Chiesa che deve abbracciare in sé la diversità delle provenienze culturali e religiose dei credenti, vivendo l’accoglienza reciproca e l’amore vicendevole. Cristo è il fondamento e gli apostoli sono servitori del vangelo per la crescita della comunità.
L’universalità della Chiesa si fonda non subito nella risurrezione come “favola”, ma sulla Croce. La risurrezione senza la Croce non è che fantomatica speranza di un mondo migliore, che ignora il peso tragico dell’esistenza degli uomini. Secondo Ploux, la “missione” della Chiesa oggi, in un mondo senza Dio, è quella dell’essere certi che Dio, attraverso il suo Spirito e il suo Logos, accompagna l’umanità di ogni tempo e di ogni luogo. Se la Chiesa condivide le gioie e i dolori degli uomini non è per strumentalizzarli, ma perché la loro vita è anche quella dei cristiani, pur nelle differenze. «Tuttavia – afferma l’autore – noi siamo loro debitori di ciò che ci è stato affidato sulla croce: la rivelazione di un Dio che si consegna nella debolezza e nell’oscurità, fino ad annullarsi, assicurandoci della sua presenza e sottraendosi alla nostra influenza. Perché tale è l’amore» (p. 85).
La Chiesa non si contrappone ad alcuna cultura, come cittadella assediata, ma, nell’ascolto e nella fede, cerca le parole e gli atteggiamenti giusti per salvare, insieme agli altri, l’uomo quando rischia di disumanizzarsi. Occorre salvare l’uomo da se stesso. È questione di vita o di morte.
Una Chiesa sovversiva?
La Chiesa deve aprirsi alla diversità delle culture sapendo che, in Cristo, non c’è Giudeo o Greco. La Chiesa è “sovversiva”, perché si diffonde in tutte le culture proponendo una logica alternativa di vita, rispondendo alle attese presenti in tutti.
Occorre riproporre il vangelo di Corinto, senza dimenticare le radici sante rappresentate dall’evento di Damasco (le sacre Scritture). È necessario proporre un “uomo altro”, consapevoli che, in passato, l’evangelizzazione è stata legata alla colonizzazione.
Quello che va annunciato oggi è lo svelamento all’uomo del volto di Dio, ignorato o misconosciuto, rivelato dal Cristo in croce. «Noi non possiamo vivere senza comprendere, senza immaginare, senza lavorare, senza creare attraverso l’arte – afferma Ploux. Noi non possiamo vivere senza amore. Sotto gli abiti di una moda cangiante, l’uomo resta nudo. I giovani ne hanno sempre più coscienza: l’attenzione all’ecologia, talvolta l’angoscia, lo testimoniano così come la loro inaffondabile aspirazione ad un altro mondo» (pp. 100-101).
Occorre ritornare a Corinto, realizzare quella metanoia che Paolo ha fatto nel suo tempo e per il suo tempo, cioè cambiare il nostro modo di vivere, di pensare e di agire (cf. ivi). Abbiamo “addomesticato” la croce, afferma l’autore (p. 103).
La Chiesa deve ritornare a Corinto. «Abbiamo dimenticato l’uomo giusto, condannato ingiustamente, l’uomo rifiutato e abbandonato da tutti, che ha condiviso il supplizio dei maledetti. Abbiamo dimenticato anche coloro che l’hanno condannato e quelli che sono fuggiti» (p. 103).
Sotto i nostri occhi sta la tragica condizione dell’umanità: «L’uomo capace di donare la propria vita perché gli altri vivano e quello che accumula tutto quello che può per vivere – o almeno così crede – e che, non solo dimentica gli altri o non li vede nemmeno, ma li spoglia del poco che hanno e li lascia morire nella loro miseria, quando non è lui stesso a sterminarli. Si tratta di persone, ma anche di gruppi umani e di “sistemi” economici, sociali e politici, addirittura religiosi» (ivi).
Secondo l’autore, abbiamo dimenticato o rimosso quello che di Dio ci è stato esposto, non con parole, sempre al di qua o al di là della realtà, ma in un uomo come noi, che ha vissuto la fede in Dio giorno dopo giorno, infaticabilmente vicino ai poveri di tutte le povertà, scandalosamente libero rispetto ai “dogmi” del suo tempo e, alla fine, condannato da tutte le autorità, civili, militari e religiose… e morto crocifisso, con un colpo di lancia in pieno cuore. Se la Chiesa vuole parlare di Dio agli uomini – prosegue Ploux –, ha una sola cosa da dire e da fare: ricondurci sempre a quella figura» (pp. 103-104).
In un mondo “senza Dio”?
Noi non possiamo più pensare la croce a partire da Dio – annota lo studioso –, ma dobbiamo pensare Dio a partire dalla croce.
«In un mondo “senza Dio” è con un gesto, un primo passo di fiducia in Gesù che può aprirsi un percorso verso Dio. Non è diverso da quello compiuto da Paolo a Corinto, quando scopre sulla croce un Dio che sfidava la sua fede di prima e la sapienza di questo mondo. Non è diverso da quello dei discepoli che sono tornati sui passi della loro disperazione e hanno preso le strade del mondo per annunciare colui che avevano abbandonato. E non è diverso da quello di tutti i “folli di Dio” che hanno rischiato la loro vita sul sentiero stretto del vangelo per dirci che conduce alla luce del Dio oscuro» (p.104).
Non si tratta di copiare Paolo, secondo Ploux. Si tratta di vivere nel nostro tempo con la stessa ispirazione, nella logica della Croce. In Rm 12,1 Paolo esorta i discepoli di Gesù a offrire, per la misericordia (lett.: per le compassioni) di Dio «i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale (tēn logikēn latreian)».
Il sacrificio non è non è quello dello spirito slegato dal corpo, ma un sacrificio secondo il Logos, quel Logos che si è fatto solidale con gli uomini fino alla morte in croce. Si tratta di perdere la propria vita per il vangelo, per Gesù. Un impegno esistenziale interiore che deve trovare i mezzi per esprimere la sua solidarietà.
Non bisogna presentare un vangelo secondo la sapienza del mondo (etica, umanesimo, regola di vita, teologia ecc.), mentre per Paolo la sua chiave di lettura è la rivelazione di Corinto. Occorre impegno totale di sé in gratuità e gratitudine; presente al presente, obbediente alla realtà per cogliervi gli appelli dello Spirito; offrendo la propria fiducia a quel Dio di cui non sappiamo dire niente, ma che si lascia intravvedere nella rivelazione della Croce (cf. p. 108). Mt 25,31-45 è solo un altro modo di porre, davanti ciascuno di noi, la croce dei poveri di ogni tempo.
Una logica di incarnazione
I cristiani potranno rifarsi a Damasco, ad Atene o a Corinto. Ma tutti dovranno vivere l’una e l’altra delle esperienze. Secondo Ploux «bisogna vivere nella “logica” dell’incarnazione e della condivisione per impegnarvi un singolare umanesimo fondato, in ultima istanza, su un “Dio con noi” fin sulla croce […] se Dio, attraverso la croce, confonde la sapienza di questo mondo nella sua sufficienza, è per salvarlo non dall’esterno, ma nella sua storia condivisa» (pp. 110-111).
Tutti i discepoli di Gesù, sia quelli che si rifanno ad Atene sia quelli che si rifanno a Corinto, «hanno bisogno dello Spirito per non rinchiudersi nelle loro certezze e ricordarsi del messaggio collocato al cuore di questo libro: “quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla Dio lo ha scelto per ridurre al nulla che cose che sono” (1Cor 1,28). In definitiva – conclude l’autore – per noi la risurrezione è, a partire dal presepio e dalla croce, comprendere Dio e servire l’uomo in modo diverso, e questo deve trasfigurare tutto» (p. 111).
Nel corso del libro l’autore accenna a vari passi delle lettere paoline, commentandole brevemente e inserendole nel punto del discorso che sta sostenendo.
In tre brevi Appendici (pp.113-118) l’autore parla della data dell’assemblea di Gerusalemme (sostiene il 49 d.C.), della Lettera ai Tessalonicesi (secondo lui scritta nel 50-51da Atene e non da Corinto come si pensa per lo più) e riporta il testo del discorso di Atene (cf. At 17,22-31) facendone risaltare le consonanze con lo stoicismo.
L’autore sostiene una tesi molto suggestiva, che va accolta con simpatia. Il suo discorso ha un andamento teologico e non esegetico e richiede una certa preparazione perseguirlo nelle sue pieghe discorsive impegnative.
R. Mela, in
SettimanaNews.it 22 febbraio 2025