Se il transumanesimo fa pensare alla nanogenetica e il postumanesimo al cyborg di Donna Haraway, agganciare al binomio come terzo termine la parola teologia non è così immediato. Per fare un po’ di chiarezza abbiamo chiesto al ricercatore e docente di teologia Cosimo Quaranta di dialogare con noi sulla sua ultima pubblicazione, Teologia nella postumanità, edita da Queriniana, editrice italiana di autori tra cui Ratzinger, Kasper, Moltmann.
Dopo un saggio sull’ascensione, lei torna a pubblicare, ma questa volta sul transumanesimo. Vuol dire che l’umanità è giunta a un traguardo definitivo?
Al contrario. Se il mio libro precedente, Pienezza, guardava verso l’alto – il cliché letterario dell’ascensione come simbolo di un’umanità elevata dalla potenza della comunione con Dio – questo nuovo lavoro guarda verso ciò che oggi anela e lotta per elevarsi da sé e con strumenti ben progettati. Il transumanesimo promette un superamento dei limiti umani attraverso la matematizzazione del reale ridotto a insieme di dati. E tutto questo lo fa in chiave immanente, abbassando al contingente l’anelito di trascendenza. Con Teologia nella postumanità ho voluto mettere in dialogo queste due visioni: l’autosuperamento tecnico e la vocazione alla pienezza cristiana. Non siamo a un traguardo definitivo, ma a un punto di svolta epocale.
Una svolta di cui dobbiamo preoccuparci? Siamo a un inizio o davanti alla fine?
Non mi piacciono gli estremi. L’esperienza ci insegna che la vita è poliedrica. Sebbene il postumano abbia a che fare con la teoria del Manifesto cyborg di Donna Haraway, il termine in sé non vuol dire mostruoso o fantascientifico. Significa che l’umanità sta cambiando profondamente. In particolare ciò che muta è la concezione di se stessi e del proprio destino. L’intelligenza artificiale, le biotecnologie e il digitale stanno trasformando il nostro modo di pensare il corpo, la mente e le relazioni. Postumano è un cosiddetto termine ombrello, un collettivo di più significati. Parliamo di “postumanità” quando l’uomo non è più visto come un dato fisso, ma come un progetto da potenziare, riprogrammare, magari anche “superare”. Il mio libro parte da qui e non per spaventare. Piuttosto per capire, per proporre un dialogo tra teorie post- o trans-human e pensiero antropologico e teologico.
Cosa può dire la teologia davanti a tutto questo?
Può dire molto, ma deve prima mettersi in ascolto. La tradizione cristiana ha sempre cercato di capire l’uomo e il suo destino. Già Agostino nel IV libro delle Confessioni parlava di sé come della più grande quaestio davanti a se stesso. Oggi l’uomo si interroga in modo nuovo sulla propria identità, il valore del corpo, il senso della morte e della vita. Il compito della teologia è offrire parole autentiche per domande che si rinnovano giorno per giorno. Questa, fedele al Vangelo, senza cedere al tecnicismo né al fondamentalismo, ricorda che il valore dell’essere umano non si misura in dati, prestazioni o algoritmi, ma nell’essere amati gratuitamente, chiamati, salvati. In fondo, il Vangelo parla proprio a uomini e donne concreti, gente di ogni tempo. E credo che sia un segno di questi tempi nuovi anche l’evento ecclesiale recente dell’elezione di Papa Leone XIV.
In che senso?
Il nome che ha scelto richiama il predecessore, Leone XIII, autore della Rerum Novarum, un testo spartiacque che seppe riconoscere l’urgenza per la riflessione teologica e per la testimonianza cristiana di abitare il mondo che cambiava rapidamente rimettendo al centro di tutto la carità (Rerum Novarum 45). Ebbene, quanto è denso di novità il tempo di oggi, già solo rispetto a qualche decennio fa? Le nuove tecnologie hanno accorciato le distanze, virtualizzato i rapporti, velocizzato gli scambi. In tutto questa rivoluzione storica quasi assicurano anche di poter “salvare”. Qui è il nodo della questione post- e transumana. Il desiderio di salvezza che ciascuna donna e uomo della terra portano dentro di sé. Salvezza come compimento e come assicurazione di vita piena.
Tornando al suo testo, quali sono i temi principali che affronta in esso?
Il libro è diviso in due parti. Nei primi tre capitoli analizzo i contesti culturali: l’epoca postumana, il ruolo della tecnica, i paradigmi di emergenza e di complessità, le nuove definizioni di postumano e la dematerializzazione di campi di esperienza fondamentali di vita. Tra i riferimenti teorici, filosofici e teologici principali ci sono la già citata Donna Haraway e poi Rosi Braidotti, Werner Heisenberg, Paolo Benanti, Mario Bracci, Giuseppe Tanzella Nitti e molti altri. Nei capitoli finali propongo una riflessione più propriamente agganciata al dato teologico: la vocazione come identità relazionale, l’agape come fondamento dell’etica, la speranza come orizzonte per un futuro autenticamente umano. Per questa seconda parte la base teologica è decisamente ecumenica, infatti lascio intrecciare e far reciprocamente illuminare teologhe e teologi ortodossi, riformati e cattolici.
Ecumenismo indotto dalla iperconnessione globale? Vuole fare un po’ tutti contenti?
Non direi. Piuttosto è avere ben chiaro che il fondamento del pensiero teologico è Cristo. Dunque se c’è una realtà umana che tocca tutti i fedeli in Cristo, in questo caso la rivoluzione del postumano, allora ci sono segni dei tempi che dobbiamo provare a cogliere tutti insieme. E tutti insieme significa: sinodalità, ascoltarsi tutti, ascoltare sia gli esperti, sia la base della società. Ascoltare tutti per cogliere che ciò che ci lega nel profondo è un comune anelito di felicità. Alcune istanze dei postumanesimi e dei transumanesimi contemporanei è proprio su un desiderio di felicità come realizzazione di pienezza che fanno presa nell’immaginario collettivo.
A quale immaginario collettivo fa riferimento?
Mi riferisco all’immaginario creato dalla produzione dei fumetti di supereroi nati a metà del secolo scorso, ma anche ai numerosi film da quelli fantascientifici a quelli distopici che possiamo guardare grazie a qualsiasi piattaforma di visione online. Ciò che essi raccontano dicono di un essere umano che non basta più a rendere ragione di se stesso. Pensiamo ad esempio ad alcuni dettagli che ci dicono il grado di postumanità delle idee di fondo: Robocop è un cyborg che può proteggere il prossimo perché ha una tecnologia aggiunta al corpo; Spiderman diventa un super-umano perché sono coinvolti i livelli dell’atomico e del genetico; la saga di Star Wars preconizza un futuro nel quale ciò che è terrestre non basterà più a dare salvezza, come accade per l’alieno Superman; la serie Black Mirror racconta futuri distopici nei quali la tecnologia avrà definitivamente soppiantato l’umano elementare e di natura. Tutto questo e molto altro contribuiscono a creare un immaginario collettivo secondo cui sia necessario dovere mettere in qualche modo un segno + davanti all’essere umano affinché acquisti senso.
Lei a chi si rivolge? Il suo è un libro per specialisti?
No. È scritto con rigore ma pensato per chiunque sia curioso: studenti, docenti, pensatori, educatori, credenti in ricerca, persone che si pongono domande sul futuro dell’umano. Chi guarda con interesse (e magari con inquietudine) ai temi del digitale, dell’IA, del corpo, troverà qui uno sguardo lucido e appassionato. È un libro che unisce filosofia, scienza, fede e prova a costruire ponti, non a chiudersi in linguaggi accademici.
Se dovesse riassumere tutto in una frase?
Il presente e il futuro dell’umano si decidono dall’amore con cui sappiamo guardare il prossimo. È un principio eminentemente evangelico eppure allo stesso tempo così laico ed eterno. Appartiene a tutte le culture. La fede cristiana, anche nell’era della postumanità, ha una importante parola da dire al mondo: non per spiegare tutto, ma per custodire il mistero della bellezza della vita. Anche – e soprattutto – in un tempo di grandi trasformazioni.
A Coppari, in
Quotidinao.net 16 giugno 2025