Penso che sia persino superfluo dire che viviamo in un momento di crisi, sotto molti punti di vista, a partire dal piano dell’economia. Credo altresì che vada affermato che non si tratta di una crisi tecnica e passeggera del mercato, legata a contingenze storiche, ma nasce da motivazioni profonde anche di carattere etico e ideologico. È una crisi di sistema e come tale andrebbe affrontata. Molti sono i fattori scatenanti, trai quali si può porre la globalizzazione che da un paio di generazioni è al centro dell’attenzione e che comporta un riequilibrio dei mercati – ma è altrettanto vero che accanto a questo abbiamo la rivoluzione informatica che ha portato con sé la centralità della finanza che muove immensi capitali nello spazio di pochi secondi. La ricchezza non poggia più dunque sul lavoro, ma piuttosto sul denaro. Denaro e lavoro, ricchezza e merci non sono più legati l’uno all’altro, e questo provoca un pericoloso disassamento che costringe a nuovi equilibri sia in economia sia a livello sociale. La società che è uscita dalla Seconda guerra mondiale ha fatto dello spreco il suo modello di sviluppo (si veda l’emergenza per i rifiuti che hanno riempito le città e le pagine dei giornali). Oggi si vede in modo lacerante e lampante che questo modello di sviluppo non è più sostenibile e ne consegue la necessità di ripensare i consumi, i modi di produzione e le politiche energetiche, come chiedono i Fridays for Future, e di insistere sulla sobrietà – cose che invece vediamo pericolosamente assenti dal dibattito. Mi sia concessa una nota a margine: è impressionante e significativo vedere come una ragazzina svedese sia riuscita a portare in piazza milioni di persone, mentre i responsabili dell’economia, ossequiosi all’apparenza, di fatto si girano dall’altra parte per non vedere.
In questo contesto giunge a proposito il nostro libro, il cui titolo originale è Responsabilità e bene comune. Etica aziendale – Una nuova prospettiva (2017). Gli autori sono ambedue dottori in teologia e il primo è professore di sociologia del cristianesimo, mentre il secondo è responsabile degli investimenti sostenibili presso la banca che fa riferimento alla Caritas tedesca. Lo scopo che i due autori si sono dati è quello di fornire alcuni punti di riferimento irrinunciabili per ogni discorso etico in economia. Troppo spesso, infatti, si ritiene nei circoli economici che l’economia possa essere legge a se stessa e che gli operatori del settore siano gli unici autorizzati a considerarsi interpreti di un’etica della responsabilità.
I nostri autori concentrano la loro attenzione sul mondo delle aziende e correttamente segnalano il fatto che non si può fare solo un discorso generale, ma occorre distinguere tra un microlivello (il soggetto economico individuale), un mesolivello (l’attore economico aziendale) e un macrolivello (il sistema economico nazionale e globale). «Sono tre livelli che vanno considerati separatamente, ma vanno letti strettamente connessi fra di loro», dicono gli autori. «Se il centro dell’etica è il bene comune, è evidente come il bene dell’impresa al mesolivello sia strettamente collegato al bene della singola persona, al microlivello, e, all’opposto, a quello della società al macrolivello […]. Il condizionamento reciproco tra bene d’impresa e bene comune al mesolivello e al macrolivello impedisce di contrapporre un bene all’altro, sapendo perfettamente che entrambi sono sempre tenuti a ricercare il bene della persona come punto di riferimento etico» (pp. 64 s.).
Il bene comune: gli autori spiegano che lo scopo dell’economia dovrebbe consistere nel permettere il dispiegamento della libertà delle persone nel contesto del bene comune, che «esprime il lato sociale del concetto di bene» (p. 65). L’etica dovrebbe permeare ogni livello del discorso economico, nella tensione tra singolo e sistema, tenendo presenti quattro indicatori fondamentali: la comunicazione, la partecipazione, la cooperazione e la trasparenza. Questi, presi nel loro insieme, devono costituire i criteri etici orientativi per diffondere il senso di responsabilità e del bene comune a tutti i livelli dell’agire in economia.
Morale e denaro non sempre vanno d’accordo, lo sappiamo sin dai tempi evangelici, e ritengo che l’etica cristiana abbia qualcosa da dire in proposito per un riorientamento che permetta di evitare il disastro, ecologico e sociale, verso il quale ci stiamo dirigendo, mi pare, con una certa noncuranza. È vero che ambedue le realtà sono fondamentali nella vita economica e devono essere necessariamente intrecciate; ma spesso priorità e finalità vengono invertite – cosicché il denaro occupa il primo posto e mette la morale all’angolo.
Una buona sintesi della proposta dei due nostri autori è contenuta in quanto scrivono a p. 63: «Il compito delle imprese è anzitutto quello di perseguire i loro scopi in modo efficiente e redditizio, limitando gli sprechi. Le imprese sono quindi tenute al loro successo economico. Da un punto di vista etico, tuttavia, la realizzazione del bene dell’impresa mostra il suo limite proprio nel momento in cui compromette il bene della persona, restringe lo sviluppo della personalità di ciascun individuo, accetta in modo remissivo condizioni disumane e trasforma il singolo in oggetto di un comportamento economico basato sullo sfruttamento». E mi pare un concetto assolutamente condivisibile.
P. Ribet, in
Protestantesimo vol. 78 (1/2023), 66-68