Anche per un addetto ai lavori può essere una sorpresa – nei tempi drammatici di Gaza e delle relative manifestazioni pro-Palestina – che già nel 1989 fosse apparso un saggio che recava questo sottotitolo: A Palestinian Theology of Liberation. Autore era un teologo anglicano, nato nel 1937 nel villaggio palestinese di Beisan, distrutto dall'esercito ebraico nella guerra del 1948: il suo nome è Naim Stefan Ateek, e uno degli autori che ebbe influsso sul suo pensiero fu paradossalmente un ebreo, Marc H. Ellis, allora docente alla Baylor University di Wako nel Texas, la cui opera principale si intitolava Verso una teologia della liberazione, edito in spagnolo in Costa Rica.
Questo squarcio vuole mostrare quanto sia interessante il volume dal titolo emblematico Teologie del Sud,opera di uno dei maggiori teologi spagnoli, Juan José Tamayo, classe 1946, già docente in varie università nazionali ed estere. L'orizzonte che egli ha perlustrato, raccogliendo un'imponente documentazione, accuratamente vagliata e selezionata, è impressionante per un lettore dell'emisfero settentrionale, convinto che basilare e prevalente sia solo l'elaborazione dei teologi e filosofi europei secondo i canoni dei loro linguaggi e soprattutto delle loro selezioni tematiche.
Significativa è la stessa reazione di Tamayo al termine di questo lungo viaggio intercontinentale: «Gli itinerari di dialogo che ho percorso mi hanno svegliato dal sonno dogmatico, mi hanno liberato dall'innocenza culturale, mi hanno smosso dalla comoda posizione della Modernità europea, mi hanno aperto nuovi orizzonti epistemologici».
In questi tempi oscillanti tra una radicale cancel culture e una ferrea autodifesa nazionalistico-sovranista, una simile opera diventa una griglia critica che permette di identificare un diverso paradigma polimorfo, non solo teologico ma anche socio-culturale a noi poco noto o fin ignoto, così da essere consapevoli che non è solo l'Occidente tradizionale a credere, pensare, operare nella galassia cristiana.
Ci si trova, così, di fronte a una narrazione religiosa che rivela sfaccettature policromatiche, elaborate però attraverso alcuni fili resistenti comuni, che non sono solo semplicemente postcoloniali e quindi critici delle spiritualità egemoniche indotte, ma che rilevano una loro originalità, anche se spesso connotata da istanze appassionate e persino colorite. In questa luce il programma che Tamayo si propone va ben oltre l'asserita "decolonizzazione" del sottotitolo, ed è ciò che emerge nelle pagine generali di apertura, vera e propria chiave ermeneutica per inoltrarsi nella mappa geografica successiva.
Essa si articola secondo i continenti, a partire dall'Africa, una terra spogliata ad opera della colonizzazione non solo a livello di materie prime, ma anche della sua identità spirituale. In realtà essa si rivela un pluriverso religioso tradizionale autonomo che si è incontrato, confrontato e talora scontrato col cristianesimo. Con una straordinaria chiarezza e concretezza che rende il suo testo da destinare a un pubblico molto più vasto dell'hortus conclusus teologico, Tamayo riesce a identificare tutte le nervature ideologiche di questo mondo penetrando fin negli angoli meno noti. Ne citiamo solo uno, l'ubuntu, che è un concetto filosofico bantu capace di ordinare la società secondo un personalismo dialogico, per cui ogni individuo è portatore di un valore intrinseco e di una dignità che genera rispetto reciproco. La nostra proposta della "giustizia riparativa" è già insita in questa concezione che ha fatto da guida anche alla pacificazione in Sudafrica propugnata dal noto vescovo anglicano Desmond Tutu, dopo l'oscura epoca dell'apartheid.
Più ardua (ma il risultato è efficace) è stata la decifrazione di un altro pluriverso religioso, quello asiatico. Esso ha imboccato un paio di arterie tematiche fondamentali, la liberazione (e qui entra in scena quel rimando palestinese delineato in apertura, ma il ventaglio si allarga alle fedi musulmana, indù, buddhista, confuciana) e il dialogo interreligioso, a partire dalla definizione stessa della categoria basica "religione". Anche qui non mancano le ramificazioni lungo sentieri secondari, come il pensiero dalit, lo strato sociale indiano più basso e fuori casta, o la teologia coreana minjung, "popolo", ossia la folla degli oppressi, dei poveri e degli emarginati.
Il terzo continente è naturalmente quello latino-americano, forse il più affacciato sul nostro orizzonte, non solo a causa di papa Francesco, ma anche per il forte impatto che ebbe la teologia della liberazione dalle tante iridescenze, minuziosamente catalogate da Tamayo. Infatti, essa si è articolata in una fitta rete di traiettorie, talora un po' surriscaldate: basti evocare il dialogo col marxismo, la dialettica con la Curia romana, la decolonizzazione culturale, la rottura epistemologica e politica con la teologia europea. A questi percorsi se ne sono aggiunti altri, anch'essi effervescenti, come l'ecoteologia, l'approccio femmminista e queer, il contributo della cultura indigena e persino quella teo-poetica della liberazione che ha avuto i suoi alfieri in Ernesto Cardenal, Pedro Casaldaliga, Rubem Alves.
Tanto altro si scopre nel saggio di Tamayo, destinato a interessare vari ambiti che travalicano il perimetro teologico. Esemplare in questo senso – oltre a quanto abbiamo già segnalato – è la cosmovisione olistica del Sumak Kawsay, il "buon vivere" delle religioni indigene assunto nella riflessione teologica soprattutto sudamericana.
G. Ravasi, in
Il Sole 24 Ore 22 settembre 2024