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Metamorfosi del credere
Paola Bignardi

Metamorfosi del credere

Accogliere nei giovani un futuro inatteso

Prezzo di copertina: Euro 15,00 Prezzo scontato: Euro 14,25
Collana: Nuovi saggi 106
ISBN: 978-88-399-1066-0
Formato: 12 x 20 cm
Pagine: 224
© 2022

In breve

«Un’ottima alternativa alle lamentazioni nei confronti dei giovani: una buona traccia per un esame di coscienza ecclesiale – che, oltretutto, fa bene a noi adulti» (dalla Prefazione di mons. Erio Castellucci).

La crisi in cui siamo immersi va interpretata come un’opportunità per la chiesa e per le diverse istituzioni che si muovono in essa e attorno ad essa: è una sfida a rinnovarsi, soprattutto per quanti hanno responsabilità nella formazione delle nuove generazioni.

Descrizione

I posti lasciati vuoti dai giovani nelle chiese sono sempre più numerosi. E suscitano preoccupazioni in quanti hanno a cuore il futuro dei nostri figli e del cristianesimo.
Il libro esplora l’universo umano, spirituale e religioso dei giovani, con le sue proiezioni sul piano ecclesiale. E ipotizza che quel che è in gioco sia non tanto il rifiuto della religione e delle sue forme, quanto la ricerca di strutture nuove del credere, capaci di entrare in dialogo con i caratteri di un’esperienza umana finora inedita.
La crisi in cui siamo immersi va dunque interpretata come un’opportunità: una sfida a rinnovarsi.
Con le nuove generazioni si profila una metamorfosi del credere, in grado di interpretare i caratteri di questo tempo. Nei tratti della sensibilità giovanile preme l’urgenza di immettere nella vita delle comunità cristiane una spinta verso il loro rinnovamento evangelico.

Recensioni

Bisogna dirlo subito: questo è un testo destinato agli adulti (sicuramente anagrafici). Ai giovani (sicuramente anagrafici) quel che c'è scritto non potrebbe interessare molto, anche se li riguarda. In breve: l'autrice avverte che se si intende anche solo intuire alcune coordinate dell'attuale metamorfosi del credere e le avvisaglie di un suo futuro, che comunque sarà diverso dal nostro, non c'è che da mettersi attentamente (e urgentemente) in ascolto del loro vissuto detto, ma anche (soprattutto) di quello inespresso.

Un futuro si annuncia nei giovani. Un futuro certamente diverso che l'autrice non tematizza (e come potrebbe?), ma che scandaglia lungo le 220 pagine del libro (un percorso che raccoglie gli articoli che l'autrice ha edito su «Servizio della Parola», dell'editrice Queriniana) con una paziente analisi di come i giovani si accostano alla fede e dei motivi per cui se ne allontanano subito. Per la verità, alla fine pare che più che di "fede", le questioni siano imputabili al loro rapporto con la chiesa e le sue proposte e prospettive. Ma questo lo lasciamo alla valutazione del lettore.

Uno dei pregi del volume è che P. Bignardi non scrive sull'onda delle proprie impressioni (o di quelle altrui, come altri fanno), ma parte dai dati concreti di alcune ricerche in cui si è a lungo impegnata e, nel fare sintesi, spigola e capitalizza con puntualità i segnali che preavvertono di questo futuro diverso e che in larga parte le nostre comunità cristiane dissimulano (diamo credito all'intelligenza!). A parte le patologie che esprimono gli hikimori, si è mai visto un giovane che non intenda essere protagonista quantomeno della propria vita?

La stessa esigenza impregna la vita interiore e quella comunitaria quando il giovane si fa presente nelle nostre comunità cristiane. Ma come tutti gli operatori pastorali rilevano, i giovani se ne vanno presto a gambe levate. Un tempo anche protestando e criticando con passione e veemenza, oggi invece portano con sé anche le critiche e le loro ragioni, sottrraendosi a un disagio che, in fondo, è anche il nostro di adulti. Penso alle generazioni degli anni postconciliari, le nostre, che allora incontrarono la spinta del rinnovamento conciliare. Non si sapeva nulla di vangelo e di bibbia, ma ci si impegnò a comprenderne la lingua e la narrazione per vivere di una fede consapevole e adulta. Poi? Disagio e frustrazione e (oggi anche) smarrimento per una chiesa che ci appare ancora impaurita di fronte alla débacle dei piani pastorali a raffica e progetti culturali e via dicendo.

La società non è più certo quella di un tempo (il libro lo sottolinea a ogni passaggio); ma anche noi adulti (i giovani di allora) patiamo disagio. E la domanda dei giovani è, in fondo, anche la nostra. Tuttavia è la cultura che è palesemente diversa e con essa il loro sentire, le rare certezze, l'istante delle emozioni, il modo di conoscere e di partecipare; le relazioni, i desideri, l'immaginazione e il linguaggio e le sensibilità... Un altro mondo! Andrebbe aggiunta anche un'osservazione che non traspare dal libro: anche quei (pochi) giovani che sono rimasti nelle nostre comunità nemmeno pongono più domande; anzi, ci ripropongono risposte... peraltro le stesse di una volta.

L’autrice invita, giustamente a questo punto, a disporci (noi adulti e vecchi, noi chiesa organizzata a pianificare persino vangelo, carità e fede...) all'ascolto, all'attenzione attiva verso queste generazioni e il loro mondo interiore che pare palesemente estraneo alle forme tradizionali del credere e alle sue modalità realizzate nella/dalla chiesa (anche quella postconciliare) che "mantiene" (optime, pare) i tratti d'antan e di una cultura che non è più la loro. «Gli adulti sono posti di fronte a un dilemma: allearsi con la ricerca dei giovani o condannarsi al declino» (p. 214).

Non dobbiamo, però, aspettarci molto da questo bel testo, che tra la lettura della «realtà» (pp. 21-50), l'attenzione alla «critica» giovanile (pp. 51-150) e lo sguardo ai germi del futuro (pp. 151-207) è un ottimo esercizio di ascolto. Resta (in capo al lettore e alla chiesa) la fatica di entrare in relazione personale con i giovani, senza abbandonarli, perché sono la priorità della chiesa, fintantoché restano lontani da lei ma non dalla fede. E non pare che i giovani difettino di “fede” se in loro quel lumicino innesca ancora una lotta interiore, una densa ribellione tesa a trasformare la vita, alla ricerca di un «Dio» che non sarà magari proprio quello ben descritto nei catechismi, ma che è ben radicato là dove sta il focus della loro esistenza. Ma questa non è in parte anche la questione posta nella monografia che abbiamo qui presentato ( «Come parlare ai giovani: con quali metodi, strumenti, linguaggi» [p. 9])?


D. Passarin, in CredereOggi 257 (5/2023), 162-164

L’autrice presenta un’analisi sull’attuale situazione giovanile, nella famiglia e nella società. I giovani fanno fatica a credere e spesso non si pongono domande sulla propria vita, fatte con responsabilità, senso critico e progettualità. Le generazioni più giovani sono quelle più sensibili al problema religioso e cercano non tanto precetti o nozioni, imparate al catechismo, ma un forte appagamento interiore, per trovare risposte di senso e costruire basi solide al proprio futuro personale e sociale.

Nel testo è chiara la critica ad un catechismo che non porta alla scoperta di Dio e, da qui, la mancanza di una vera e propria esperienza religiosa. I giovani cercano più l’appartenenza ad un gruppo che il rapporto personale con Dio. La verità è che ora tutto deve cambiare, bisogna proiettarsi in un futuro costruito da loro in una società dove ciò che vale ha un costo; e Dio non si compra né si vende. In altri termini, attualmente l’essere cristiano necessita di responsabilità e determinazione.

Ormai nessun giovane vive nella tranquilla ordinarietà di un cristianesimo vissuto in parrocchia o in casa solo per tradizione, come oggi è ancora facile riscontrare. A questa critica l’autrice fa seguire cinque percorsi di fede, come esempi di scelte spirituali in un mondo ecclettico e pur sempre pieno di esperienze religiose talvolta radicali. Dio diventa il rifugio dei giovani in una relazione che dà risposta al mistero della vita, diversamente vuota e priva di futuro. I giovani di oggi non si preoccupano di andare a messa, ma per molti di essi Dio è una presenza intima che accompagna la loro vita quotidiana.

Tuttavia, così facendo, si rischia di avere Dio a modo proprio, che non diventa la chiave di interpretazione della propria esistenza. Facendo riferimento all’Esortazione Apostolica Christus vivit di Papa Francesco, l’autrice evidenzia il divario tra i giovani e gli adulti, che, spesso, erigono muri di non dialogo o di indifferenza. Il problema è oltremodo serio; i giovani che non si sentono partecipi di una comunità ecclesiale, alla lunga non saranno più portatori del messaggio cristiano e solo difronte ai drammi come una pandemia o una guerra ritorna il problema-ricerca-fede.

Ma non si possono aspettare queste tragedie per cercare Dio, come unico timoniere di una barca che è la propria vita. Perciò, la comunità cristiana è chiamata a risolvere almeno tre problemi: l’uscita dei giovani dalla comunità, portando fuori da essa la propria vita di fede, il clima interno, spesso autoritario e autoreferenziale, l’impronta culturale, spesso troppo restrittiva e senza margini di cambiamento. Una nuova parrocchia è il condominio o il posto di lavoro, dove, nel quotidiano, si porta la propria fede discreta, ma vissuta.

I giovani, in altri termini, stanno chiedendo alla Chiesa una metamorfosi che la renda ospitale, svecchiata, sempre meno arida e incarnata nel nostro tempo.


B. Tammaro, in Rivista Lasalliana 1/2023, 124-125

Un libro coraggioso che interpella i giovani e che offre a tutti l'opportunità, come scrive monsignor Castellucci in prefazione, di «un esame di coscienza ecclesiale». Lo scrive Paola Bignardi, membro del Comitato di indirizzo dell'Istituto Toniolo, per cui coordina l'Osservatorio Giovani.

«Dal mondo religioso dei giovani», si legge, «Dio non è scomparso. In genere, però, è un Dio molto diverso da quello imparato da piccoli a catechismo». E aggiunge che per molti «Dio è una presenza viva nell'esperienza di ogni giorno».


In Jesus 12/2022, 92

Metamorfosi del credere, edito da Queriniana, è l'ultimo libro di Paola Bignardi. Giornalista pubblicista, si occupa di temi sociali, è stata presidente dell'Azione Cattolica. Un testo coraggioso, una lunga intervista aigiovani, una ricerca costruttiva sul loro rapporto con la fede.

Mons. Erio Castellucci, arcivescovo-abate di Modena-Nonantola e vescovo di Carpi, nella prefazione esordisce: «Oggi è molto più difficile per i giovani coniugare i verbi al futuro». Racconta l'esodo verso altre nazioni in ricerca di un lavoro stabile e di una vita più soddisfacente, la sfiducia nelle istituzioni, la malinconia verso una Chiesa che sembra lontana dalle domande più urgenti del nostro tempo.

Un libro senza pregiudizi che evidenzia l'immensa spiritualità che i giovani portano in sé, il desiderio di assoluto, la tristezza di non trovarlo nel catechismo, negli oratori, nei luoghi che potrebbero essere un'importante testimonianza di fede. Giovani sfiduciati, a volte aspramente ribelli, ma che non si arrendono, che non desistono, continuano a cercare, senza sosta. Le domande esistenziali, essenziali della vita, sono tutte lì, in attesa, ronzano nella mente, abitano il cuore, nella speranza di una o più risposte, di incontri che siano all'altezza delle questioni fondamentali.

L’autrice scrive: «Dal mondo religioso dei giovani, Dio non è scomparso. In genere, però, è un Dio molto diverso da quello imparato da piccoli a catechismo». E prosegue: «Non andranno a messa, ma per diversi di loro Dio è una presenza viva nell'esperienza di ogni giorno». Non è necessariamente il Dio cristiano, ma un Dio interiore, come quello di Etty Hillesum, che nel suo diario si esprimeva così: «È un inizio ma quell'inizio c'è, lo so per certo. Significa raccogliere tutte le possibili forze e vivere la propria vita con Dio e in Dio e avere Dio in se stessi». Tutt'altro che un Dio intimistico e autoreferenziale, quello di Etty, così come quello di molti giovani; è un Dio concreto, reale, vicino, tanto quanto la parte più vera e intima del proprio cuore.

Molti giovani esprimono un distacco verso la dottrina della Chiesa, verso il catechismo, verso la morale sessuale, verso lo schematismo astratto di una visione manichea della realtà. Sono allergici aidivieti aprioristici, spesso infastiditi e sofferenti a causa di approcci giudicanti, che emanano insipido rigore piuttosto che amore per la vita. Un dato che emerge, e che è analizzato in un capitolo a sé stante, è la sfiducia delle giovani donne nei confronti della Chiesa. Forse allontanate dall'immobilismo delle strutture, dalla privazione quasi totale di occasioni di autentica responsabilità, l'esodo delle donne dalla Chiesa è più che maiconsistente, silenzioso, perché ormainon confidano più nella possibilità di essere ascoltate.

«Le donne non chiedono potere nella Chiesa, non chiedono poltrone. Chiedono molto di più. Chiedono una Chiesa diversa». E l'autrice continua: «Qual è il sogno che le donne hanno sulla Chiesa? Sognano una Chiesa dialogica, capace di ascoltare. Potremmo dire che questo è il sogno condiviso da tutti, ma le donne che, così rapidamente, se ne vanno ci stanno dicendo che il tempo è scaduto: ormai non c'è più tempo per mostrare non tanto che questo sogno la Chiesa l'ha compiutamente realizzato, ma anche solo che si è seriamente incamminata per realizzarlo».

Il libro di Paola Bignardi offre soprattutto una duplice e vitale opportunità. Per gli adulti, affinché possano aprirsi a una visione non pregiudiziale della gioventù. Per i giovani, affinché possano assaporare tra queste pagine un approccio fiducioso e aperto, una richiesta, forse un'attesa, di riaprire il dialogo, di superare il clima di conflitto che spesso si genera tra generazioni e sensibilità diverse. C'è speranza per la Chiesa, oggi più che mai.
A. Ghiroldi, in La Voce del Popolo 27 ottobre 2022, 24

D: Nel racconto dei giovani, oggi si diventa credenti per motivi e secondo percorsi decisamente diversi dal passato. Un passato che, però, è tuttora il presente della gran parte delle modalità di trasmettere la fede nelle nostre comunità, specialmente nella catechesi. Spesso noi guardiamo a questo cambiamento con sconcerto, con delusione, a volte anche con un atteggiamento critico verso le nuove generazioni. La ricerca e il libro, «Metamorfosi del credere», ci invitano invece a uno sguardo diverso: lo preannuncia già il sottotitolo: «Accogliere nei giovani un futuro inatteso».

 

PB: Come si diventava credenti in passato? Ripenso alla mia storia, che è tipica di quelli della mia generazione e di diverse generazioni successive. Nei miei ricordi di bambina e di ragazza fino all’adolescenza c’è quello di un paese che si identificava con la parrocchia. La gente andava a Messa la domenica senza immaginare che avrebbe potuto non farlo; battezzava i figli e si sposava in Chiesa. La vita della parrocchia era abbastanza semplice: noi ragazze andavamo all’oratorio dalle suore e giocavamo: basta! Non c’era una miriade di iniziative pensate per noi. E poi c’era il catechismo, noioso quel tanto che basta; studiavamo le risposte a memoria, in una specie di gara a chi di noi le sapeva meglio. Quanto a capirne il senso, era un’altra cosa… Al centro della nostra educazione religiosa c’era la dottrina da imparare e alcune pratiche da osservare, alcuni comportamenti morali cui attenerci. Dopo quella stagione i percorsi interiori si differenziavano: c’erano pochi che si allontanavano; moltissimi che continuavano a vivere comportamenti consoni a ciò che era stato insegnato. D’altra parte, così facevano tutti, e la pressione sociale era un persuasore fortissimo. Alcuni si facevano domande, e lasciavano crescere dentro di loro un loro modo di stare dentro le pratiche di tutti, con un’assunzione di impegni che dava interiorità e forma impegnata alla vita cristiana. In questa maturazione, l’Azione Cattolica ha avuto per molti una funzione decisiva.

Quanto sopravvive oggi di ciò che si faceva sessant’anni fa? Moltissimo dal punto di vista della proposta, quasi nulla dal punto di vista antropologico e sociale. Un modo di trasmettere la fede uguale oggi come qualche decennio fa non produce gli effetti di allora, ma genera un distacco quasi generalizzato, dopo la celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, che non iniziano a nulla ormai. Quasi tutti i ragazzi si allontanano, perché non sono più i ragazzi di allora e la società non è più quella di allora. I ragazzi di oggi sono abituati alla velocità cui li ha allenati la tecnologia con cui si destreggiano molto meglio degli adulti, e non sopportano quella che loro ritengono la lentezza dei riti religiosi. Sentono fortemente le emozioni, da cui si lasciano fortemente coinvolgere, che permette loro di partecipare intensamente a ciò che accade, che sentono… Le emozioni sono una forma di conoscenza e permettono una partecipazione molto intensa: i ragazzi e i giovani desiderano essere protagonisti. Ma le emozioni sono fugaci e instabili e li abituano a vivere nel presente, a dare forma ai loro desideri: non tutto, ma subito. Cercano eventi, più che continuità, hanno bisogno di esperienze che tengano alto il tono emotivo della loro vita. Anche dal punto di vista religioso. Ma al tempo stesso hanno il senso della bellezza, dell’armonia, che cercano: una bella celebrazione li emoziona, li coinvolge, dà loro il desiderio di tornare…

Sono molto soli e vivono le relazioni come la cosa più importante della loro vita. Per molti di loro le relazioni sono il senso della vita, li aiuta ad uscire dalla loro solitudine. Le relazioni dei giovani sono spontanee, libere, e non sopportano di essere strutturate in modo istituzionale. Anche Dio deve essere dentro una relazione. La questione dei giovani di oggi non è se Dio esiste o no, ma se e come io possa stare in relazione con Lui. Il bello di credere.

Soprattutto i giovani di oggi hanno un forte senso del sé; si sentono protagonisti della loro vita e rifiutano proposte che non possano essere passate al vaglio del loro pensiero, del loro sentire. Sono insofferenti dell’autorità, in ogni ambito, a meno che le persone rivestite di autorità diventino per loro persone importanti, punti di riferimento della loro vita. Sul piano della fede, non credono perché qualcuno glielo propone, ma solo se hanno ragioni proprie e personali per farlo. E se possono scegliere le forme e i contenuti del credere. La fede in questo modo può essere solo personale, e questo sappiamo quanto sia promettente e al tempo stesso rischioso. La personalizzazione può tramutarsi in soggettivismo, ma anche la fede non è un’esperienza scontata, ma radicata nel proprio io.

I giovani non hanno certezze, sono soprattutto in ricerca. Hanno tante domande, difficili, che non sanno a chi rivolgere; così accade che vengono soffocate sotto una coltre di indifferenza, che è soprattutto frutto di solitudine e di paura della parte più profonda di sé. E sono domande che riemergono, quado un adulto si mette al loro ascolto, in atteggiamento libero e non giudicante. Questo vale anche per la fede, a partire dalla questione del senso: «Mi sento come una persona che è in una stanza buia e sta cercando di trovare l’interruttore». (Fabrizia, 25 anni).

Direi che i giovani abbandonano la fede perché non hanno la possibilità, il coraggio, l’aiuto ad affrontare le domande che il credere pone loro. La questione della fede, prima che essere una questione di proposte, è una questione di domande. E poi abbandonano la fede dopo aver abbandonato la Chiesa, e per ragioni diverse, ma soprattutto per il disagio che la vita della comunità ha generato in loro. Sono degli spietati osservatori e critici anche della vita ecclesiale, non sopportano l’anonimato delle nostre assemblee, il pettegolezzo che spesso li giudica, i linguaggi stereotipati e vecchi della nostra cultura ecclesiale, il senso di oppressione che genera in loro il carattere così strutturato delle nostre parrocchie, e non tanto rispetto alle questioni essenziali, ma anche le più banali e piccole, che dà loro l’idea di trovarsi in un mondo piccolo, mentre il loro desiderio è quello degli orizzonti vasti di una vita promettente.

E così, una giovane, 25 anni, che si è allontanata dalla Chiesa e (forse) dalla fede, dice: «la Chiesa mi ha deluso». I giovani hanno una domanda di vita che non riconoscono presente nella proposta che la Chiesa fa loro; sembra che la proposta di vita, di libertà, di gioia del Vangelo non trovi posto nella proposta che viene loro rivolta. E loro hanno desiderio di vivere, di vita piena, di realizzazione di sé. E così se ne vanno. Noi ce ne rammarichiamo, ma il loro andarsene dovrebbe fare molto di più: dovrebbe indurci a interrogarci. Non tanto se abbiamo sbagliato metodo per accostarci a loro, ma se la Chiesa oggi non abba bisogno di aggiornamento, di fare quell’operazione che il Concilio invocava 60 anni e che è rimasta largamente lettera morta.

Il distacco dei giovani dalla Chiesa e dalla fede è una protesta silenziosa verso una proposta di vita cristiana che ritengono non plausibile, per loro. Quante delle ragioni per cui i giovani se ne vanno non sono ragioni vere? Quante delle loro ragioni non sono condivise anche da noi adulti? Il distacco dei giovani ci dice molte cose: 1) Che la Chiesa deve affrettarsi a mutare il suo stile e diventare veramente specchio di un modo di vivere che parli di Vangelo, pena la dissoluzione della comunità cristiana. 2) Che questa non è un’operazione che deve fare qualche solitario, ma è un’esperienza di Chiesa, che deve interrogarsi sulla sua aderenza al tempo, alle persone: l’attenzione profonda alle persone è già, esso stesso, un modo per essere fedele al Vangelo. 3) Che la può aiutare l’ascolto dei giovani. In loro si sta affacciando il profilo di un umano diverso; la fede deve trovare casa in questa umanità. Nei giovani, nelle loro caratteristiche che segnalano un cambiamento antropologico, vi sono gli indizi di un modo di credere diverso, in cui le relazioni, le emozioni, la bellezza, la libertà hanno un ruolo importante nel delineare il profilo del credere. La fede di domani, che già si annuncia nelle domande e nella sensibilità del mondo giovanile.

Alla Chiesa mi pare che oggi sia chiesto non un aggiornamento dei suoi metodi, ma una vera conversone: a questo tempo, ai suoi linguaggi, alla sua sensibilità, al dialogo, all’ascolto. Già questo sarà un modo per convertirsi al Signore, che è entrato nella storia umana, cioè in una terra, in una cultura, in un tempo.

 

D: La nostra Giornata diocesana dei catechisti (Torino, 14/10/2022) ha come leit motiv l’invito del nostro Arcivescovo a porci in ricerca di «germogli nuovi». Nei percorsi diversificati dei giovani quali indizi possiamo cogliere sulla fede del futuro?

 

PB: L’immagine dei germogli nuovi è molto bella. Come sono i germogli? Piccoli, fragili: se non ricevono cura rischiano di morire ancor prima di maturare. I germogli si presentano con una forma diversa rispetto a ciò cui siamo abituati, e possiamo rischiare di soffocarli o di ucciderli perché non li riconosciamo, possiamo scambiarli per erbacce, e invece sono vita nuova sbocciata per rinnovare una vita che si sta spegnendo. Provo ad elencarne alcuni, ma erano già impliciti nella risposta precedente:

1) La fede delle relazioni: con Dio e tra di noi. Relazioni non ideali, ma reali, costruite giorno dopo giorno con la pazienza dell’avvicinarsi, con l’umiltà di riconoscere il bene che c’è nell’altro, con il desiderio di fargli posto, con l’intelligenza di valorizzare la sua originalità.

2) Una fede fortemente intrecciata con la vita, una fede che sia vita. Non semplicemente in senso morale, ma più profondo: una fede che è vita, che genera vita, amica della vita, che della vita costituisca il senso…

3) Una fede che è dentro un processo di generazione: nasce piccola, cresce a poco a poco e in modo non lineare, è originale e unica come ciascuno di noi. Giunge alla maturità con il tempo, occorre saper non bruciare le tappe.

4) Una fede che non ha paura delle emozioni, ma accoglie in sé il calore che esse portano.

5) Una fede che spesso sboccia al termine di una ricerca spirituale: se ieri il processo interiore tendeva ad andare dalla fede alla spiritualità, oggi il movimento è spesso dalla spiritualità verso (forse) la fede.

La questione del rapporto complesso con la comunità chiede forse di rivedere i rapporti interni ad essa, perché sappiano accogliere istanze di partecipazione matura, di corresponsabilità, di accoglienza aperta e dialogica…. I giovani chiedono di essere protagonisti, non scolaretti. E poi c’è la questione dei laici e delle donne.

Appare chiaro da quanto detto sin qui che siamo sollecitati, diciamo pure sfidati a «ritradurre» il nostro annuncio e la nostra testimonianza del Cristianesimo. Questo è un lavoro che la catechesi, in realtà, prova a fare da anni in termini di tecniche, modalità di esposizione, linguaggi. Ma è questa la chiave? La domanda viene spontanea perché i risultati non sono molto confortanti. Quali sono i veri fattori-chiave che emergono dai percorsi dei giovani e che dobbiamo cogliere?

Ogni epoca ha il suo modo di credere. Non vi è una fede rigida e immutabile: Dio è entrato nel tempo! Ogni epoca ha la sua sintesi spirituale. 1) Gli anni 50-60 sono stati quelli della dottrina 2) Gli anni 70-90: la stagione del rinnovamento, che ha toccato soprattutto il metodo, i linguaggi, la suggestione delle nuove tecnologie… la stagione dei catechismi, un altro modo di interpretare la dottrina 3) Gli anni successivi: gli anni dello smarrimento e della frustrazione. 4) Oggi: la stagione di un grande punto di domanda.

Mi pare che dopo la stagione della dottrina e quella dei metodi, questa sia la stagione della persona. L’annuncio della fede passa attraverso l’attenzione alla persona e alle persone, dal loro ascolto, perché il Vangelo entri in dialogo con loro. È la ricerca di una nuova pedagogia, al centro della quale vi è la persona, con la sua storia, la sua sensibilità, il suo modo di accostarsi alla vita, le sue domande.

Ascolto profondo delle persone, dei loro desideri e delle loro inquietudini, accompagnarle nella loro ricerca. Sapendo che da questo ascolto, da questa attenzione, verranno gli stimoli per una reinterpretazione del messaggio stesso: «Scriptura crescit cum legente» (Gregorio). L’ascolto delle persone non è semplicemente un modo per essere più efficaci, ma è porre le condizioni perché il messaggio stesso, nell’incontro con la vita, si arricchisca, si modifichi, maturi… mantenga quel carattere di contemporaneità che ha avuto il Vangelo, parola sorta in un tempo per ogni tempo. La pedagogia del Vangelo: tornare ad essa. È la pedagogia dell’incontro.

Le folle: hanno abbandonato tutte Gesù. Le persone: Nicodemo, la donna di Samaria, Zaccheo, Bartimeo... Il Vangelo ci dice anche che la trasmissione della fede (espressione quanto mai ambigua!) è esperienza di umanità. Non la comunicazione quasi meccanica di un contenuto a mo’ di travaso, ma un’esperienza di generazione, di vita, condivisa.

Che cosa comunica la pedagogia dell’incontro: 1) Tu mi stai a cuore; la tua vita mi interessa e mi è cara 2) Io sono qui per accompagnare la tua ricerca in dialogo con te (cfr Nicodemo, la donna di Samaria…), ma ti propongo solo quello che le tue domande sollecitano 3) Le tue domande sono più importanti delle mie risposte, perchè ti porteranno al aprirti al Mistero; il Mistero non te lo posso dare io, come se fosse una cosa, non più mistero. Io posso indicarti la strada, e farla con te. In questo modo si genera anche una Chiesa diversa.

 

D: Da ogni parte si leva la sconsolata constatazione: i giovani non ci sono, molti dopo i percorsi dell’iniziazione abbandonano, anche quelli che restano collegati alla comunità nei loro gruppi di età vengono poco o nulla a Messa. Non ci resta che piangere? O possiamo fare qualcosa?

 

PB: Piangere: no! Questo è un tempo appassionante. È certo un momento difficile, ma un bel momento, creativo, aperto, pieno di promesse e di possibilità. Ci viene da piangere se viviamo con lo sguardo rivolto indietro, al passato, che ci appare sempre come l’età dell’oro. Se viviamo radicati nel presente e con lo sguardo rivolto al futuro, allora al pianto si sostituisce l’intraprendenza, l’iniziativa, la creatività; la fiducia nelle possibilità nuove che il futuro ci apre.

La vita cristiana guarda con fiducia al futuro, perché crede alle promesse di Dio. Occore 1) Sperimentare: osservare i processi, prima che i risultati. 2) Investire molto sulla condivisione tra catechisti, piccoli gruppi che condividono esperienze, pensieri, proposte, ma soprattutto l’eco che dentro di loro ha quello che stanno facendo e vivendo. 3) Coinvolgere la comunità cristiana su questa esperienza, perché è tutta la comunità che deve convertirsi. L’essere prevale sul fare anche in questo modo. 4) Dare nuova dignità al lavoro educativo, il catechista è un educatore, cioè una persona esperta nell’accompagnare altri alla scoperta della grandezza della propria vita. E questa è un’azione di generazione, è una profonda esperienza spirituale nella quale Dio si manifesta nella grandezza di ciò che opera nella coscienza delle persone, e dà all’educatore alla fede il privilegio di essere testimone di questa azione. 5) Stare in attesa delle sorpese di Dio, e crederci, che Dio ci sorprenderà. 6) Dare un respiro spirituale al nostro servizio, che è alla Parola e alle persone, perché si realizzi il loro incontro. E noi saremo spettatori di ciò che Dio compie, non protagonisti.
In La Voce e Il Tempo 23 ottobre 2022

[…] Affronta nodi cruciali anche il saggio di Paola Bignardi, intitolato Metamorfosi del credere. Accogliere nei giovani un futuro inatteso, pubblicato da Queriniana. «I posti lasciati vuoti dai giovani nelle chiese sono sempre più numerosi. E suscitano preoccupazioni in quanti hanno a cuore il futuro dei nostri figli e del cristianesimo», sottolinea l’autrice, già presidente nazionale dell’Azione cattolica italiana. «Un’ottima alternativa alle lamentazioni nei confronti dei giovani: una buona traccia per un esame di coscienza ecclesiale - che, oltretutto, fa bene a noi adulti», rileva nella prefazione l’arcivescovo Erio Castellucci, vicepresidente per l’Italia settentrionale della Cei, aggiungendo che la crisi in cui siamo immersi va dunque interpretata come un’opportunità: una sfida a rinnovarsi. «Nei tratti della sensibilità giovanile preme l’urgenza di immettere nella vita delle comunità cristiane una spinta verso il loro rinnovamento evangelico».


L. Badaracchi, in Avvenire 9 ottobre 2022

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