Adimostrazione di quanto sia complesso il tema, basta dire che nell’ebraico biblico, una lingua di soli 5750 vocaboli (l’italiano moderno ne ha 250 mila), i verbi che significano perdonare nelle sue diverse sfaccettature sono otto. In tedesco si distingue vergeben (il perdonare in senso spirituale) da verzeihen (perdonare gli altri), come scrive Andreas Unger, autore dell’inchiesta giornalistica Sulle tracce del perdono (Queriniana, 2022), che lo ha portato a incontrare vittime e parenti che hanno dovuto fare i conti con questi verbi. Ha raccolto le testimonianze di una donna violentata dal marito; di Martina Frason, che da adulta ha voluto incontrare la madre naturale che l’aveva abbandonata da neonata; di Aba Gayle, che è diventata amica dell’assassino di sua figlia e si è battuta perché non venisse condannato a morte; e molti altri.
Ognuno di loro, più che circoscrivere il significato del perdono, lo ha ampliato. E ciascuno di loro ha perdonato in modo diverso. Qualcuno afferma di non aver perdonato, eppure ha agito come se lo avesse fatto. Qualcun altro è stato perdonato ma non ha ancora perdonato se stesso.
C’è perdono e perdono
Tra le persone intervistate da Unger c’è Gisela Mayer, madre di una bambina uccisa in una sparatoria in una scuola tedesca: «Mayer mi ha detto che non c’è una scorciatoia nell’inferno. Era un modo per dire che il dolore e il desiderio di vendetta devono trovare spazio prima di poter muovere verso il perdono. Nel suo caso è stato cruciale capire e conoscere il padre del giovane assassino e suicida. “La rabbia contro di lui era diventata quasi insopportabile”, mi ha detto. Mayer non si era prefissata di perdonare, eppure voleva capire la psicologia di quel ragazzo, le esperienze che aveva fatto, la famiglia in cui era cresciuto».
Il perdono è stato un effetto collaterale della comprensione: «Mi è accaduto abbastanza accidentalmente, quando ho iniziato a capire il giovane», ha raccontato Mayer. «Posso perdonarlo solo se prima ho lasciato che diventi una persona».
Per Yaël Armanet, moglie di un uomo ucciso da un attentatore suicida palestinese, il punto non è tanto perdonare («Solo Dio può concedere il perdono») ma riconciliarsi: «Riconciliarsi significa costruire un ponte, un futuro comune insieme ai palestinesi. Ma anche vincere la paura».
«Credo che il perdono sia come un processo che non si possa forzare», commenta Unger. «Ho parlato con persone che si sono sforzate di perdonare o sono state forzate a farlo: questo in realtà ha peggiorato la loro situazione. Il perdono può avvenire solo se gli permetti di accadere e sei libero di scegliere di non perdonare». Neppure il perdono di Dio può essere una scorciatoia: Maria Hiller, cristiana evangelica, confessa di aver abortito e non essere ancora riuscita a perdonarselo del tutto. Il perdono nel suo caso è come una triangolazione che coinvolge suo figlio, se stessa e Dio: «Credo sia più difficile perdonare un altro che perdonare se stessi», ha raccontato. «Ogni giorno ci si deve incontrare allo specchio, e ogni giorno ci si deve dire: “Va bene: nonostante tutto ti voglio bene”».
Il lungo percorso verso la riconciliazione
In alcuni casi la valenza religiosa del perdono può persino apparire come un ostacolo al perdono umano, come racconta padre Guido Bertagna, da oltre vent’anni impegnato nei percorsi di giustizia riparativa che hanno fatto incontrare e in molti casi riconciliare parenti di vittime del terrorismo ed ex appartenenti alla lotta armata italiana degli anni Settanta e Ottanta. Questa esperienza è stata raccolta nel Libro dell’incontro (Il Saggiatore). «In questi percorsi e in questi anni di cammino insieme abbiamo usato poco la parola perdono», spiega padre Bertagna. «Molti partecipanti si definivano non credenti e questa parola aveva un portato di militanza di fede così esplicita che avrebbe bloccato molti: come se qualcuno, da non credente, potesse pensare di non avere i prerequisiti per perdonare».
Anche in questo caso, come accaduto a Gisela Mayer, il primo passo fondamentale è stato il riconoscimento dell’altro: «Ascoltare l’altro, quello che prima era un nemico, accogliere la sua storia e riconoscerlo come persona è fondamentale e apre al secondo passaggio, cioè a non chiudere l’altro nel male che ti ha fatto o che ha subito, nel suo ruolo di vittima o colpevole». Il terzo passaggio coinvolge le vittime e consiste nella scoperta e nel riconoscimento del dolore dei colpevoli: «In genere si riconduce l’esperienza del dolore a chi ha perso una persona cara. Nel nostro percorso tuttavia c’è sempre un momento in cui le vittime riconoscono che il male che ha tolto così tanto a loro è costato molto dolore anche alle persone che se ne sono rese responsabili».
«Se non trovi un posto al passato, se non hai qualcuno a cui darlo, un luogo in cui metterlo, te lo ritrovi sempre tra i piedi e in qualche modo ti sequestra il presente e il futuro, è una presenza ricattatoria», ha detto una delle vittime a padre Bertagna. «Questo è evidente anche nelle Scritture», commenta il gesuita. «Nel capitolo 15 del Vangelo di Luca, quando il figlio si prepara il discorso per tornare dal padre, questo è tutto incentrato sul suo passato. Il padre invece, non lasciandogli finire il discorso, pensa già a un futuro possibile con il figlio ritrovato».
Chi non crede può perdonare?
Riconoscere l’altro, accogliere la sua storia, trovare un posto in cui mettere un evento passato doloroso sono i primi passi del perdono. Ma anche fuori dal perimetro della fede è possibile arrivare al pieno perdono? «Il cammino che molti hanno deciso di fare in questi gruppi richiede a credenti e non credenti di attingere a livelli talmente profondi delle risorse della persona che questa è spinta a fare un salto di qualità, come un autotrascendimento, un andare oltre se stessa. E credo che lì si incontri, esplicitamente o meno, la persona divina, la presenza di Dio». Il figlio di una vittima dei gruppi armati, a cui è stato chiesto se avesse fatto esperienza di perdono, ha risposto: «Io non mi sento credente, però se perdonare significa accogliere in pieno l’umanità e la storia dell’altro, non più con risentimento o desiderio di rivalsa o vendetta, ma con un riconoscimento pieno e riconciliato, allora io ho perdonato».
Iniziare senza prefiggersi nulla
Sia nelle esperienze dei gruppi affiancati da padre Bertagna, sia nelle esperienze individuali raccolte da Unger, il perdono è un percorso che spesso inizia senza prefissarsi nulla. «Credo che il perdono sia un dinamismo e non un punto fisso», spiega padre Bertagna. «Come il cammino del figlio che torna alla casa del padre: ha chiaro quello che ha fatto? Forse è più la fame che il pentimento a spingerlo. Ma il padre lo accoglie con tutti gli onori. E l’altro figlio che viene dai campi è entrato o meno alla festa? Non lo sappiamo.
È interessante che nella Scrittura non si dia risposta a quanto la misericordia sia stata compresa, quanto quindi il perdono sia stato davvero vissuto. Il libro di Giona è l’unico che si chiude con un punto di domanda: “Non dovrei io avere pietà di Ninive?”».
Perdonare è dimenticare?
Contrariamente a quanto spesso si pensa tuttavia, il perdono non può coincidere con l’oblio. «Il perdono non è “metterci una pietra sopra”, ma anzi è la piena consapevolezza di quanto accaduto. Non si può cambiare ciò che è avvenuto, e neppure lo si deve dimenticare, ma lo si può rileggere e comprendere in modo diverso. Anche per questo credo sia sbagliato confondere colpevole e responsabile: non è detto che un colpevole sia responsabile, cioè capace di rispondere veramente di quello che ha fatto». Spesso la cosa più complicata è perdonare se stessi. «Succede che l’altro dimostri il suo perdono, ma noi non riusciamo a perdonarci per un senso di dignità ferita dal fatto di non essere stati all’altezza». Il rischio in questo caso è quello di rimanere imprigionati in un circolo di aspettative deluse e di vergogna.
Come si esce da questo circolo? «Dove se ne creano le condizioni, se ne esce arrendendosi all’amore dell’altro, al fatto che l’altro ci accoglie per quello che siamo. Per questo il primo passo e forse quello più lungo lo fanno le vittime. È la loro disponibilità all’accoglienza che disarma e sblocca il meccanismo che ci fa restare imprigionati nella vergogna del male compiuto».
È possibile il perdono a livello sociale?
Se il perdono a livello individuale è un processo lento, complicato, senza scorciatoie, a livello sociale tutto sembra farsi ancora più complesso: guerre e scontri etnici sembrano bruciare terreno attorno alle possibilità del perdono. «A livello sociale, come a livello personale, credo vada inizialmente dato spazio a quella che è la reazione primaria», commenta padre Bertagna. «Di fronte a chi mi ha aggredito o fatto violenza è normale reagire in difesa, chiudendosi nel risentimento, identificando l’altro con la sua azione di violenza. Questa però è una logica che a lungo andare ci fa rimanere ostaggi del passato». Il cammino individuale verso l’altro può diventare quindi anche un cammino intrapreso dalla società?
«Per fare questo serve molto lavoro e grandi figure di uomini e donne illuminati e illuminanti che sappiano aprire strade in modo convincente». Per esempio? «Basterebbe ascoltarsi i cinque minuti di discorso che Robert F. Kennedy pronunciò nella comunità dei neri di Indianapolis per annunciare l’uccisione di Martin Luther King. Tutti glielo avevano sconsigliato, lui andò e parlò a braccio. L’Indiana fu l’unico Stato americano in cui non ci furono disordini tra bianchi e neri all’indomani di quell’assassinio. O più recentemente Nelson Mandela e Desmond Tutu. Oppure in Italia padre Adolfo Bachelet: suo fratello era stato ucciso all’Università di Roma e quando iniziarono gli arresti di massa, i maxiprocessi, lui da subito e per tutti gli ultimi 15 anni della sua vita cominciò a girare nelle carceri, incontrare gli ex appartenenti alla lotta armata, scambiare con loro un epistolario fittissimo. Questi giovani riaprivano gli occhi sul male commesso che diventava in quel momento per loro insopportabile. E lui, anche con la credibilità che gli veniva dall’essere stato familiare di una vittima, ha saputo dire una parola completamente diversa». Qualcuno ha visto nel suo lavoro l’inizio del declino delle Brigate Rosse: molti cominciarono a parlare e rivelare i loro covi.
Alcuni ex terroristi hanno detto: «Noi siamo stati sconfitti quando siamo stati perdonati».
N. Baroni, in
Credere 8/2023, 30-36