Dominique Collin è un giovane teologo e filosofo domenicano che insegna al Centre Sèvres di Parigi e ha già prodotto alcuni fortunati saggi tradotti in Italia da Queriniana. Qui, avendo come base un’accurata esegesi, propone con un linguaggio moderno e spigliato, adatto per una collana di spiritualità, una lettura molto attuale della Lettera di Giacomo.
La Lettera di Giacomo, si sa, si porta dietro una brutta nomea, almeno in campo protestante, dopo che Lutero l’ha definita una «lettera di paglia». Ma, per meglio comprendere le parole del Riformatore, è necessario ampliare il discorso – e questo è anche utile al fine di capire meglio come Lutero si ponga di fronte al testo biblico in generale e quale sia per lui il centro del messaggio evangelico. Scrive infatti Lutero nell’introduzione a questa epistola: «La Lettera di S. Giacomo, per quanto respinta dagli antichi, io la lodo e la ritengo buona, perché non sostiene dottrine umane ed insegna severamente la legge. Ma per dire il mio parere, senza pregiudizio per nessuno, io non la ritengo uno scritto apostolico [...]. Essa vuole dare insegnamenti ai cristiani e non ricerca neppure una volta la passione, la resurrezione, lo spirito di Cristo [...]. “Voi mi sarete testimoni”. In ciò concordano tutti i veri libri sacri, che sempre predicano e insegnano Cristo. Questa è la vera pietra di paragone per valutare tutti i libri: vedere se insegnano Cristo o no, giacché tutta la Scrittura mostra Cristo (Rom. 3), e S. Paolo non vuol sapere altro che di Cristo (I Cor. 2,2). Ciò che non insegna Cristo, non è apostolico, anche se lo dicessero S. Pietro o S. Paolo. Al contrario, ciò che insegna Cristo, è apostolico, anche se lo facessero Giuda, Anna, Pilato e Erode».
È però vero che questa epistola, benché non possegga la carica dirompente delle lettere ai Galati o ai Romani, fornisce, alla pari dei libri sapienziali dell’Antico Testamento, delle indicazioni quanto mai concrete e ragionevoli sul modo in cui possiamo esprimere la nostra fede (e la nostra fedeltà) a Dio nel vivere quotidiano. Ed è proprio su questo aspetto che il nostro autore pone l’accento.
Collin parte da un giudizio assai severo sul mondo attuale e sul ruolo che hanno avuto e hanno anche le chiese cristiane. Egli afferma che l’ambizione del cristianesimo, nel corso della sua storia, è stata quella di costruire un «mondo cristiano», piuttosto che quella di salvare il mondo; con il risultato che, se il mondo è quello che è, lo si deve anche a causa di questa pretesa.
Afferma Collin: «I cristiani hanno nella loro maggioranza così poco inquietato il mondo che hanno edificato il mondo per sé stessi, costruito sullo stesso fondamento che il mondo stesso si è dato, cioè la sufficienza» (p. 9). Dobbiamo chiarire che, da un lato, quando il nostro autore usa il termine «mondo», lo fa certo sulla scorta della Lettera di Giacomo ma dandogli, sull’esempio giovanneo, una forte tinta negativa. Va chiarito che rifiutare il mondo, per Giacomo, non significa estraniarsi dalla realtà. È piuttosto il rifiuto del compromesso e la capacità di utilizzare il pensiero critico che permette di smascherare tutte le volte che la società si allontana dalla volontà di Dio e quindi diventa effettivamente «mondo», cioè una realtà incapace di vedere nell’altro, nel diverso, un fratello e di vivere la società come uno spazio comunitario.
Una parola va detta anche rispetto al termine «sufficienza», così inusuale, il quale va preventivamente interpretato in quanto è usato spesso nel libro come chiave per leggere la realtà in cui era immersa la chiesa del tempo della lettera (datata da Collin verso la fine del I secolo) e in cui noi ancora viviamo. Immagino che il termine francese utilizzato dall’autore sia suffisance che, oltre al senso di sufficienza, scelto nella traduzione, risponde a un ampio spettro di significati che mi pare abbiano maggior presa sul testo: vanità, arroganza, autosufficienza, sicurezza nelle proprie capacità, soddisfazione di sé... Ed è infatti con questi sinonimi che Collin stesso spiega e approfondisce il suo pensiero e la sua analisi della realtà (p. 8).
Come uscire da questa situazione? Sulla scorta della Lettera di Giacomo, afferma l’autore, se vogliamo sperare in una fede potentemente critica, dobbiamo riprendere innanzitutto la fede «nel mondo a venire». Il credente non riuscirebbe a mantenere una certa coerenza di vita e di costanza nell’espressione della fede se questa non fosse orientata verso la venuta del Signore o, come Giacomo si esprime, verso il fine, la finalità (telos) del Signore. «Dire che il Signore “viene” significa dire che “è vicino”. Il mondo a venire non è per “dopo”, esso è fin da ora la possibilità di vivere in maniera diversa, secondo la logica dell’agape» (p. 112).
Se noi siamo abituati a leggere il Nuovo Testamento a partire dagli evangeli e dalle lettere di Paolo, certamente ci troviamo spiazzati di fronte alla lettura di Giacomo. Per questo dobbiamo in primo luogo modificare il nostro sguardo e vedere il Canone neotestamentario (tutta la Bibbia, in realtà) come una sinfonia: più voci che nel loro complesso esprimono una armonia.
È indubbio che Giacomo si pone in alternativa a Paolo (o almeno a una sua banalizzazione), ma dobbiamo leggere la sua attenzione ai particolari come un insegnamento per i cristiani per una vita fedele a Dio giorno per giorno. Una fedeltà che ha come motto: «vivere nell’esistenza quotidiana la fedeltà alla volontà divina e alla dimensione del Regno di Dio». È in questa dimensione che Collin ci conduce con la sua appassionata lettura della Lettera di Giacomo.
P. Ribet, in
Protestantesimo 2-3/2024, 295-296