«Conversione pastorale» è una delle espressioni che papa Francesco ha impresso con più forza nel linguaggio ecclesiale. Ma di cosa stiamo parlando quando usiamo questo sintagma? Il punto di partenza nel tentare una risposta è molto netto, secondo il teologo tedesco Stefen Silber: «La religione è diventata una lingua straniera. Molte persone non capiscono più che cosa dicono le cristiane e i cristiani e non comprendono di che cosa parliamo. Questo mi viene messo dinanzi agli occhi ogni anno quando nella preparazione alla cresima voglio trasmettere ai candidati e ai loro genitori chi e cos’è lo Spirito Santo. Non solo molti non lo capiscono ma alla maggior parte di loro, anche tra i genitori, non interessa capirlo».
La Chiesa deve dunque farsi prossima a chi sente come straniero il cristianesimo, argomenta Silber nel provocatorio saggio, Una Chiesa che esce da se stessa. Sulla via della conversione pastorale (Queriniana, pagine 288, euro 34). E dunque essa deve prendere atto che su di sé deve far leva per far fronte a un cambiamento radicale.
Tale presa d’atto è assodata nel magistero di Francesco. Ma non ancora diventa pratica nell’azione pastorale. Quando invece già il Vaticano II aveva chiarito bene le cose: «La Chiesa non esiste per se stessa. È al servizio del regno di Dio come annunciato da Gesù», ovvero «nuove e giuste condizioni di vita collegate a Dio». Impegnarsi per il regno di Dio, in fin dei conti, non vuol dire altro che «trasformare il mondo intero nel senso di Dio». Questa, annota SIlber, è «una delle intuizioni più importanti del concilio Vaticano II», il quale ha anche ricollocato in maniera corretta il rapporto tra Chiesa come comunità e Chiesa come gerarchia: «La Chiesa non è una gerarchia alla quale apparterrebbe anche un popolo, ma è un popolo. Vale a dire il popolo di Dio, nel quale è stata istituita, per il suo bene, una gerarchia».
Si percepisce, nell’argomentare di Silber – con una scrittura che rifugge dall’ecclesialese indigesto al lettore medio –, l’eco dei suoi anni da missionario laico (sposato e padre di tre figli) in Bolivia – oggi insegna teologia all’Università di Vechta, in Germania.
I riferimenti attingono spesso all’esperienza ecclesiale e al pensiero teologico latinoamericano, con il suo stretto connubio tra prassi e ricerca intellettuale. Soprattutto, nell’accorgersi che è la realtà un luogo teologico, uno spazio in cui Dio sa farsi presente a chi lo pensa e lo cerca: «Dio ci abbraccia con la realtà» affermava Alfred Delp, citato da Silber, gesuita tedesco resistente al nazismo. E infatti Silber, travasando la sua esperienza latinoamericana nel contesto europeo, evita di fare trasposizioni sempliciste: «Cristiane e cristiani in Europa devono sviluppare modelli pastorali che rispondano alle nostre sfide contestuali. Le esperienze di altri continenti possono fornire suggerimenti».
«Le comunità di base – prosegue il teologo – sono un esempio di come negli ultimi decenni sono nate in tutto il mondo forme di espressione nuove e molteplici, differenti e dinamiche della Chiesa dei laici. Ne sono un esempio le piccole comunità cristiane in Africa e in Asia, le chiese domestiche in America latina, le comunità locali a Poitiers, le fresh expressions of church in Inghilterra o le emerging churches in Germania». Quello di cui non c’è bisogno, sostiene Silber, è un ritorno all’indietro, «indietrismo» lo chiama papa Bergoglio, perché lo Spirito spinge al futuro, non al passato: «È impossibile un ritorno alla Chiesa degli anni Cinquanta, a quella del XIX secolo o persino della riforma tridentina, poiché anche la Chiesa è parte dello sviluppo sociale e culturale».
Silber spinge l’acceleratore su una teologia che sappia farsi comprensibile: «Deve sforzarsi di usare un linguaggio a-teistico, non-teistico e, così inteso, anche “senza Dio”. Il linguaggio che viene usato nella maggior parte dei testi della Bibbia ne è un esempio: sono storie narrate e sono inni cantati, Dio si rivela in relazioni, e l’esperienza quotidiana diventa trasparente verso la rivelazione. Per questo nella Bibbia c’è addirittura un libro che rinuncia completamente a menzionare esplicitamente Dio: il Cantico dei cantici».
E Silber ha ragione nell’esemplificare tutto questo, attraverso l’esperienza della storia ecclesiale dell’America latina, adducendo san Oscar Romero come faro di vita: «È stata la sua appassionata difesa delle persone, della giustizia e della vita che ha portato Romero alla morte e ha prodotto speranza per il popolo di El Salvador. Se nelle sue prediche l’arcivescovo avesse parlato solo di Dio, mantenendosi lontano dalla realtà della vita dei salvadoregni, non sarebbe stato possibile per lui ridare a tante persone la fede in se stesse e difendere la giustizia. E questo probabilmente non gli sarebbe nemmeno costato la vita».
L. Fazzini, in
Avvenire 24 agosto 2023