09/11/2023
FORESTI E GIBELLINI NEL FAMEDIO DEL VANTINIANO



Mons. Bruno Foresti e padre Rosino Gibellini sono i due volti, le due manifestazioni più convincenti, di un concilio ecumenico, il Vaticano II, che è stato iniziato da un papa bergamasco e concluso da un papa bresciano. «Due uomini simili e diversi» – come li definiva Benedetto XVI. «Due santi pontefici», come sostiene papa Francesco. Giovanni XXIII, il papa buono, con il suo volto paterno e la sua impronta popolare. Paolo VI, il papa che ha voluto guardare negli occhi la modernità, che ha dialogato con la politica e l’arte, la cultura e la scienza.

Foresti e Gibellini declinano questi due volti con altrettanta forza. Foresti il pastore, il vescovo popolare nella sua ruvida schiettezza. Gibellini il teologo e il filosofo, l’editore di respiro internazionale. La sorte, la coincidenza dicevamo, hanno fatto sì che siano morti nello stesso anno e oggi siano iscritti insieme nel Famedio della città.

Mons. Bruno Foresti è stato vescovo ordinario di Brescia per quindici anni, dal 1983 al 1998. Un tempo non lungo, quei tre lustri, della sua vita giunta alla soglia del secolo. Eppure egli considerò questo periodo il fulcro della sua vicenda di uomo di chiesa e di vescovo, tanto da chiedere d’essere sepolto nella cattedrale della nostra città. Come è avvenuto proprio nel giorno nel quale avrebbe compiuto cento anni.

Nato a Tavernola Bergamasca nel maggio del 1923, scelto da Paolo VI nel 1974 come vescovo ausiliare e l’anno successivo confermato arcivescovo di Modena, a Brescia arriva nel giugno del 1983. Nell’omelia d’ingresso dice: «Mi è anche parso che troppi mi attribuiscono qualità e doti positive che io non possiedo e ciò mi dispiace, perché ne verranno delusi». E aggiunge: «Vi darò quei cinque pani e quei due pesci che possiedo; il Signore, se avrete fede, li moltiplicherà…». No, i bresciani, così come i modenesi prima di loro, non restano delusi da quel vescovo che confessa: «Mi piacerebbe essere ricordato come un vescovo amico dei poveri». La cifra della sua missione emerge quando a tutti chiede: «Scendete sulle strade dove vive, ferve l’azione, e incontratevi per dialogare, per conoscervi, per amarvi; gli uomini sono creature bisognose d’amore. E poi guardate il cielo. Le persone che non alzano gli occhi al cielo facilmente intristiscono. Guardate il cielo azzurro che Dio spiega sopra il nostro capo». Foresti è vescovo operoso, promotore di progetti e opere, eppure nella memoria di tutti resta impresso il suo stile: il suo viaggiare in lungo e in largo per la diocesi guidando personalmente la sua vecchia Fiat, il suo presentarsi alle porte dei preti e negli oratori senza particolari convenevoli, le sue visite ai malati, i suoi viaggi per raggiungere i mille missionari bresciani in ogni angolo del mondo. A chi gli donava libri rispondeva: «Dovreste regalarmi anche il tempo per leggerli». 

Un tempo, quello per la lettura e lo studio, che padre Rosino Gibellini ha elevato a fulcro della sua vita. Rappresenta l’altro volto significativo dell’esperienza del Concilio: la sfida del pensiero, della ricerca, della cultura che diventa chiave per interpretare il mondo contemporaneo e la nostra via nella modernità.

Nato a Gambara nell’estate del 1926, ha solo dodici anni quando entra fra i Piamartini. All’Università Gregoriana di Roma si laurea con una tesi sul peccato originale. All’Università Cattolica di Milano è allievo della filosofa Sofia Vanni Rovighi e si laurea con una tesi su Pierre Teilhard de Chardin. Per sessant’anni è il fulcro dell’Editrice Queriniana. La rivista Concilium in quegli anni raggruppa i più grandi teologi venuti a Roma per partecipare ai lavori del Concilio. La Queriniana inizia a pubblicare opere di altissimo profilo e diffonde i testi di Küng, Barth, Bonhoeffer, von Balthasar, Ratzinger, Rahner, Moltmann, Schillebeeckx, Dupuis, Kasper. Guadagna subito un respiro internazionale con le antologie da lui curate sulle teologie femministe e sulle teologie di Africa, Asia, America Latina. In un capitolo de La teologia del XX secolo, suo capolavoro come autore, Gibellini sostiene che quel che caratterizza la teologia post-conciliare è la ricerca dell’umano nelle tracce del religioso. Per lui la teologia è tra i linguaggi più espressivi dell’umano proprio perché ricerca di Dio. Instancabile creatore di progetti, padre Gibellini legge, studia, traduce, interviene. E durante l’intera vita, viaggia incessantemente: Innsbruck, Monaco, Friburgo sono le prime tappe per incontrare i maggiori teologi tedeschi; ma poi anche negli Stati Uniti, in America Latina, in India, Africa e Giappone. Il suo testamento spirituale si può intravedere in Meditazioni sulle realtà ultime con il superamento del problema dell’inferno, a favore di una considerazione del Dio misericordioso che salva tutti. «Dio, e non il male, ha l’ultima parola».

Provvidenziale la coincidenza che vede ora iscritti questi due nomi nel Famedio, testimonianza di grande umanità in tempi che spesso ci appaiono così disumani.



(Claudio Baroni)