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Il silenzio di Dio
Magnus Striet

Il silenzio di Dio

Desiderio di risurrezione e scetticismo

Prezzo di copertina: Euro 22,00 Prezzo scontato: Euro 20,90
Collana: Giornale di teologia 451
ISBN: 978-88-399-3451-2
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 192
Titolo originale: Gottes Schweigen. Auferweckungssehnsucht – und Skepsis
© 2023

In breve

L’autore propone una nuova teologia, più meditativa, che lascia dietro di sé la dogmatica astratta e intreccia insieme riflessione, racconto, quotidianità ed esperienze di vita. Una teologia che finalmente parla la lingua del mondo.

Un saggio ideale per pensare ciò che la liturgia della Settimana santa dice con i simboli più evocativi.

Descrizione

Di fronte al male e al dolore che segnano l’esistenza umana, oggi la fede rischia di ritrovarsi senza parole per dirsi e per comprendersi. Magnus Striet, in questo suo lavoro, cerca di offrire un nuovo linguaggio, nuovi spunti per rianimare quel desiderio di risurrezione che abita ogni credente, un desiderio di senso e di salvezza per la propria esistenza.
A partire da ricordi autobiografici e da un vivace dialogo con diversi mondi culturali – dall’arte alla letteratura, dalla musica alla filmografia –, il teologo tedesco affronta il dubbio, lo scetticismo che sono parte fondamentale della fede, quel Sabato santo personale di ciascuno di noi, segnato dal silenzio di Dio.
Egli offre così nuove prospettive perché il dubbio possa trasformarsi in una fonte di speranza pasquale; elabora riflessioni che, rimettendo in circolazione il pensiero, riavvicinano alla vita il mistero della risurrezione.

«Queste meditazioni non hanno niente a che fare con quanto praticato negli odierni centri di spiritualità. Sono piuttosto circolazioni di pensiero, per riavvicinare alla vita il mistero pasquale» (Magnus Striet).

Recensioni

Abbiamo già avuto modo di segnalare il pensiero dell'autore presentando, tempo fa, il suo libro Libertà ovverosia il caso serio in risposta a una provocazione di Menke, che considerava il dialogo della teologia con la modernità come cedimenti della dottrina cattolica, da evitare e sanare in radice. Già allora Striet rispose che è necessario e, anzi, doveroso invece prestarvi attenzione come chance nell'ambito di una teologia della libertà. Qui prosegue sulla stessa linea, ma interrogando (e interrogandosi) sulla questione del dolore e della morte dentro la cornice socio-culturale e religiosa del nostro tempo. Non si sottrae all'ascolto profondo e partecipato dei quesiti (e dei dubbi) radicali e drammatici del nostro tempo; li «definisce» ben bene assumendone la sfida che lanciano alla fede e alla teologia.

Siamo davanti a una «teodicea» («giustificazione [giustizia] di Dio» di fronte al male) come la si pone oggi – senza mai nominarla perché forse ignota ai più – nelle discussioni più vivaci delle moderne agorà. Il presupposto è la convinzione che il quadro teologico in cui siamo cresciuti non ci sostiene più e che è urgente ripensare oggi l'intera questione. La logica che sosteneva quella riflessione non è più compresa perché non è più condivisa entro lo sviluppo del pensiero (dell'esperienza e del metodo) dell'uomo contemporaneo.

Qui ne abbiamo un saggio. Striet (docente a Friburgo in Brisgovia) propone sei meditazioni scaturite dalle riflessioni occasionate dalle celebrazioni del triduo pasquale quando il cristiano è chiamato a confrontarsi con l'esperienza del dolore e della morte di Gesù Cristo e... della propria. Perché se il Maestro ha fatto la sua parte, spetta a noi fare e assumerci la nostra. La narrazione è fortemente segnata dalla vivida esperienza dell'autore in famiglia, durante la partecipazione alle celebrazioni e al vissuto socioculturale della sua terra. Biografia e teologia: correttamente dichiarate e tematizzate nell’Introduzione (pp. 5-25), si stagliano poi, nel corpo del testo, più come orizzonte e cornice, lasciando spazio a una riflessione più intensa, a volte astratta, ma sempre in sintonia con le problematiche e il linguaggio contemporanei.

La prima meditazione (pp. 27-44) assume seriamente la «crux della libertà» (p. 30) nell'ambito della durezza della morte. Volenti o nolenti (andrebbe più coerentemente posta la questione della nascita che non la morte, dice l'autore) siamo liberi in un orizzonte di morte sempre incipiente che ci costringe a una serietà di vita che non teme di ingaggiare persino Dio nella lotta ai dolori che questa riserva. La cornice qui è il suo confronto con i testi e la vita di Heinrich Heine (1797-1856). Le considerazioni di Striet si fanno interessanti e certamente stimolanti.

La seconda meditazione (pp. 45-61) è ancorata al venerdì santo e fissa l'attenzione al Cristo morto nella cornice del dipinto di Hans Holbein il Giovane (1497-1543). Chi è quel Dio che dà il suo figlio per riconciliarsi con l'umanità? La redenzione deve essere altra cosa dalla necessità dell'espiazione (p. 56). Basta ancora quella teologia che radica ancora la spiegazione del male col peccato originale? Il peccato? O è la nascita il vero problema (ci dovrà pur essere una ragionevolezza nell'esistenza).

È una riflessione che prosegue nella terza meditazione (pp. 63-90) fino ad affrontare la questione del senso: sì, perché se la nascita è una sciagura allora è la vita a non avere senso. Oggi si fatica a credere, dice Striet, perché è diminuita la fede nella risurrezione (p. 69) nel mentre è cresciuto il desiderio di Dio (che ci sia qualcuno). Ma oggi siamo più scettici e perciò soli. L’esistenza di Dio è diventata discutibile non ultimo a causa del suo silenzio proprio là dove c'è bisogno di lui (p. 74). Le considerazioni prendono le mosse da testi di Brahms, Beckett, Bloch, Hegel, Kirkegaard e Zimmermann.

Corollario di questa meditazione è il lungo e interessante excursus sul suicidio (pp. 91-126). Nel dialogo tra libertà (quella di Dio e quella da lui data totalmente all'uomo) se la vita è un dono, quando si fa solo tormento si fa fardello perché non la restituire? Il discorso è complesso, ma è di una urgenza teologica inderogabile e bisogna farsene carico oggi in maniera decisamente seria.

Come si nota il libro si fa interessante. E non solo per quel teologo che intende ri-pensare quanto del pensato precedente non convince più tanto, ma anche per quanti intendono assumere in toto la responsabilità della propria libertà in dialogo con la fonte di quella libertà: Dio. La quarta meditazione (pp. 127-155) prosegue con la riflessione su come si debba intendere la morte di Gesù e sul suo significato di salvezza. Perché Dio avrebbe avuto bisogno di questo sacrificio? Il confronto è sempre – lo si è capito – con la teologia di sant'Agostino (pp. 131-134), ma stavolta anche con Anselmo di Canterbury (pp. 135-136). Striet dialoga, poi, con Hans Blumenberg (1920-1996) e Peter Sloterdijk. Cos'è la redenzione in senso pasquale?

La quinta meditazione condensa il suo contenuto nel dubbio che permane nella fede dei credenti in Cristo. «Non è troppo bello per essere vero? Scetticismo e fede nella risurrezione» (pp. 157-166). L'ultima meditazione si concentra sulla «cristologia del sabato santo» (pp. 167-187) in termini veramente singolari e intriganti e che urgono nel lettore un ulteriore approfondimento. In certo senso si torna al tema iniziale quando Striet tematizza il dialogo tra Dio e l'uomo in termini di libertà.

Tornando al titolo del libro, effettivamente il silenzio è lo spazio abitato da Dio e dall'uomo insieme. È il presupposto della libertà reciproca che è sempre amore che si traduce poi in termini di responsabilità. «Per te il silenzio è lode, o Dio» (Sal 65) anche quando si fa duro come nel dolore (il silenzio straziato delle vittime) oppure si fa «voce di silenzio che svanisce» (1 Re 19,12). Il silenzio è la presenza di entrambi nelle reciproche esistenze. Pasqua.

Chi cercasse in questo libro sistematicità e dimostrazione chiederebbe qualcosa di prematuro. Troverà invece quella rastremazione di molte idee che sa creare le condizioni per affrontare al meglio questioni aperte e irrisolte.


D. Passarin, in CredereOggi 2/2024, 154-156

Date a Cesare quello che è di Cesare, e alla Queriniana quello che è della Queriniana; e anche questa volta alla casa editrice di Brescia bisogna dare atto, per amore di parresìa, di aver pubblicato un testo ottimo, capace davvero di arricchire –e in alcuni tratti di movimentare– il panorama teologico nazionale (che sempre più spesso, sempre da più parti, viene accusato di comodo immobilismo).

L’opera, intitolata poeticamente “Il silenzio di Dio. Desiderio di risurrezione e scetticismo”, è quella del tedesco Magnus Striet, classe 1964, docente di teologia fondamentale e antropologia filosofica; questi due orientamenti in effetti, come in tutti i migliori casi di deformazione professionale, si riscontrano perfettamente nel suo testo: Striet parte infatti da un dato autobiografico, un episodio della sua infanzia raccontato con toni sfumati e quasi nostalgici (appunto, poetici), per poi dare vita a un testo vigoroso, eclettico, un saggio che fa di una sorta di teodicea moderna il proprio filo conduttore. È questa una scelta che fa da programma: essa sembra suggerire che come la fede parte da un’esperienza, così anche la riflessione teologica ha bisogno di partire dalla vita, dal dato concreto, per poi assurgere solo in un secondo momento a riflessione universale e generale. Questo è il metodo che Striet usa in tutto il suo lavoro; egli si muove sempre a partire da un pretesto, tra citazioni artistiche e letterarie, su cui poi fonda e articola le proprie considerazioni. Queste ultime, che non hanno in alcun modo la pretesa della dimostrazione o del ragionamento stringente, sono offerte al lettore come un flusso continuo. Lo stesso autore le costella di questioni aperte, irrisolte, in cui la struttura del pensiero si eclissa per lasciare spazio alla domanda esistenziale, alla riflessione contemplativa più che alla risposta netta.

È questa l’unica consolazione offerta al silenzio di Dio di fronte al dramma del male: un silenzio partecipato da Dio e dall’uomo. Siamo così nel pieno di una teodicea moderna, lontana da quella ricerca ansiosa di difendere Dio dalle contraddizioni del mondo che egli stesso ha creato. È un Dio, quello di Striet, che nella dinamica della sofferenza umana passa dall’essere imputato all’essere parte lesa, nella migliore –e più profonda– tradizione del Venerdì Santo. In fondo questo è il passaggio obbligato per giungere alla Pasqua, alla risurrezione del terzo giorno, in cui scetticismo e desiderio, rappresentano la cifra descrittiva dell’uomo contemporaneo, condannato ad essere libero e responsabile.

Tuttavia, al di là dell’impostazione apprezzabile, quello di Striet rappresenta un testo per addetti ai lavori, notevole più nelle idee che nella forma letteraria. D’altra parte come potrebbe essere altrimenti? Esso non ha certo la pretesa del romanzo accattivante o del giallo trascinatore. La forma che il professore di Friburgo dà al suo lavoro è quella del trattato serio, del volume destinato più allo studio che alla lettura. Infatti, oltre che le numerosissime citazioni esplicite, esso contiene in filigrana un gran numero di riflessioni teologiche e filosofiche precedenti, della cui presenza resta solo un’eco sfumata. Tra le più considerevoli certamente vi è quella di Uta Ranke-Heinemann, la diavolessa verde, a cui Striet, implicitamente, mostra di ispirarsi in più di qualche passaggio.

Insomma, da Agostino a Holbein il Giovane, da Anselmo d’Aosta a Brahms, Wittgenstein e Buber, “Il silenzio di Dio” compie un percorso di teologia multidisciplinare, godibile e ancora migliorabile. Ora non ci resta che sperare in un seguito; aspettiamo che l’autore, dopo averci raccontato del silenzio di Dio, ce ne mostri anche la risposta, passando così dai taciti giorni della Passione a quelli loquaci delle apparizioni alla Chiesa nascente.


G. Chiarolanza, in 2duerighe.com 26 novembre 2023

Docente di Teologia fondamentale e Antropologia filosofica alla Facoltà teologica dell'Università di Friburgo, il teologo tedesco Magnus Striet ha già all'attivo un volume dal titolo Libertà ovverosia il caso serio, in cui sostiene che la Chiesa cattolica dovrebbe abbracciare finalmente la modernità basata sulla libertà, per giungere a un'inedita e urgente comprensione di sé.

Qui, sempre pubblicato nella prestigiosa collana del Giornale di teologia, sulla stessa linea assume come caso serio un altro tema cruciale, la questione del dolore e del male che affliggono le esistenze umane, scegliendo di confrontarsi a più riprese con le ipotesi di soluzione che non solo la teologia, ma la letteratura, la filosofia e le arti hanno cercato di fornire lungo i secoli.

A partire da una domanda classica per la teologia occidentale, quella della teodicea, il Cur Deus homo? di anselmiana memoria. Di fronte alla sofferenza diffusa, oggi la fede rischia di ritrovarsi priva di un linguaggio adeguato per dirsi e per comprendersi: da qui la necessità di porsialla ricerca di parole capaci di rianimare quel desiderio di risurrezione che abita ogni credente (ma anche ogni uomo), nonostante l'evidente crisi di Dio – come la chiama Johann Baptist Metz – che contrassegna l'attuale cultura europea.

Le sei meditazioni qui raccolte, prendendo le mosse da spunti autobiografici, spaziano con acume tra letterati come Heine e Fontane e musicisti come Bach e Brahms, culminando in una cristologia del Sabato santo, giorno cruciale e misconosciuto, e in una suggestiva celebrazione della fede cristiana intesa come «il grande eppure».

Attenzione, però, Striet ci mette in guardia: «Quando parlo di meditazioni, questo non ha niente a che fare con quello che è praticato oggi nei centri di spiritualità. Le nebbie del non sapere evocate lì non fanno che annebbiare la mente». Fino ad ammettere che il termine meditazioni, nell'utilizzo che ne fa lui, andrebbe tradotto con circolazioni del pensiero. Sappiamo, o dovremmo sapere, che in questa stagione è grande il bisogno, nell'ambito cristiano, che il pensiero circoli. E produca nuovi frutti, all'altezza dei tempi.


B. Salvarani, in Jesus 8/2023, 90-91

«Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Mai forse un appello come quello che Wittgenstein aveva incastonato nel suo famoso, e peraltro, fitto Tractatus logico-philosophicus (1929) è stato smentito. È, infatti, curioso che la bibliografia sul silenzio abbia accumulato migliaia di testi e un oceano di parole. Oggi, poi, sui viali dell'infosfera avanza incessatemente una valanga di frasi, spesso irripetibili, e ben pochi sono quelli che confessano – soprattutto tra le figure pubbliche e i politici – quanto riconosceva due millenni fa Publilio Siro in una delle sue circa settecento Sentenze a noi pervenute: «Mi sono pentito spesso di aver parlato, mai di aver taciuto».

In realtà, l'ossimoro «silenzio eloquente» ha una sua grande validità: si pensi solo alla contemplazione mistica (dal greco myein, «tacere») o al «segreto messianico» di Cristo o alle lezioni taciturne di Buddha o alla «voce di silenzio sottile» nella quale il profeta biblico Elia scopre la teofania. Per questo è significativo scovare ampi e profondi studi antropologici, come quello Sul silenzio di David Le Breton (Cortina 2018) o le deliziose «variazioni» sul Silenzio nella musica del violoncellista Mario Brunello che ama suonare sulle cime dolomitiche, nel deserto, nei monasteri (il Mulino 2014). Tra l'altro, la pausa in musica dev'essere «eseguita» rendendola grembo generativo delle note precedenti e susseguenti.

Proviamo, allora, a render conto di qualche nuovo anello di quella catena bibliografica a cui accennavamo, segnalando che persino una rivista, «Luoghi dell'infinito», ha monograficamente affidato il numero dell'aprile scorso alla «Voce del silenzio», quasi in contemporanea con un incontro del Cortile dei Gentili, tenuto a Milano tra cristiani, buddhisti e non credenti, proprio sull'eloquenza del silenzio.

Due sono i volumi che presentiamo nei quali il silenzio è, in realtà, un'atmosfera destinata a far respirare un'esperienza radicale e drammatica, quella del dolore. Quando vi si è immersi, le reazioni possono essere antitetiche: l'eccesso di parole che rasentano l'urlo anche blasfemo (come non pensare a Giobbe e al suo grido lacerante?), oppure lo sconsolato e impotente ammutolirsi della vittima.

In entrambi i casi, però, sovrasta un altro silenzio, quello del Dio apparentemente remoto e indifferente. In questo intreccio di sensazioni, ma con una netta apertura oltre la tenebra e il vuoto verso un'alba di luce e un pieno d'armonia, si colloca lo scritto del teologo tedesco Magnus Striet, 1964, docente a Friburgo in Brisgovia.

Sono sei «meditazioni» molto suggestive, spesso sostenute da epifanie artistiche o letterarie piuttosto inattese, a partire dalla «scommessa» su Dio, basata sull'angustia, di Heinrich Heine, testimone di «una fede legata all'aldiquà». Oppure la rivelazione è affidata al Cristo morto di Hans Holbein il Giovane, un'immagine brutale fin nei segni della tortura e dell'esecuzione sulla croce. Infatti, sul Figlio che aveva gridato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» incombeva il rovescio della domanda dell'Eden: «Adamo, dove sei?», trasformata in «Dio, dov'eri?», che è l'interpellanza anche di Auschwitz.

È la volta, poi, di un musicista, Brahms, incredulo sul potere salvifico della musica, oltre che in quello redentore di un Dio, tant'è vero che a questa «meditazione» Striet associa una riflessione sul suicidio. Le sue pagine grondano di una folla di voci della cultura moderna che si confrontano con l'abisso oscuro e muto delle varie crisi della fede, posta di fronte al male. Semplificando di molto possiamo dire che quello scetticismo non accademico ma esistenziale è da innestare nella stessa regione del credere come suo necessario compimento.

Detto in modo simbolico, il nostro giorno è il sabato santo quando il Cristo giace nel sepolcro e si percepiscono solo i brividi dell'alba successiva pasquale con la risurrezione, un po' come accade nel prodigioso corale che suggella la Passione secondo Matteo di Bach.

Una fede, quindi, che non cancella il grande e inquietante «eppure». Tante altre emozioni riserva il viaggio proposto dal teologo tedesco al credente e al non credente, un percorso che l'autore fa intuire essere in filigrana anche autobiografico. […]


G. Ravasi, in Il Sole 24 Ore 20 agosto 2023, X

«Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, è tornare lì donde si è venuti»: un sentimento accorato e insieme nichilista si ritrova in queste parole recitate dal coro della tragedia Edipo re di Sofocle. Espressione di una visione dell’esistenza improntata al pessimismo totale propria di buona parte della cultura ellenica – si pensi ai lirici greci – ma anche di una tradizione consolidata del pensiero occidentale, il cui emblema è Schopenhauer. «Una visione purificata da tutte le scorie religiose», commenta il teologo tedesco Magnus Striet nel suo libro Il silenzio di Dio. Desiderio di resurrezione e scetticismo, appena edito da Queriniana (pagine 190, euro 22).

Docente di Teologia fondamentale e antropologia filosofica alla Facoltà teologica dell’Università di Friburgo, Striet s’interroga sulla questione del dolore e sulla presenza del male che affliggono l’esistenza umana, confrontandosi ampiamente con i tentativi di risposta che non solo la teologia, ma la letteratura e la filosofia hanno cercato di dare nel corso dei secoli. E cita una lettera di Johannes Brahms inviata a un amico per la nascita del secondo figlio: «In tal caso, non si può più augurare il meglio – che dovrebbe essere non nascere. Possa il nuovo cittadino del mondo non pensare mai in questo modo, ma possa rallegrarsi per molti anni del 7 maggio e della sua vita». Righe da cui traspare rassegnazione, esattamente come nel caso degli antichi greci.

Non molto dissimile del resto era la domanda di Giobbe sul destino degli esseri umani. «Ma anche se non si demonizza la nascita – rileva Striet – se si dichiara che questa non è un male radicale e si preferisce nascere, rimane in ogni caso la durezza della morte, il sapere con certezza di non esserci più in futuro». Lo scandalo della morte s’infrange solo grazie alla resurrezione. Lo sapeva bene Dostoevskij, quando dinanzi al Cristo morto di Holbein fece dire al principe Myskin nel romanzo L’idiota che guardando quell’opera si può perdere la fede: nessuna possibilità di redenzione o speranza di abbattere il muro della morte in quella raffigurazione di un cadavere straziato, nessuna immagine di divinità in quell’uomo torturato e giustiziato.

Allo stesso modo, il dottor Rieux protagonista della Peste di Camus, trovandosi davanti a un bambino in agonia, dice di rifiutare una creazione in cui trova spazio la sofferenza dei piccoli innocenti, così come Ivan Karamazov dice al fratello di voler restituire il biglietto a Dio. Spaziando fra altri vari autori, dal poeta Heine allo scrittore Fontane, fino a pensatori più recenti come Blumenberg e Sloterdijk, il teologo sulla scia di Metz affronta di petto il problema della teodicea: «È il grido di giustizia, l’orrore evidente di fronte alla storia mostruosa della sofferenza umana che stimola il desiderio di Dio. Solamente un Dio che salva, che può fare giustizia e asciugare le lacrime è un Dio che vale la pena desiderare». E qui Striet giunge al cuore della questione: «Dov’è questo Dio? Perché non interviene quando gli uomini gridano a lui lacerati dal dolore? Non dice la Bibbia che a chi chiede sarà dato?».

Ma le domande si fanno ancora più radicali: creando il cosmo e l’uomo, Dio non poteva non sapere che l’esercizio della libertà da parte degli esseri umani avrebbe potuto portare a tragedie infinite e orrori incommensurabili. Perché allora non ha rinunciato al suo progetto? Il Cur Deus homo? è un interrogativo che tocca al cuore la teologia cristiana. Per l’autore l’unica risposta possibile è nell’Incarnazione, Passione e Resurrezione di Cristo: la dimostrazione che Dio non abbandona mai l’uomo, ma anzi insegue le sue creature. Egli «conosceva le difficoltà della vita quando corse nondimeno il rischio di compiere la creazione. Ed egli intuì anche ciò che sarebbero stati in grado di fare degli esseri umani, una volta che fossero stati capaci di autodeterminarsi, in altre parole: di entrare nel regno della libertà.

Dio deve aver avuto presente la possibilità di un male che nel suo orrore supera quello che la natura già riserva, e tuttavia si azzardò a creare il mondo». La promessa della creazione è quella di un futuro che Dio non vuole che finisca, la fiducia che il male non avrà l’ultima parola e che la morte non può essere il destino finale dell’avventura umana nel mondo. Ed è grazie alla vita e al messaggio di Gesù che rimane «viva la speranza che la sventura di molti un giorno potrebbe essere riconciliata e le lacrime potrebbero essere asciugate». Che le nostre ferite siano insomma risanate. Ma questo è il mistero del Sabato Santo, il giorno del silenzio di Dio.


R. Righetto, in Avvenire 27 maggio 2023

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