Potremmo pure chiamarlo, senza offesa, lo Žižek cattolico. Alexis Jenni non dovrebbe prendersela. Perché essere paragonato al celebre filosofo sloveno, capace di mescolare Lacan con i film di Hollywood, i fumetti con Jacques Lacan, può risultare anche simpatico e leggero. In questo suo smilzo ma incisivo Virtù dell’imperfezione (Queriniana, pagine 94 euro 9,00), lo scrittore francese, che si rivelò con il Premio Goncourt grazie al suo L’arte francese della guerra (Mondadori), dà prova della capacità di affrontare un tema molto serio (l’imperfezione del corpo come via maestra della compiutezza umana versus le pretese totalitarie del postumanesimo) mixando in maniera felice alto e basso, filosofia e cultura pop: per esempio, facendo osservazioni sul calcio (tira in ballo l’astro brasiliano del Psg Neymar) e annotazioni su Leonardo da Vinci; spaziando da dati del quotidiano (scendere gli scalini di una scala) a riflessioni attinte da Pascal e Baudelaire. Oppure rievocando la riflessione (made Umberto Eco) sulle differenze filosofiche tra Superman e Batman, il primo esempio di una perfezione non umana, il secondo emblema di un’umanità ferita e per questo vera e autentica.
Ma al di là del metodo (e dello stile rarefatto, quasi onirico: lontano, per esempio, dalla cadenzata prosa di cui ha dato prova nella recente biografia del naturalista americano John Muir, appena pubblicata da Piano B), Jenni conduce una sua battaglia personalissima contro il postumano, tematica che in Francia (a differenza che da noi) va per la maggiore nel dibattito pubblico, con conseguente proliferazione di testi nella saggistica. Quello che Jenni rivendica è la primarietà del corpo umano, la sua indomita bellezza e altezza al di là delle pretese perfezionistiche di un pensiero che si fa totalitario nel momento in cui pretende di cambiare il dato essenziale, il corporeo. Jenni parte convintamente da un dato: «Bisognerebbe prendere sul serio l’idea che la perfezione non esiste. Il corpo è; la perfezione non è. Il vero è, al fianco del reale; e la fantasticheria non è, anche se talvolta è gradevole sognarla». Il dato essenziale, ribadisce lo scrittore transalpino, è portare avanti una riflessione che «sia rasente all’umano», ovvero che tenga l’uomo fisso nell’obiettivo della propria indagine, senza voli pindarici che ne stravolgano l’identità: «Il transumano è sterile e ben presto morto». E anche di fronte alla tirannia della bellezza a ogni costo, che ha fatto esplodere il numero di centri estetici e ci ha resi schiavi dell’antirughe, Jenni pronuncia parole quanto mai antimoderne: «Piuttosto che i volti lisci e armoniosi che sembrano appena usciti dal loro imballaggio originario, io amo alla follia i volti scolpiti che raccontano da solo la loro storia, in una lingua straniera di cui non sappiamo una parola, ma che capiamo benissimo. Difatti, se la bellezza non è un racconto materiale, a che cosa serve? A sbalordire? Suvvia, qui parliamo di vivere».
Alla fin fine, Jenni ci riporta al dato originario, ovvero – per usare un’espressione cara a papa Francesco – che «la realtà è superiore all’idea», e in questo caso sia il corpo ad avere l’ultima parola: «Il nostro corpo imperfetto è la guida migliore di cui disponiamo in una realtà fatta di tutto ciò che capita, e dunque di sorprese; la nostra imperfezione in se stessa è efficace».
L. Fazzini, in
Avvenire 23 settembre 2021, 21