Il volume Teologia dell'ospitalità curato da Marco Dal Corso – docente invitato presso lo Studio Teologico "S. Zeno" di Verona e presso l'Istituto di Studi Ecumenici "S. Bernardino" di Venezia – raccoglie il lavoro pluriennale di un gruppo di teologi, pastori e laici impegnati ad «indagare la cifra dell'ospitalità come categoria teologica [...] capace di rispondere alle richieste dei segni dei tempi che viviamo» (p. 5). Il contesto che ha accolto l'impegno di tale ricerca è il rinomato Istituto di Studi Ecumenici di Venezia, dove la competenza accademica si nutre di feconde relazioni fraterne, primo inverarsi di uno sforzo teoretico, che tende a declinare con creatività l'inesauribile messaggio evangelico.
I quattrodici contributi dei tredici autori (doppia firma per Claudio Monge) si propongono di visitare quella che più volte viene denominata la "cifra" dell'ospitalità, riconosciuta come un elemento di prim'ordine per superare le secche di una teologia del dialogo troppo occupata a discutere sul delicato equilibrio tra inclusione o riconoscimento e tra identità o alterità. A giustificare l'importanza del lavoro, teso a proporre un nuovo paradigma, quello dell'ospitalità, appunto, alternativo alla teologia del dialogo, sarebbero delle ben precise urgenze – «perché abitiamo un mondo nuovo» (p. 6); «perché viviamo un momento di svolta» (p. 7); «perché continuare a pensare così reca danno» (p. 7); «perché c'èun'urgenza civile, politica e umanitaria» (p. 7) – qui identificate come risposte alla domanda fondamentale: «perché abbiamo bisogno di un nuovo paradigma?» (p. 6).
Dopo la breve Introduzione (p. 5-8), il primo contributo che si incontra è proprio quello di Marco Dal Corso, dal titolo "Per una cultura dell'ospitalità" (p. 9-20). L'autore richiama all'attenzione l'importanza del massiccio flusso migratorio di popoli, letto tra l'altro come una nuova parabola portatrice di senso (cfr. p. 11) in grado di invitare «a ripensare la storia dei popoli, lasciando la voce alle vittime che rivendicano di aver subito "il furto della storia" tutte le volte che la loro storia è raccontata dal punto di vista dei dominatori» (p. 11-12). Da qui l'esigenza di ripensare alla categoria di identità e ai processi che la determinano nell'epoca della globalizzazione, dove «lo straniero ritorna con tutto il suo protagonismo. Prima che rappresentare un problema per la mia identità, egli è stimolo per una convivenza sempre da riscrivere, aggiornare, arricchire» (p. 13). Non è quindi sostenibile la pretesa di costituire identità uniche o omogenee: oltre che un'illusione, sarebbe una grave perdita per l'umanità stessa. Ne viene la necessità di approfondire un'antropologia dell'ospitalità, in grado di «ri-significare il paradigma antropocentrico» a partire «da un diverso modo di stare nel mondo che possiamo esprimere con l'espressione "avere tutto senza possedere nulla". In discussione non è tanto la centralità dell'uomo, quanto il principio di appropriazione delle cose da parte sua» (p. 15). La centralità della gratuità che scaturisce da questa esperienza, aprirebbe all'accoglienza, al riconoscimento e alla restituzione, ovvero all'ospitalità come principio fondativo (p. 17) della nuova umanità, caratterizzata dall'agire comune «per la cura del mondo e per la convivenza con gli altri: non l'inospitalità, ma la cura, tipica della relazione ospitale» (p. 20). Potrebbe essere interessante sviluppare ulteriormente le intuizioni qui accennate facendo riferimento anche agli originali contributi di Peter Sloteraijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano 2010 (in particolare "La domesticazione dell'essere", p. 113-184) e di Michael Tommaselli, Unicamente umano. Storia naturale del pensiero. Il Mulino, Bologna 2014, con i loro tentativi di mostrare la centralità della relazione reciprocamente responsabile che caratterizza il divenire umano.
Il secondo contributo, dal titolo "Una semantica dell'ospitalità", è offerto da Claudio Monge (p. 21-36). L'intento dichiarato è di «riflettere sullo statuto dello straniero e, più precisamente, sul significato della "stranierità"», dato che «è la fragilità stessa del vivere che ci obbliga a prendere più seriamente in conto quella stranierità ontologica che ci caratterizza come uomini e donne in cerca di relazioni» (p. 21). Attento alla ricchezza semantica di hospes e di hostis, lo studio propone una rapida incursione in quella che viene qui definita lAntica Grecia (p. 23-26) e la Bibbia cristiana (p. 26-28) per evidenziare alcune delle ricchezze semantiche riguardo al tema della stranierità e dell'ospitalità. La presentazione si arricchisce di una breve presentazione del vocabolario coranico dell'ospitalità (p. 28-31). Da questo excursus lessicologico il lettore dovrebbe poter considerare «che c'è stato un certo mutamento semantico rispetto a una definizione più classica del termine che ne parlava come di una forma di liberalità esercitata alloggiando gratuitamente gli stranieri. Si potrebbe già aggiungere, alla liberalità del gesto, l'obbligo di un'apertura calorosa e incondizionata» (p. 35).
Il terzo contributo, firmato da Carmine Di Sante, si intitola "Per una teologia biblica dell'ospitalità. Statuto epistemologico ed etico" (p. 37-56). L'autore dichiara di voler indicare le coordinate «di una teologia ospitale dal punto di vista biblico» (p. 37), creando una curiosa e non tematizzata apertura alla questione posta nel titolo: la teologia dell'ospitalità calca con più forza sull'accentuazione soggettiva, diventando così la teologia ospitale. Facendo tesoro dell'incontro con Emmanuel Lévinas e di alcune delle sue più classiche categorie filosofiche, l'autore presenta un breve lessico biblico, con riferimento ai ben noti termini levinassiani, alterità, appello, responsabilità, autolimitazione, benedizione (cfr. p. 39-44). L'apporto più originale della proposta è però da riconoscersi nel tentativo di individuare quello che qui viene denominato «il racconto fondativo dell'ospitalità» (cfr. p. 44-50) e il passaggio successivo verso un «racconto rifondativo dell'ospitalità» (p. 50-55). Se a fondare l'ospitalità biblica è la consapevolezza che Israele matura di essere stato accolto dalla gratuita benevolenza di Dio, Signore unico della terra, la rifondazione si inscrive in quella particolare ermeneutica biblica che, nel non voler contrapporre i due Testamenti, li legge in chiave di «ricostituzione o reintegrazione. In questo senso quindi il racconto neotestamentario è da intendersi come racconto rifondativo del racconto fondativo d'Israele» (p. 50-51). Se il Nuovo Testamento è da leggersi come il racconto «rifondativo del racconto fondativo di Israele» (p. 51), ecco la necessità di individuare alcune chiavi interpretative per sostenere tale approccio ai due Testamenti. La proposta di una rifondazione dell'ospitalità nella morte redentrice di Gesù, come suggerisce l'Autore, è sicuramente stimolante, tuttavia lascia un po' perplessi la proposta ermeneutica che la legittima. Qui, a ben guardare, nel voler sottolineare la necessità di una grazia redentrice che renda possibile una più piena ospitalità, si recide alla radice l'ospitalità stessa, proprio nel momento in cui l'esperienza religiosa e culturale dell'altro la si pensi bisognosa, in qualche modo, di venire rifondata a partire da una successiva esperienza che si definisce – anche se non in modo esplicito – risolutiva del presunto fallimento della precedente. Se si dovesse giustificare tale prospettiva ermeneutica, bisognerebbe attendersi una nuova rifondazione della narrazione rifondativa, dal momento che «l'abisso della libertà umana, più che di ospitalità» (p. 56) continua a essere testimone di inospitalità.
Francesco Capretti, con il suo "Il dialogo cristiano-ebraico in ottica ospitale" (p. 57-75), invita a «invertire lo sguardo» (p. 57) in modo così coraggioso da poter ammettere che non c'è mai stato un vero dialogo cristiano-ebraico. Anzi, per essere sinceri, bisognerebbe parlare di «anti-paradigma dialogico dell'ospitalità» (p. 57). Acutamente però l'Autore fa notare come proprio questo contesto di non dialogo sia stato anche il luogo dove è maturata una nuova consapevolezza che ha permesso al cristianesimo di riconoscere che la propria identità non può prescindere dalla tradizione ebraica. Se tale acquisizione non coincide ancora con il concetto di dialogo, può per lo meno far guadagnare in chiarezza rispetto a «cosa significhi essere ospitati nuovamente nella casa di Israele [e] che il primo apparire del cristianesimo è stato un moto ospitale nei suoi confronti. Più tardi l'ospite sarebbe diventato il padrone» (p. 57-58). Di seguito vengono presentate alcune tappe fondamentali che hanno caratterizzato il passaggio dalla così detta teologia della sostituzione al nuovo paradigma (cfr. p. 58-64); l'excursus si arricchisce di un approfondimento della teologia della sostituzione (cfr. p. 65-68) per approdare a indicare «una prospettiva teologica sull'ospitalità» (p. 68-75). Il contributo convince nel suo ricordare al cristianesimo il suo essere costitutivamente nato dall'ospitalità di un altro e che in questa prospettiva «esercitare l'ospitalità [...] significa sempre ricordarsi che noi siamo nati "gentili" e che la prima esperienza religiosa che abbiamo fatto è stata quelle di essere entrati e quindi ospitati sacramentalmente, nella comunità cristiana [...] senza l'Alleanza perenne garantita ad Israele, semplicemente noi resteremmo stranieri senza patria e senza Dio» (p. 75).
Il quinto contributo, del compianto prof. Placido Sgroi, dal titolo "Per un'etica come ospitalità" (p. 77-91), apre il sipario intellettuale su di una presentazione dell'ospitalità assai acuta ed originale. L'intuizione, qui tematizzata alla luce di Jacques Derrida e di Emmanuel Lévinas, ritiene che l'ospitalità non debba essere intesa semplicemente come una delle questioni filosofiche o etiche, quanto piuttosto come il fondamento stesso dell'etica. In altri termini, non è pensabile né attuabile un'etica che non si concepisca di per sé come teoria e prassi dell'ospitalità. Tale ospitalità deve conservare la logica paradossale di cui già parlava Derrida (qui citato con riferimento a J. Derrida-A. Dufourmantelle, Sull'ospitalità, Baldini e Castoldi, Milano 2000, che rende conto solo di una piccola parte dei due seminari che Derrida dedicò al tema dell'ospitalità) e qui ben richiamata dai titoli dei paragrafi: "il paradosso dell'ospitato: quanto diverso e quanto simile?" (cfr. p. 79); "il paradosso della legge dell'ospitalità" (cfr. p. 80-81); "il paradosso dell'ospitante" (cfr. p. 81). L'analisi dell'identità ospitale che ne segue, conduce l'Autore a constatare con tristezza che non solo la prassi, ma la stessa giurisprudenza e l'esercizio politico testimoniano la drammatica perdita del senso di ospitalità e, nel suo rifiuto, del «rifiuto del modo di essere che l'ospitalità annuncia. In questo caso si tratterebbe non solo di un fatto giuridico o politico, ma di un fatto antropologico: la testimonianza di quello che siamo diventati (o che stiamo diventando); questo è il rischio maggiore che essa contiene, una contro-rivoluzione antropologica, purtroppo pienamente post-moderna» (p. 83). Si tratta di contro-rivoluzione perché, nel momento in cui si rinunciasse a fare i conti con la dimensione dell'ospitalità, ne andrebbe dell'umano stesso, la cui individualità dipende dall'ospitalità: «io non sono quel che sono, un fatto bruto, ma sono ciò che sono disposto a diventare nella complessa relazione con l'altro di cui l'ospitalità è traccia. La nostra identità non è un fatto, è un compito, un compito morale. Vivere non è un accadimento casuale, è rispondere ad un appello, è appunto aprire la porta all'ospite, lasciarsi inquietare dalla tensione fra diritto e giustizia, ma trovare anche nell'accoglienza dell'ospite il senso di benedizione della nostra vita» (p. 84). Si viene a palesare quanto Derrida – riferimento costante del nostro Autore – evocava con l'espressione «gioco delle sostituzioni» (p. 85), ovvero quella reciprocità che fa dell'ospite, l'ospite del suo ospite: «chi riceve ospitalità la dà, chi dà ospitalità la riceve, non ci sarebbe ospitalità se l'ospitante non trovasse un ospite disposto a farsi ospitare [...]. L'ospitalità è un'esperienza di riconoscimento reciproco» (p. 85) che trova nella cura l'atteggiamento più adeguato «a descrivere la conseguenza dell'ospitalità pratica» (p. 87). Sarà proprio nel prendersi cura dell'altro che si scamperà il rischio di reiterare qualche forma di imperialismo etico o, dall'altra parte, di quel relativismo che altro non è se non una declinazione all'infinito del proprio egoismo (cfr. p. 87-89). L'intuizione di Sgroi, tentativo ben riuscito di rileggere Jacques Derrida e Emmanuel Lévinas, potrebbe essere ulteriormente fecondato proprio dalla Filosofia della cura di Luigina Mortati e dall'ormai classico – ma qui non considerato – Percorsi del riconoscimento di Paul Ricoeur.
Con il sesto contributo, proposto da Guido Dotti, il lettore è invitato a soffermarsi a considerare la così detta "Spiritualità dell'ospitalità" (p. 93-100). Dopo aver evocato la storica caduta del muro di Berlino del 1989, l'Autore deve constatare con amarezza l'inesausta tendenza a stabilire, in molti modi, confini, separazioni, muri tra gli individui e le culture, così da determinare chiaramente un dentro e un fuori, un noi e un loro. Da qui le domande – «come interpretare questo imbarbarimento? Come leggerlo alla luce della Scrittura e come reagirvi a partire dalla comune appartenenza all'umanità?» (p. 94) – che guidano la selezione di alcune immagini bibliche evocate come spunti per una narrazione che racconti dell'importanza di giungere a consapevolezza della radicale condizione umana, la quale porterebbe con sé l'esigenza di un amore ricevuto e condiviso. Da notare il tentativo dell'Autore di leggere l'attuale situazione – un po' troppo velocemente connotata come figlia del tempo – a partire dalla Scrittura, la quale, a sua volta, non può che essere letta che a partire dalla duplice precomprensione: quella del particolare giudizio dato alla società e quella che sostiene di poter-dover interpretare-reagire a questa situazione partendo dalla Scrittura. A questo punto il lettore avrà conferma che qui non si fa altro che costruire una narrazione ad hoc, da intrecciare con l'altro caposaldo del contributo, ovvero il riferimento al capitolo 53 delle Regola di Benedetto (cfr. p. 98-99), in modo da riproporre la centralità del comandamento dell'amore espresso in Mt 7,12. La narrazione ribadisce che accogliere l'ospite come Cristo stesso, è possibile perché precedentemente si è già stati accolti «e così facendo, si accoglie al contempo la misericordia di Dio che ci invita» (p. 99). A questo punto, forse, vale la pena di notare un aspetto metodologicamente non trascurabile. Se si ritiene opportuno costruire una narrazione per sostenere e alimentare una spiritualità (e se qui non abbiamo l'opportunità di soffermarci ulteriormente a chiarire i termini, non significa che questi debbano essere dati così per scontati), non è trascurabile porre attenzione al "materiale" di costruzione e alla modalità del suo impiego. Quando ci si riferisce alla Regola di Benedetto – come avviene in questo caso – si ha chiara la consapevolezza che non si tratta unicamente di un testo giuridico, ma anche di una narrazione costruita con diverso materiale e con la quale si racconta un'esperienza di vita che diviene forma, norma, professione. Se qui ci si trova di fronte ad un testo arte-fatto, fatto ad arte partendo da altri testi, la narrazione che si genera, interpreta un vissuto e lo restituisce come possibilità. Da qui la legittimità di rifarsi a quella narrazione – nel presente caso quella del capitolo 53 – per ritrovarvi quegli elementi per articolare una spiritualità. Quanto, invece, alla narrazione biblica qui proposta, si dovrebbe per lo meno verificare se il metodo adottato stia rileggendo in modo ospitale il testo o se, piuttosto, lo stia usando per la realizzazione di una nuova narrazione, gesto in sé pertinente, purché per lo meno racconti – nella forma descrittiva e performativa – un vissuto, come nel caso della menzionata Regola o se ne dichiari chiaramente la metodologia scelta.
Faustino Teixeira è l'autore del settimo contributo, dal titolo "Per una mistica interreligiosa ospitale" (p. 101-119), accompagnato da un approfondimento su "La lezione dei mistici" di Suzana Macedo (p. 119-125). Teixeira, mentre afferma che l'intolleranza è figlia della «difficoltà nel fare i conti con il fenomeno della differenza» (p. 101), addita nel dialogo e nell'ospitalità «la sfida più importane di questo secolo XXI» (p. 101); dialogo e ospitalità da pensare «oltre lo spettro dell'antropocentrismo, in maniera da coinvolgere nel ritmo dell'esistenza coloro che sono diversi e anche le specie amiche» (p. 101). Queste, quindi, le linee guida della riflessione dell'Autore, di cui è bene notare almeno i tratti fondamentali. Posta la mutua relazione tra ospitalità e dialogo (cfr. p. 103), è importante specificare che il dialogo richiede un'accoglienza dell'altro nella sua reale alterità, quindi un riconoscere e legittimare l'altro e la sua diversità. Se è immediatamente condivisibile riconoscere il valore dell'altra persona, la questione diviene più complessa quando – come fa notare con acutezza l'Autore – si tratta di incontrare l'altrocon un'altra religione. Qui è bene ricordare che «quella del dialogo è una proposta che supera la visione tradizionale e maggiormente diffusa secondo la quale la propria religione è l'unica vera religione e le altre tradizioni non sono altro che espressione limitata del divino o al massimo un'anticipazione, un segno di preparazione» (p. 104). Una vera ospitalità dialogante non può venire meno all'esigenza di riconoscere, affermare e custodire la dignità e la singolarità dell'altro (cfr. p. 105). Ciò è possibile nel momento in cui si riconosce il valore sacro dell'altro e si confessa che «l'altro è portatore di un patrimonio religioso che non può essere relativizzato o minimizzato» (p. 105); dall'altra parte tale accoglienza «presuppone di rompere i residui di ostilità che sono sempre impliciti negli atti umani» (p. 108). Qui l'Autore intercetta due aspetti di notevole importanza e potenzialmente in grado di offrire un valido contributo per l'auspicata teologia dell'ospitalità: l'aver riconosciuto che la verità, il mistero della vita, il suo senso, non si possono esaurire in una sola determinazione, quand'anche si trattasse di una determinazione religiosa. E, in secondo luogo, il riferimento ad un dato antropologico non trascurabile che riconosce che vi è un'umana tendenza alla conflittualità, alla chiusura o all'ostilità che affonda le radici non in qualche acuta convinzione, quanto piuttosto in un profondo senso di fragilità.
L'altro orizzonte sul quale si affacciano l'ospitalità e il dialogo è quello del mondo naturale non-umano. Come è necessario accogliere senza riserve il dirsi dell'altro nella sua particolare determinazione culturale o religiosa, similmente è ora urgente rompere con quelle separazioni, ancora troppo rigide, tra vita sociale umana e vita naturale. L'Autore promuove la causa di un'antropologia oltre l'umano, che rinunci definitivamente all'eccezionalità "uomo", per dare spazio ad un nuovo concetto di "noi", «non più ristretto alla sola sfera dell'essere umano», ma in grado anche di comprendere la «valenza sostantiva» (p. 114) dell'ambiente che lo circonda. Suggestivo l'invito ad «abitare spiritualmente la terra» (p. 116-118), guardandola con senso di meraviglia e cercando di coltivare nuove forme di venerazione per la vita; tuttavia la proposta rimane lacunosa. Nell'ottica di un dialogo ospitale, non sarebbe altresì necessario fare riferimento ad esso, incondizionatamente, anche quando ci si impegna in un confronto con visioni antropologiche o ecologiche differenti? Che fine ha fatto l'accoglienza rispettosa dell'altro? La questione è delicata e provocatoria. Da una parte, è come se si evidenziasseun limite interno alla possibilità di poter accogliere l'altro, dal momento che in certe circostanze si potrebbe insinuare la presunzione di giudicare e di dire che il suo modello o il suo paradigma antropologico/ecologico/politico sono inadeguati; dall'altra, qui vi è sottesa la grande provocazione che consiste nel provare a pensare ad un abitare la terra che sia in grado di tenere conto delle polarità che, se pur tese verso nuovi equilibri, non possono essere ingenuamente smantellate e sostituite. Alla luce dell'ospitalità non è forse importante pensare ad una prassi dove le summenzionate prospettive antropologiche – come veniva auspicato per le diverse esperienze religiose – dialoghino rispettosamente tra loro? Ogni paradigma antropologico che si pensa risolutivo è in sé contradditorio rispetto all'ospitalità e al dialogo.
Il capitolo settimo è arricchito dal riferimento ad alcuni mistici che sono entrati in relazione con il mondo musulmano (cfr. p. 119-122) e con altre tradizioni religiose (cfr. p. 122-125). Anche in questo contributo, come in quello precedente e in quello del capitolo sesto dedicato alla spiritualità, non si specifica cosa si intenda per mistica, limitandosi ad introdurre il succinto accenno a Charles de Foucauld, Louis Massignon, Ben Abd-el-Jalil, George Anawaiti e Christian de Chergé, con una critica alla contemporaneità, qui ritenuta caratterizzata da relazioni interpersonali fluide e dominata dai mass media. Al lettore il compito di individuare il nesso tra il termine mistica, la considerazione sul tempo presente e il riferimento alle figure paradigmatiche di modelli di ospitalità così declinati: ospitalità dell'incontro, ospitalità mistica, ospitalità comprensiva, ospitalità interculturale, ospitalità esistenziale.
Un secondo gruppo di «grandi mistici contemporanei quali Henri Le Saux, Raimon Panikkar, Simone Weil, Thomas Merton, Ernesto Cardenal e ancora Teilhard de Chardin viene qui presentato soprattutto per il suo «carattere dialogante» (p. 122). Lo scopo «del racconto della vita e delle opere di questi mistici» (p. 125) dovrebbe essere quello di offrire «le note di una spiritualità dialogica capace di alimentare la cultura e la teologia dell'ospitalità» (p. 125). La prospettiva di lavoro, sicuramente suggestiva e promettente, potrà beneficiare di una lettura più critica e meno predeterminata dall'intenzione pregressa di trovare, in questi racconti di vita, esemplificazioni di concetti confezionati altrove.
Il capitolo ottavo – "Pratica ecumenica ospitale" (p. 127-144) – rappresenta un interessante tentativo di confronto con tre esperienze dove l'ospitalità vissuta è messa in relazione con la riflessione, offrendo in tal modo un originale contributo che renda ragione dell'antico adagio con cui si invoca la circolarità tra lex orandi, lex credendi, lex vivendi (cfr. p. 136). La prima di queste testimonianze è offerta da don Giuliano Savina, responsabile di una Comunità Parrocchiale, in Zona Greco a Milano; il titolo proposto per rileggere la sua esperienza pastorale recita: "A Milano. Il mistero di una cristiana comunità ospitale: digressione su una deformazione trasfigurante" (p. 127-135). Curiosamente, tutto il testo è racchiuso sotto il titolo di un solo paragrafo: "Prolegomeni". Se Karl Barth introduceva la sua Kirchliche Dogmatik con i famosi "Prolegomena", qui possiamo supporre che si tratti di indicazioni che giustifichino e rendano possibile una nuova forma di riflessione teologica. Se non è dato di sapere dell'intenzionalità o meno all'allusione, resta il fatto che qui si evoca una teologia che consideri la vita ecclesiale– pensata attraverso il prisma interpretativo Ai Atti 15,1-29 – come imprescindibile luogo dove si forgia e si vive la teologia stessa. Tale prospettiva è teorico-pratica insieme, perché la comunità a cui si fa riferimento è quella della zona Greco di Milano che, proprio nella sua pluriforme ricchezza culturale, religiosa, sociale, chiede di lasciare che l'esperienza cristiana avvenga nella forma dell'ospitalità. Questa riverbera la sua forza trasformante, arricchendo nel contempo sia la stessa professione di fede, che il contesto socio-culturale, come testimoniano chiaramente le iniziative messe in atto, quali il ben noto Refettorio Ambrosiano, La palazzina Oikos e l'esperienza di condivisione delle strutture parrocchiali con le chiese cristiane presenti sul territorio.
La seconda testimonianza è offerta da Giovanni De Robertis, direttore della Fondazione Mìgrantes e presbitero di una Comunità cristiana della città di Bari, di cui qui racconta l'esperienza raccolta sotto il titolo "Ospitalità: dalla diakonia all'ekklésia e ritorno" (p. 135-139). L'intenzione dichiarata nel titolo di mostrare come la pratica dell'ospitalità costruisca un'immagine – ma possiamo anche aggiungere, un'identità – di Chiesa particolare, viene esplicitata con il riferimento alla realizzazione di quel centro abitativo per accogliere ragazzi stranieri senza dimora che, da lì a poco, prenderà il nome di Le Querce di Mamre. Mettendo in atto l'invito di papa Francesco, la Comunità Parrocchiale si era impegnata a prendere in affitto una casa per l'accoglienza: questo gesto viene riconosciuto fondamentale per la realizzazione di ciò che è la Chiesa.
La terza e ultima testimonianza è resa da Anna Urbani (seconda e ultima donna seduta al tavolo di questo folto numero di ricercatori), membro del comitato direttivo del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE), che si focalizza sul "Praticare l'ospitalità per ampliare il dialogo" (p. 140-144). Qui si fa riferimento all'attività del SAE e alle sue due regole fondamentali che caratterizzano gli incontri, vissuti in clima di condivisione e di preghiera. La prima regola recita: «dare la parola all'altro/a e non parlare dell'altro/a» (p. 141); mentre «la regola numero due dice di ricercare la serietà e l'onestà intellettuale, privilegiando l'esperienza dell'incontro incarnato. Un'esperienza di fraternità che non nasconde le differenze e le divergenze» (p. 141).
Claudio Monge è autore anche del nono contributo, dal titolo "L'ospitalità come paradigma. Note di una teologia del pluralismo religioso" (p. 145-158). L'Autore introduce la propria proposta affermando che «la riflessione sull'ospitalità non può restare a un livello delle pratiche e della morale da una parte, o delle categorie politiche del giuridico dall'altra. Così facendo, perderemmo completamente il carattere sacro di questa consuetudine ancestrale e dei temi ad essa connessi. C'è un livello alto, sublime ma nello stesso tempo quotidiano, dell'ospitalità che rappresenta un po' il "carattere ontologico di questa pratica": è la dimensione teologale del suo svolgersi» (p. 145). Alle tre religioni abramitiche viene qui riconosciuto, come uno dei loro tratti fondamentali, quello di «una pratica teorico-simbolica dell'ospitalità del divino» (p. 145) che permetterebbe di «interrogare l'ospitalità come cifra paradigmatica per una teologia del dialogo interreligioso» (p. 146). Se, come più volte emerso nei vari contributi, nel «nuovo clima culturale caratterizzato da un pluralismo di fatto, di culture e di fedi» (p. 146) è necessario praticare l'ospitalità, non si può rinunciare nemmeno a interrogarsi per «capire il ruolo delle religioni nel piano di Dio» (p. 146). Per non ricadere nelle strettoie della dialettica inclusivismo-esclusivismo, l'autore addita nel paradosso dell'incarnazione l’«evento da cui far sgorgare una attitudine dialogale. Il cristiano non può che riconoscere l'importanza del dialogo perché Gesù Cristo stesso nell'incarnazione è l'uomo che nella sua particolarità storica rende presente la rivelazione del Verbo» (p. 147). È diffìcile non leggere in questa affermazione una velata eteronomia che, di fatto, non aggiungerebbe nulla di più a quell'ospitalità vissuta, morale, politica o giuridica che sia: la vera sfida è ospitare l'altro, nel valore che èin sé, indipendentemente da altre istanze che ne esigano o ne giustifichino l'urgenza. La proposta si fa più stimolante quando l'Autore recupera la ben nota espressione del gesuita tedesco, Christoph Theobald – cristianesimo come stile (con riferimento all'opera ormai classica Le christianisme comme style. Une manière de faire théologie en postmodernité, Cerf, Paris 2007) – per indicare la necessità di «associare la forma al contenuto, il messaggio al modo di vivere», aggiungendo subito dopo che «si deve considerare il fatto che le religioni comportano un modo di abitare il mondo, suggeriscono uno stile di vita e non esprimono solo delle regole astratte che implicano una comprensione semplicemente teorica ed estetizzante del reale» (p. 152). In effetti, le religioni offrono quelle narrative – a volte da rivedere e accordare con le istanze del tempo – assai utili per interpretare il senso della vita e il modo di abitare l'esistenza. In questo senso il cristianesimo avrebbe in sé, come elemento costitutivo imprescindibile, questa tensione all'ospitalità della verità che si fa incontro; «questa verità di Dio che ci supera» e che costituisce «una possibilità di incontro dell'altro, con le sue proprie intuizioni della stessa verità, intuizioni delle quali io ho bisogno per avvicinarmi a mia volta ulteriormente all'unica verità che ci fonde tutti e due» (p. 157).
Brunetto Salvarani firma il decimo capitolo, dal titolo "L'ospitalità come sfida. Suggestioni in vista di una teologia pubblica" (p. 159-178). Il punto di partenza è «la sensazione che non si dia, attualmente, una teologia pubblica all'altezza della situazione e dei tempi», da qui la dichiarazione di intenti: «fornire alcune (prime) suggestioni in vista di una teologia pubblica plausibile, assumendo come sfondo integratore la sfida dell'ospitalità» (p. 162). A margine, sarà interessante verificare – ma di fatto qui di ciò non se ne dà conto – come articolare le tensioni che si vengono a creare proprio attorno all'ospitalità, collocata come: sfondo integratore, istanza fondamentale, cifra del cristianesimo, elemento fondativo e giustificativo dell'etica, ecc. Nel riprendere l'esposizione di Salvarani si è da lui condotti ad una descrizione del fare teologia oggi in Italia (cfr. p. 162-167): qui non si rende ragione né dei metodi né delle eventuali prospettive teologiche che caratterizzano il contesto italiano. La forza del discorso sta quasi tutta nel deplorare l'attuale situazione di marginalità della teologia rispetto allo scenario culturale, sociale e politico: ciò dovrebbe condurre a recuperare quel coraggio intellettuale che permetta di stare di fronte – citando papa Francesco – «a un cambio d'epoca, percui [...] è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nelle restaurazioni di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. Occorre coraggio» (p. 166-167). Il coraggio apre ad una dimensione pubblica e sociale, dove la teologia ha modo di acquisire l’habitus di frequentare quelle che qui vengono denominate – con un'espressione un po' infelice – «le esteriorità del sapere» (p. 169). Ciò non è ancora sufficiente: il coraggio si dovrebbe presto trasformare in «un radicale ripensamento del curricolo teologico, della sua importazione e della sua destinazione» (p. 169); da qui l'urgenza di «ideare percorsi progettuali a lungo termine, in grado di convocare intorno a questioni specifiche, attuali e trasversali alle diverse discipline del sapere, che consentono di sbloccare la condizione delle teologie dallo stallo in cui esse si trovano in questo momento» (p. 170).
La questione, importante e urgente, richiederà approfondimenti ulteriori che mettano a tema un'adeguata metodica teologica, per chiarire le intenzioni e le finalità, per evitare una rinnovata apologetica o, al meglio, una riaggiornata riduzione delle discipline alla teologia o, peggio ancora, a un aggiornamento del Conflitto delle Facoltà di kantiana memoria, con la variante che la funzione censoria venga esercitata proprio dalla stessa teologia. La prima grande sfida sarà dunque quella di elaborare modelli di pensiero in grado di legittimare anche la teologia, così come altre forme di sapere, senza che questa presuma di dover dire una parola definitiva di quella che si articola nel dialogo che caratterizza il pensiero critico.
L'Autore, da parte sua, indica quattro prospettive di teologia pubblica: una prospettiva epistemologica (cfr. p. 171-172), una prospettiva metodologica (cfr. p. 172-173); una prospettiva politica (cfr. p. 173-174) e, infine, una prospettiva macroecumenica (cfr. p. 174-176). Conclude la presentazione il riferimento a quattro principi ricavati da Evangelii gaudium «che dovrebbero orientare specificatamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costituzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino» (p. 176). Riletti con Christoph Theobald, inviterebbero ad «attivare il potenziale critico-contemplativo della teologia» (p. 177).
L'undicesimo e ultimo contributo è offerto da Stefano Cavalli, con il suo "Impronta francescana sull'ospitalità" (p. 179-186). L'Autore «intende indicare alcune linee importanti dell'impronta francescana sul tema» (p. 179) dell'ospitalità. Il percorso si articola in tre tappe scandite da altrettanti momenti della biografia di San Francesco d'Assisi: l'incontro con il lebbroso, con riferimento a Vita prima di Tommaso da Celano, capitolo settimo, letto alla luce di Vita seconda di Tommaso da Celano, capitolo cinque e del Testamento di Francesco (cfr. p. 179-181). La seconda tappa (cfr. p. 182-183) fa riferimento all'ospitalità che Francesco riserva ai primi compagni, letta alla luce del Testamento e della Vita seconda, capitolo decimo. Infine, terza tappa (cfr. p. 183-184), il rimando al suggestivo episodio dei briganti di Montecasale, narrato dalla così detta Compilazione di Assisi. Il contributo, apprezzabile per la sua linearità e chiarezza, giunge a conclusioni interessanti quando tenta di tematizzare l'origine motivazionale dell'ospitalità in Francesco di Assisi. Per far ciò è necessario leggere il capitolo settimo della Regola non Bollata, dove si danno indicazioni che devono caratterizzare il modo di comportarsi del frate minore – «e chiunque verrà da loro, amico o avversario, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà. E ovunque sono i frati e in qualunque luogo si incontreranno, debbano vedersi con occhio spirituale e con amore» (RnB, 7, qui p. 185). Ciò che giustamente fa notare l'Autore, è il nesso tra questo stile e la scelta della povertà: «la povertà scelta da san Francesco, per imitare Cristo che "per noi si è fatto povero in questo mondo" può essere, a mio avviso, considerata la base su cui poggia l'ospitalità offerta (accoglienza verso tutti indistintamente) e ricevuta [...]. Quella povertà che dice il non volersi appropriare di nulla per poter essere libero di incontrare tutti» (p. 185). Si giunge in tal modo ad uno degli elementi più attuali dell'esperienza carismatica di Francesco di Assisi.
Nelle "Conclusioni" (p. 187-200) vengono richiamati alcuni degli aspetti più significativi dei singoli contributi, ponendo particolare attenzione alla questione del paradisa ospitalità (cfr. p. 188-190); alla necessità di un rinnovamento della teologia interreligiosa dal punto di vista dell'ospitalità (cfr. p. 190-191); a tre declinazioni confessionali dell'ospitalità: ebraica (cfr. p. 191-193), mussulmana (cfr. p. 193-195) e, infine, cristiana (cfr. 196-197). La vera sfida, ribadita per ricapitolare il ricco percorso fin qui fatto, sta nel cercare di «capire [...] il ruolo delle religioni nel piano di Dio che ha parlato [...] "molte volte e in diversi modi". La verità di Dio, cioè, non si esaurisce nell'esperienza storica di Gesù» (p. 197-198). Saggiamente, il pluralismo religioso viene letto come segno di una ricchezza irriducibile ad una singola tradizione religiosa: da qui l'esigenza di coltivare quella pratica di ospitalità impegnata in un dialogo che «non produce un compromesso tra i contenuti, neppure si pone obiettivi a priori» (p. 198), questo perché lo scopo qui ribadito dell'ospitalità è quello di generare «un tempo e uno spazio dove il divino può manifestarsi» (p. 198). Nella misura in cui tale prospettiva riesce a generare «processi a cui tutti possono e sono invitati a partecipare» (p. 198) si attua la tanto auspicata «valenza pubblica» (p. 198) della teologia.
«Tessendo le fila del discorso», la conclusione ricorda "quello che è" il nuovo pensiero elencando un settenario che declina il fare della teologia dell'ospitalità: a) supera il paradigma greco identitario e assume quello biblico dell'alterità; b) promuove l'ospitalità come paradigma del dialogo interreligioso; c) rivisita i trattati teologici e le rappresentazioni di Dio; d) diventa discorso pubblico; e) suscita il proto-scisma; f ) propone l'ospitalità come etica; g) accoglie le pratiche dal basso (p. 198-200). Chiude il volume l'elenco degli autori con una loro breve descrizione bio-bibliografica (p. 201-204), un indice dei nomi (p. 205-208) e l'indice generale (p. 209-212).
Sicuramente, il testo merita una certa attenzione, sia per la tematica problematizzata, sia per il tentativo di porre la questione all'interno di un seminario di ricerca; da verificare se l'esito sia l'elaborazione di una vera teologia dell'ospitalità o, piuttosto, la raccolta di contributi per una teologia dell'ospitalità. In effetti il volume, conservando la ricchezza della raccolta di saggi, fa sperare in una tappa ulteriore di ricerca che possa permettere una vera e propria elaborazione di una teologia dell'ospitalità. Questa, per essere pubblica, dovrebbe tentare di fondare teoricamente un'apertura incondizionata e impossibile all'altro, come "cifra" – per usare un termine qui molto caro – del paradigma interpretativo cristiano. Così facendo dovrà accettare di confrontarsi con altri paradigmi di ospitalità, detti altrimenti e indipendentemente dalla narrazione teologica; ciò potrebbe trovare la sua condizione di possibilità in un'istanza pratica, ovvero nella tensione verso la cura vicendevole dell'umanità. In questo senso non sarebbe da trascurare il fecondo magistero della Costituzione Pastorale Gaudium et Spes del Concilio Ecumenico Vaticano II, dove, più volte, si auspica una Chiesa capace di mettersi in cammino con l'Umanità, in vista del bene.
Tra gli aspetti più fragili del testo, vi è sicuramente la mancata chiarificazione di alcuni termini più volte utilizzati, ma mai tematizzati, come per esempio quelli di spiritualità e mistica. Inoltre, è da notare con piacevole curiosità la posizione della parola ospitalità nei titoli dei singoli contributi: si passa dall'etica come ospitalità, all’ospitalità come paradigma o come sfida o, ancora, alla spiritualità dell'ospitalità. La diversa funzione nella frase, inevitabilmente, attesta sfumature di comprensione e riconoscimento di importanza differenti: è diverso ritenere che non vi è etica se non a partire dall'ospitalità o che vi sia una spiritualità dell'ospitalità, accanto ad esempio alla spiritualità del lavoro. Ciò a testimonianza, forse, di un lavoro che non si è voluto preoccupare di giungere a elaborare una teologia dell'ospitalità, quanto piuttosto a esercitarsi nell'ospitare diverse prospettive. Forse, anche perché per poter elaborare una teologia dell’ospitalità – che valorizzi la doppia valenza del genitivo – come "cifra" della teologia o come «nuovo modo di pensare, di fare e di praticare la teologia» (p. 190), che consideri l'ospitalità non solo come un tema o «una categoria euristica ed ermeneutica» quanto piuttosto una vera e propria «forma di elaborazione della teologia» (L.C. Susin, Teologia: un'ermeneutica per un futuro comune, in Concilium 1 (2016), 77, qui citato a p. 5), è necessario non trascurare di confrontarsi proprio con ciò che qui passa in secondo piano, ovvero tematizzare cosa significhi fare teologia e quale possa essere il fondamento epistemologico che regga tale articolazione. Tale riflessione previa permetterebbe di chiarire se si tratta di uno dei genitivi della teologia (teologia della croce, della speranza, della liberazione, femminista, politica, ecc.) o, appunto, di un nuovo modo di fare teologia.
Infine, è da notare un approccio un po' discutibile al testo della Scrittura, qui accostata più per attingere "materiale" per la costruzione narrativa di una storia la cui trama sembra pensata altrove: una lettura più testuale dei racconti biblici metterebbe in evidenza contraddittorietà e sfumature che potrebbero fecondare maggiormente le intenzioni del teologo desideroso di mostrare l'urgenza di una pratica ospitale.
A. Bizzozero, in
Antonianum 3/2020, 753-768