D: Nel racconto dei giovani, oggi si diventa credenti per motivi e secondo percorsi decisamente diversi dal passato. Un passato che, però, è tuttora il presente della gran parte delle modalità di trasmettere la fede nelle nostre comunità, specialmente nella catechesi. Spesso noi guardiamo a questo cambiamento con sconcerto, con delusione, a volte anche con un atteggiamento critico verso le nuove generazioni. La ricerca e il libro, «Metamorfosi del credere», ci invitano invece a uno sguardo diverso: lo preannuncia già il sottotitolo: «Accogliere nei giovani un futuro inatteso».
PB: Come si diventava credenti in passato? Ripenso alla mia storia, che è tipica di quelli della mia generazione e di diverse generazioni successive. Nei miei ricordi di bambina e di ragazza fino all’adolescenza c’è quello di un paese che si identificava con la parrocchia. La gente andava a Messa la domenica senza immaginare che avrebbe potuto non farlo; battezzava i figli e si sposava in Chiesa. La vita della parrocchia era abbastanza semplice: noi ragazze andavamo all’oratorio dalle suore e giocavamo: basta! Non c’era una miriade di iniziative pensate per noi. E poi c’era il catechismo, noioso quel tanto che basta; studiavamo le risposte a memoria, in una specie di gara a chi di noi le sapeva meglio. Quanto a capirne il senso, era un’altra cosa… Al centro della nostra educazione religiosa c’era la dottrina da imparare e alcune pratiche da osservare, alcuni comportamenti morali cui attenerci. Dopo quella stagione i percorsi interiori si differenziavano: c’erano pochi che si allontanavano; moltissimi che continuavano a vivere comportamenti consoni a ciò che era stato insegnato. D’altra parte, così facevano tutti, e la pressione sociale era un persuasore fortissimo. Alcuni si facevano domande, e lasciavano crescere dentro di loro un loro modo di stare dentro le pratiche di tutti, con un’assunzione di impegni che dava interiorità e forma impegnata alla vita cristiana. In questa maturazione, l’Azione Cattolica ha avuto per molti una funzione decisiva.
Quanto sopravvive oggi di ciò che si faceva sessant’anni fa? Moltissimo dal punto di vista della proposta, quasi nulla dal punto di vista antropologico e sociale. Un modo di trasmettere la fede uguale oggi come qualche decennio fa non produce gli effetti di allora, ma genera un distacco quasi generalizzato, dopo la celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, che non iniziano a nulla ormai. Quasi tutti i ragazzi si allontanano, perché non sono più i ragazzi di allora e la società non è più quella di allora. I ragazzi di oggi sono abituati alla velocità cui li ha allenati la tecnologia con cui si destreggiano molto meglio degli adulti, e non sopportano quella che loro ritengono la lentezza dei riti religiosi. Sentono fortemente le emozioni, da cui si lasciano fortemente coinvolgere, che permette loro di partecipare intensamente a ciò che accade, che sentono… Le emozioni sono una forma di conoscenza e permettono una partecipazione molto intensa: i ragazzi e i giovani desiderano essere protagonisti. Ma le emozioni sono fugaci e instabili e li abituano a vivere nel presente, a dare forma ai loro desideri: non tutto, ma subito. Cercano eventi, più che continuità, hanno bisogno di esperienze che tengano alto il tono emotivo della loro vita. Anche dal punto di vista religioso. Ma al tempo stesso hanno il senso della bellezza, dell’armonia, che cercano: una bella celebrazione li emoziona, li coinvolge, dà loro il desiderio di tornare…
Sono molto soli e vivono le relazioni come la cosa più importante della loro vita. Per molti di loro le relazioni sono il senso della vita, li aiuta ad uscire dalla loro solitudine. Le relazioni dei giovani sono spontanee, libere, e non sopportano di essere strutturate in modo istituzionale. Anche Dio deve essere dentro una relazione. La questione dei giovani di oggi non è se Dio esiste o no, ma se e come io possa stare in relazione con Lui. Il bello di credere.
Soprattutto i giovani di oggi hanno un forte senso del sé; si sentono protagonisti della loro vita e rifiutano proposte che non possano essere passate al vaglio del loro pensiero, del loro sentire. Sono insofferenti dell’autorità, in ogni ambito, a meno che le persone rivestite di autorità diventino per loro persone importanti, punti di riferimento della loro vita. Sul piano della fede, non credono perché qualcuno glielo propone, ma solo se hanno ragioni proprie e personali per farlo. E se possono scegliere le forme e i contenuti del credere. La fede in questo modo può essere solo personale, e questo sappiamo quanto sia promettente e al tempo stesso rischioso. La personalizzazione può tramutarsi in soggettivismo, ma anche la fede non è un’esperienza scontata, ma radicata nel proprio io.
I giovani non hanno certezze, sono soprattutto in ricerca. Hanno tante domande, difficili, che non sanno a chi rivolgere; così accade che vengono soffocate sotto una coltre di indifferenza, che è soprattutto frutto di solitudine e di paura della parte più profonda di sé. E sono domande che riemergono, quado un adulto si mette al loro ascolto, in atteggiamento libero e non giudicante. Questo vale anche per la fede, a partire dalla questione del senso: «Mi sento come una persona che è in una stanza buia e sta cercando di trovare l’interruttore». (Fabrizia, 25 anni).
Direi che i giovani abbandonano la fede perché non hanno la possibilità, il coraggio, l’aiuto ad affrontare le domande che il credere pone loro. La questione della fede, prima che essere una questione di proposte, è una questione di domande. E poi abbandonano la fede dopo aver abbandonato la Chiesa, e per ragioni diverse, ma soprattutto per il disagio che la vita della comunità ha generato in loro. Sono degli spietati osservatori e critici anche della vita ecclesiale, non sopportano l’anonimato delle nostre assemblee, il pettegolezzo che spesso li giudica, i linguaggi stereotipati e vecchi della nostra cultura ecclesiale, il senso di oppressione che genera in loro il carattere così strutturato delle nostre parrocchie, e non tanto rispetto alle questioni essenziali, ma anche le più banali e piccole, che dà loro l’idea di trovarsi in un mondo piccolo, mentre il loro desiderio è quello degli orizzonti vasti di una vita promettente.
E così, una giovane, 25 anni, che si è allontanata dalla Chiesa e (forse) dalla fede, dice: «la Chiesa mi ha deluso». I giovani hanno una domanda di vita che non riconoscono presente nella proposta che la Chiesa fa loro; sembra che la proposta di vita, di libertà, di gioia del Vangelo non trovi posto nella proposta che viene loro rivolta. E loro hanno desiderio di vivere, di vita piena, di realizzazione di sé. E così se ne vanno. Noi ce ne rammarichiamo, ma il loro andarsene dovrebbe fare molto di più: dovrebbe indurci a interrogarci. Non tanto se abbiamo sbagliato metodo per accostarci a loro, ma se la Chiesa oggi non abba bisogno di aggiornamento, di fare quell’operazione che il Concilio invocava 60 anni e che è rimasta largamente lettera morta.
Il distacco dei giovani dalla Chiesa e dalla fede è una protesta silenziosa verso una proposta di vita cristiana che ritengono non plausibile, per loro. Quante delle ragioni per cui i giovani se ne vanno non sono ragioni vere? Quante delle loro ragioni non sono condivise anche da noi adulti? Il distacco dei giovani ci dice molte cose: 1) Che la Chiesa deve affrettarsi a mutare il suo stile e diventare veramente specchio di un modo di vivere che parli di Vangelo, pena la dissoluzione della comunità cristiana. 2) Che questa non è un’operazione che deve fare qualche solitario, ma è un’esperienza di Chiesa, che deve interrogarsi sulla sua aderenza al tempo, alle persone: l’attenzione profonda alle persone è già, esso stesso, un modo per essere fedele al Vangelo. 3) Che la può aiutare l’ascolto dei giovani. In loro si sta affacciando il profilo di un umano diverso; la fede deve trovare casa in questa umanità. Nei giovani, nelle loro caratteristiche che segnalano un cambiamento antropologico, vi sono gli indizi di un modo di credere diverso, in cui le relazioni, le emozioni, la bellezza, la libertà hanno un ruolo importante nel delineare il profilo del credere. La fede di domani, che già si annuncia nelle domande e nella sensibilità del mondo giovanile.
Alla Chiesa mi pare che oggi sia chiesto non un aggiornamento dei suoi metodi, ma una vera conversone: a questo tempo, ai suoi linguaggi, alla sua sensibilità, al dialogo, all’ascolto. Già questo sarà un modo per convertirsi al Signore, che è entrato nella storia umana, cioè in una terra, in una cultura, in un tempo.
D: La nostra Giornata diocesana dei catechisti (Torino, 14/10/2022) ha come leit motiv l’invito del nostro Arcivescovo a porci in ricerca di «germogli nuovi». Nei percorsi diversificati dei giovani quali indizi possiamo cogliere sulla fede del futuro?
PB: L’immagine dei germogli nuovi è molto bella. Come sono i germogli? Piccoli, fragili: se non ricevono cura rischiano di morire ancor prima di maturare. I germogli si presentano con una forma diversa rispetto a ciò cui siamo abituati, e possiamo rischiare di soffocarli o di ucciderli perché non li riconosciamo, possiamo scambiarli per erbacce, e invece sono vita nuova sbocciata per rinnovare una vita che si sta spegnendo. Provo ad elencarne alcuni, ma erano già impliciti nella risposta precedente:
1) La fede delle relazioni: con Dio e tra di noi. Relazioni non ideali, ma reali, costruite giorno dopo giorno con la pazienza dell’avvicinarsi, con l’umiltà di riconoscere il bene che c’è nell’altro, con il desiderio di fargli posto, con l’intelligenza di valorizzare la sua originalità.
2) Una fede fortemente intrecciata con la vita, una fede che sia vita. Non semplicemente in senso morale, ma più profondo: una fede che è vita, che genera vita, amica della vita, che della vita costituisca il senso…
3) Una fede che è dentro un processo di generazione: nasce piccola, cresce a poco a poco e in modo non lineare, è originale e unica come ciascuno di noi. Giunge alla maturità con il tempo, occorre saper non bruciare le tappe.
4) Una fede che non ha paura delle emozioni, ma accoglie in sé il calore che esse portano.
5) Una fede che spesso sboccia al termine di una ricerca spirituale: se ieri il processo interiore tendeva ad andare dalla fede alla spiritualità, oggi il movimento è spesso dalla spiritualità verso (forse) la fede.
La questione del rapporto complesso con la comunità chiede forse di rivedere i rapporti interni ad essa, perché sappiano accogliere istanze di partecipazione matura, di corresponsabilità, di accoglienza aperta e dialogica…. I giovani chiedono di essere protagonisti, non scolaretti. E poi c’è la questione dei laici e delle donne.
Appare chiaro da quanto detto sin qui che siamo sollecitati, diciamo pure sfidati a «ritradurre» il nostro annuncio e la nostra testimonianza del Cristianesimo. Questo è un lavoro che la catechesi, in realtà, prova a fare da anni in termini di tecniche, modalità di esposizione, linguaggi. Ma è questa la chiave? La domanda viene spontanea perché i risultati non sono molto confortanti. Quali sono i veri fattori-chiave che emergono dai percorsi dei giovani e che dobbiamo cogliere?
Ogni epoca ha il suo modo di credere. Non vi è una fede rigida e immutabile: Dio è entrato nel tempo! Ogni epoca ha la sua sintesi spirituale. 1) Gli anni 50-60 sono stati quelli della dottrina 2) Gli anni 70-90: la stagione del rinnovamento, che ha toccato soprattutto il metodo, i linguaggi, la suggestione delle nuove tecnologie… la stagione dei catechismi, un altro modo di interpretare la dottrina 3) Gli anni successivi: gli anni dello smarrimento e della frustrazione. 4) Oggi: la stagione di un grande punto di domanda.
Mi pare che dopo la stagione della dottrina e quella dei metodi, questa sia la stagione della persona. L’annuncio della fede passa attraverso l’attenzione alla persona e alle persone, dal loro ascolto, perché il Vangelo entri in dialogo con loro. È la ricerca di una nuova pedagogia, al centro della quale vi è la persona, con la sua storia, la sua sensibilità, il suo modo di accostarsi alla vita, le sue domande.
Ascolto profondo delle persone, dei loro desideri e delle loro inquietudini, accompagnarle nella loro ricerca. Sapendo che da questo ascolto, da questa attenzione, verranno gli stimoli per una reinterpretazione del messaggio stesso: «Scriptura crescit cum legente» (Gregorio). L’ascolto delle persone non è semplicemente un modo per essere più efficaci, ma è porre le condizioni perché il messaggio stesso, nell’incontro con la vita, si arricchisca, si modifichi, maturi… mantenga quel carattere di contemporaneità che ha avuto il Vangelo, parola sorta in un tempo per ogni tempo. La pedagogia del Vangelo: tornare ad essa. È la pedagogia dell’incontro.
Le folle: hanno abbandonato tutte Gesù. Le persone: Nicodemo, la donna di Samaria, Zaccheo, Bartimeo... Il Vangelo ci dice anche che la trasmissione della fede (espressione quanto mai ambigua!) è esperienza di umanità. Non la comunicazione quasi meccanica di un contenuto a mo’ di travaso, ma un’esperienza di generazione, di vita, condivisa.
Che cosa comunica la pedagogia dell’incontro: 1) Tu mi stai a cuore; la tua vita mi interessa e mi è cara 2) Io sono qui per accompagnare la tua ricerca in dialogo con te (cfr Nicodemo, la donna di Samaria…), ma ti propongo solo quello che le tue domande sollecitano 3) Le tue domande sono più importanti delle mie risposte, perchè ti porteranno al aprirti al Mistero; il Mistero non te lo posso dare io, come se fosse una cosa, non più mistero. Io posso indicarti la strada, e farla con te. In questo modo si genera anche una Chiesa diversa.
D: Da ogni parte si leva la sconsolata constatazione: i giovani non ci sono, molti dopo i percorsi dell’iniziazione abbandonano, anche quelli che restano collegati alla comunità nei loro gruppi di età vengono poco o nulla a Messa. Non ci resta che piangere? O possiamo fare qualcosa?
PB: Piangere: no! Questo è un tempo appassionante. È certo un momento difficile, ma un bel momento, creativo, aperto, pieno di promesse e di possibilità. Ci viene da piangere se viviamo con lo sguardo rivolto indietro, al passato, che ci appare sempre come l’età dell’oro. Se viviamo radicati nel presente e con lo sguardo rivolto al futuro, allora al pianto si sostituisce l’intraprendenza, l’iniziativa, la creatività; la fiducia nelle possibilità nuove che il futuro ci apre.
La vita cristiana guarda con fiducia al futuro, perché crede alle promesse di Dio. Occore 1) Sperimentare: osservare i processi, prima che i risultati. 2) Investire molto sulla condivisione tra catechisti, piccoli gruppi che condividono esperienze, pensieri, proposte, ma soprattutto l’eco che dentro di loro ha quello che stanno facendo e vivendo. 3) Coinvolgere la comunità cristiana su questa esperienza, perché è tutta la comunità che deve convertirsi. L’essere prevale sul fare anche in questo modo. 4) Dare nuova dignità al lavoro educativo, il catechista è un educatore, cioè una persona esperta nell’accompagnare altri alla scoperta della grandezza della propria vita. E questa è un’azione di generazione, è una profonda esperienza spirituale nella quale Dio si manifesta nella grandezza di ciò che opera nella coscienza delle persone, e dà all’educatore alla fede il privilegio di essere testimone di questa azione. 5) Stare in attesa delle sorpese di Dio, e crederci, che Dio ci sorprenderà. 6) Dare un respiro spirituale al nostro servizio, che è alla Parola e alle persone, perché si realizzi il loro incontro. E noi saremo spettatori di ciò che Dio compie, non protagonisti.
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La Voce e Il Tempo 23 ottobre 2022