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Satana
Ryan E. Stokes

Satana

Come il giustiziere di Dio è diventato il nemico per eccellenza

Prezzo di copertina: Euro 38,00 Prezzo scontato: Euro 36,10
Collana: Books
ISBN: 978-88-399-3235-8
Formato: 13,5 x 21 cm
Pagine: 352
Titolo originale: The Satan. How God’s Executioner Became the Enemy
© 2023

In breve

Si tratta di un’eccellente monografia scientifica sulla storia delle credenze su Satana: questa indagine aggiorna in modo importante i lavori preesistenti, soprattutto per quanto riguarda la comparsa della figura di Satana nel contesto precristiano.

Descrizione

Molti oggi pensano spontaneamente Satana come un piccolo demone rosso con le corna, una coda appuntita e un forcone in mano. Questa visione del diavolo, in realtà, si è sviluppata nel corso di molti secoli e sarebbe risultata estranea agli autori dell’Antico Testamento, dove la figura dell’Avversario fa la sua prima comparsa.
I primi testi che menzionano Satana – anzi, nell’Antico Testamento si dice sempre «il Satana» – lo ritraggono come un agente di Dio incaricato di fare giustizia dei malfattori. Nel corso del tempo, però, quella figura evolve e viene considerata più come un nemico di Dio che come sua longa manus. Alla fine questa mutazione, su Satana ricadrà la colpa di tutta una serie di problemi.
Ryan Stokes spiega magistralmente lo sviluppo della tradizione su Satana nelle Scritture ebraiche e nella letteratura del primo giudaismo, descrivendo i processi interpretativi e creativi che hanno trasformato un agente di Dio nell’arcinemico del Bene. Esplora come l’idea di una figura celeste quale Satana sia stata innestata nel problema del male e sia stata caricata della colpa di tutto ciò che va storto nel mondo. Svela le molteplici sfumature di fenomeni quali la tentazione, il peccato e il male potenzialmente fatale che, sin dai tempi antichi, hanno afflitto l’umanità. E che ancora oggi sono tra noi.

Recensioni

Il volume è la traduzione italiana di The Satan. How God's Executioner Became the Enemy, edito nel 2019 da Eerdrmans. Il titolo originale rende con maggiore accuratezza il contenuto della ricerca del biblista statunitense Ryan.E. Stokes: il personaggio indagato non è semplicemente Satana, bensì "il satana", una figura che nei testi più antichi non si presenta con la successiva caratterizzazione definita e specifica di nemico di Dio, ma è delineata con maggiori sfaccettature, che a volte ne rendono complessa una precisa individuazione.

Nel corso del volume l'A. conduce il lettore all'interno di un viaggio storico-letterario nei testi della tradizione ebraica e del primo cristianesimo, da quelle che poi furono riconosciute come Scritture canoniche dell'Antico Testamento fino all'Apocalisse di Giovanni, attraverso la lunga serie di testi che non sono entrati nel novero dei libri sacri. Questo è un primo pregio, metodologico, del libro: non intende costruire una teologia biblica unitaria e forzata, bensì ricostruire la storia del personaggio "satana" attraverso le diverse fisionomie che esso ha assunto nella letteratura ebraica e poi ebraico-cristiana, senza limitarsi ai testi "canonici", ma valorizzando l'influsso che i cosiddetti "apocrifi" hanno continuato a esercitate sulla mentalità religiosa ebraica ed ebraico-cristiana.

Il primo capitolo (pp. 23-58) indaga la genesi del personaggio. Punto di partenza è il significato del termine satan, inteso dall'A. non come "avversario" o "accusatore", ma come "aggressore" e in alcuni casi "giustiziere". L'origine del satan va individuata nel contesto delle tradizioni sui giustizieri sovrumani, di cui abbiamo testimonianza in testi come Es 12 ed Ez 9; il satan di Nm 22 affronta Balaam in qualità di giustiziere divino, e come tale si presenta anche l'angelo del censimento in 1 Cr 21. Anche in Zc 3 egli è giustiziere, in quanto le vesti sporche di Giosuè rimandano a una sua colpa, seppure imprecisata; però qui emerge uno scollamento tra Dio e il suo vendicatore, che viene frenato nel suo desiderio di fare giustizia.

L'apice dell'importanza nella Bibbia ebraica è raggiunto dal satan nel libro di Giobbe, a cui l'A. dedica l'intero secondo capitolo (pp. 59-82). Come in Zc 3, anche qui egli non è un angelo ribelle, ma un dipendente della corte celeste. Tuttavia, Gb introduce una novità essenziale: l'azione del satan si rivolge contro un giusto, non contro empi che meritano la punizione divina.

Il terzo capitolo (pp. 83-117) presenta una rassegna delle figure soprannaturali che la letteratura ebraica collega al peccato dell'uomo. Nei testi biblici sono menzionati: i demoni (sedim), cioè i falsi dèi; lo "spirito malvagio" che entra nell'uomo per muoverlo al male; i "figli di Dio", esseri al servizio di Dio, la cui realtà resta però criptica, come nell'episodio del peccato di Gen 6,1-4. Quest'ultimo passo è il punto di partenza dell'evoluzione delle figure angeliche in molta letteratura extra-biblica, in particolare nel Libro dei Vigilanti: in questo testo è presentata una vera e propria eziologia dei mali umani, che sono ricondotti all'azione di una serie di figure soprannaturali che si sono ribellate a Dio e hanno coinvolto in questa ribellione l'uomo e il cosmo.

Il quarto (pp. 118-149) e il quinto capitolo (pp. 150-175) sono dedicati al Libro dei Giubilei, il testo che più di tutti amplia la concezione degli spiriti maligni. Compare per la prima volta l'idea di una loro gerarchia, al vertice della quale è posto un capo, chiamato nei Giubilei "Principe di Mastema". Il libro si sofferma non tanto su di lui, ma sull'azione degli spiriti maligni nel loro insieme. Il loro compito principale è ingannare l'umanità, mettendo in atto il piano di Dio che prevede la predilezione di Israele sulle altre nazioni. Il Principe di Mastema è l'ingannatore delle nazioni, colui che è all'origine dell'idolatria e della violenza, origine che però, secondo Giubilei, risiede nel piano stesso di Dio. Tuttavia nel libro coesiste una concezione in parte opposta, che vede nel Principe di Mastema non solo un esecutore del piano di Dio sulle nazioni, ma anche un oppositore del popolo eletto, dal momento che in alcuni passi tenta di nuocere anche ai suoi membri scatenando sciagure, sostenendo i nemici di Israele e mettendo alla prova i giusti.

Il sesto capitolo (pp. 176-203) analizza alcuni testi dal II secolo a.C. al I d.C. che, sul tema dell'origine del peccato, non accolgono la sempre più diffusa dottrina della sua origine ultraterrena. Il Siracide esclude categoricamente una possibile origine divina del male. L'Epistola di Enoc afferma che l'umanità, non il mondo ultraterreno, ha dato origine al peccato, e per questo sarà punita. L'inno Bafki Nafsi pone come origine del male l'inclinazione negativa presente nell'uomo. Per la Lettera di Giacomo coesistono sia gli influssi negativi del demonio sia la possibilità di resistervi, ma in ogni caso essi non hanno origine da Dio.

Il settimo (pp. 204-235) e l'ottavo capitolo (pp. 236-272) prendono in esame i rotoli del Mar Morto, dove emerge la figura di Belial. La collezione testimonia una pluralità di credenze su di esso, ma emergono anche alcuni elementi comuni. Rispetto alla letteratura precedente risalta maggiormente il ruolo di Belial come istigatore del peccato; ciò concretamente si esprime in un'estensione del raggio di azione di Belial rispetto al Principe di Mastema: egli ha potere anche sul popolo eletto ed è lui la causa ultima della trasgressione dalla Tora. Inoltre, Belial emerge come un vero e proprio nemico di Dio, a cui egli si oppone assieme alla schiera degli spiriti maligni, all'interno di un conflitto cosmico tra il bene e il male che è in atto fin dal momento della creazione.

Il nono capitolo (pp. 273-308) si concentra sul Nuovo Testamento, il quale vede una continua presenza di Satana, riprendendo e approfondendo varie posizioni della letteratura ebraica precedente. In modo particolare, egli appare come nemico di Dio e di Cristo, tentatore che spinge verso il peccato e aggressore che causa mali morali e fisici alle persone. L' A. lo definisce accusatore dei fratelli e serpente antico, mettendo insieme le tradizioni derivanti da Gb 2 e Gen 3. Nella conclusione (pp. 309-314) l'A. ripercorre il cammino compiuto con accenni anche alle successive letterature rabbinica e patristica.

Al termine della lettura, si può apprezzare la profondità della ricerca di Stokes, che analizzando i testi in modo serio e completo fornisce una luce convincente sulla figura del "nemico di Dio", connessa con il tema dell'origine del male in un mondo voluto e guidato da un Dio buono e con le risposte che le comunità ebraica ed ebraico-cristiana hanno fornito intorno a questo problema teologico ed esistenziale.

Rispetto all'originale inglese, nel volume tradotto mancano gli indici degli autori, degli argomenti e delle fonti. Quest'ultimo in particolare sarebbe risultato molto utile, vista la mole di testi indagati nella ricerca.


S. Vuaran, in Studia Patavin 2/2024, 358-360

>«Ho visto Satana cadere dal cielo come una folgore» (Lc. 10,18): queste parole di Gesù sono forse la menzione più famosa del Nemico di Dio contenuta negli evangeli. Ma qui siamo a un punto già parecchio elevato nella elaborazione di questa figura ormai riempita di contenuti quasi fisici e di una sua personalità e una sua individualità ben definita – anche se questa poi conoscerà nei secoli ulteriori inquietanti sviluppi. Però non è stato sempre così, e il libro del biblista statunitense Ryan Stokes vuole appunto sondare la storia di questo personaggio nello sviluppo dei libri della Bibbia ebraica e della letteratura intertestamentaria, fino a giungere al Nuovo Testamento.

Stokes, docente di Antico Testamento presso la Carson-Newman Universitydi Jefferson City (Tennessee, USA) ha già al suo attivo diversi libri e articoli e in questa opera si pone come obiettivo, certamente non facile, quello di tracciare le fortune, se si può dir così, di questo termine che, partendo da un contenuto abbastanza anonimo, col passare del tempo assume le forme e le caratteristiche proprie di un personaggio rappresentante l’antagonista di Dio stesso. Peraltro, l’autore chiarisce subito il suo intento e i limiti della sua ricerca: «elaborare una teologia di Satana o del male non è il mio obiettivo, né tanto meno valutare i meriti delle teologie degli antichi» (p. 13).

Il libro si mostra in effetti come una storia dell’origine, della formazione e della trasformazione delle credenze sulle figure sataniche e il Satana – e non una riflessione teologica sull’origine del Male. Anche se alla fine è inevitabile che queste grandi domande tornino all’attenzione dell’autore e del lettore.

La ricerca di Stokes parte da una constatazione di tipo linguistico: il termine śāṭān (טן ù), che nella Bibbia canonica non compare molto spesso, nella sua forma verbale significa «aggredire» e nella forma sostantivale significa «aggressore». Nei testi più antichi il śāṭān è dunque colui che ha il compito di uccidere, per conto del re o di Dio stesso, coloro che si sono macchiati di un delitto o di una disubbidienza.

Un esempio illuminante al riguardo si ha in II Sam. 19, dove si narra di Davide che, scampato il pericolo del tentato colpo di stato di suo figlio Absalom, fa ritorno a Gerusalemme. Tra coloro che, avendo sostenuto Absalom, ora si affrettano a schierarsi col re chiedendogli perdono, vi è Simei. Mentre questi è prostrato davanti a lui, due fedelissimi del re si dichiarano pronti a uccidere il traditore che invoca pietà. Al che Davide li rimprovera, dicendo: «che ho da fare con voi, o figli di Seruia, che vi mostrate oggi miei avversari?» (II Sam 19,22). Così traduce la NRiv – e la frase è oggettivamente incomprensibile.

In realtà, qui il testo ebraico ha il termine śāṭān, che lo Stokes rende con «giustizieri». Dunque, è come se Davide dicesse: «chi vi ha chiesto di fare il boia per me?». E la frase riacquista il suo senso. Qualcosa di simile vediamo nel racconto di Num 22,22-25, in cui l’angelo di yhwh discende come un śāṭān (NRiv. traduce: «per ostacolarlo») contro l’indovino Balaam per colpirlo con la sua spada qualora non volesse compiere la volontà di Dio. Nel primo caso citato abbiamo dunque un śāṭān umano, mentre nel secondo abbiamo un śāṭān angelico, sovrumano, inviato di Dio.

Proseguendo nella storia di questo concetto, l’esempio più famoso di un «giustiziere» non umano è quello di Giobbe 1-2, in cui il śāṭān (è noto che qui il termine è preceduto dall’articolo, segno che non si tratta di un nome proprio, ma di una funzione) appare addirittura come un funzionario della corte celeste con compiti simili a quelli di un pubblico ministero o, come qualcuno ha detto, di un membro della polizia segreta dei sovrani persiani. Anche se è difficile determinare con precisione l’epoca in cui il libro di Giobbe è stato scritto, si può affermare che è sicuramente successivo ai racconti sopra citati e certamente si può cogliere un approfondimento nella elaborazione di questa figura.

Un dato interessante è che Stokes segnala il fatto che la narrazione dei primi due capitoli scorrerebbe tranquillamente anche se noi cassiamo le parti che hanno come protagonista il śāṭān, come se queste parti fossero state aggiunte in un secondo tempo, con lo scopo di allontanare dal Signore il sospetto che sia lui a causare, o quanto meno a permettere, il male che colpisce Giobbe. L’osservazione è interessante, anche se mi lascia perplesso, in quanto, a mio avviso, dopo una tale menomazione, la narrazione ne verrebbe fortemente indebolita. L’osservazione, però, mantiene una sua validità, in quanto segnalerebbe un salto qualitativo nella comprensione stessa della realtà di Dio e del suo rapporto col Male.

La scena cambia notevolmente nel periodo intertestamentario, in cui si afferma in modo perentorio la «personalizzazione» di questa figura. E questo avviene in modo particolare nel Libro dei Giubilei e nei testi di Qumran. Non possiamo qui ripercorrere tutto l’itinerario tracciato con estrema competenza dallo Stokes; è indubbio, però, che è in questo periodo che, sotto l’influsso del pensiero apocalittico e, forse, anche zoroastriano (vedi pp. 267ss.), il «giustiziere» (il boia, l’executioner, nell’originale inglese), il ministro della corte divina, assume una personalità propria e una specifica volontà di opposizione al disegno divino. Un esempio per tutti: «La Regola della Guerra dipinge dunque Belial/Satana non come un semplice funzionario di Dio, né semplicemente impegnato in un conflitto con una figura angelica subordinata a Dio [l’arcangelo Michele], ma in conflitto con Dio come un dannato e come colui che è destinato a sperimentare l’ira di Dio» (p. 272).

Come si può notare, più si procede nell’analisi della storia di questo «personaggio», più ci si scontra con temi teologici molto forti che impegneranno la cristianità nei secoli successivi, tutti inerenti il tema fondamentale del Male (libero arbitrio o predestinazione? perché anche i giusti peccano? Il male fisico come aggressione di Satana [vedi la «scheggia nella carne» di Paolo in II Cor. 12,7]).

In conclusione, lo Stokes fa notare come «fintanto che il śāṭān veniva visto come un funzionario di Dio, non c’era reale bisogno di giustificarne l’esistenza. Ma via via che si cominciò a concepirlo più come un ribelle sovrumano che come un agente divino, una spiegazione per l’esistenza di questa figura maligna divenne necessaria [...]. La storia delle credenze sul Satana», conclude lo Stokes «è in realtà una storia delle credenze su Dio. Che sia un funzionario di Dio o il suo nemico, dall’antichità fino ad oggi questa figura è servita per spiegare il rapporto tra il Creatore e le sfide della vita di cui gli esseri umani creati fanno l’esperienza» (pp. 313 ss.).


P. Ribet, in Protestantesimo 2-3/2024, 296-298

Non è solo nelle favole di Esopo, di Fedro o di La Fontaine che gli animali parlano e ammoniscono gli umani. Anche nella Bibbia, in un racconto arcaico del libro dei Numeri, c'è un'asina che interpella chi la sta cavalcando, un «profeta» pagano di nome Balaam: lasciamo ai lettori di ritrovare quella deliziosa narrazione nel c. 22 del libro citato.

Noi, però, puntiamo a un versetto, il 22, e lo proponiamo nella versione ufficiale della CEI: «L'ira di Dio si accese perché Balaam stava andando; l'angelo del Signore si pose sulla strada per ostacolarlo».Ora, se risaliamo all'originale ebraico, la finale è sorprendente: «Si pose sulla strada come suo satana».

Appare un termine che di solito ha l'articolo «il/un satana» e designa di per sé un funzionario della corte divina, il cui significato è «avversario» o «accusatore». Egli entra in scena in altri passi biblici con un incarico non necessariamente negativo; anzi, in qualche caso il suo profilo sembra essere quasi quello di un pubblico ministero che indaga sulla colpevolezza di una persona, riferendone poi al giudice supremo divino. Qualcosa del genere sembra accadere anche nel racconto di apertura di quel capolavoro letterario e teologico che è il libro di Giobbe (cc. 1-2) ove «il satana» è uno dei «figli di Dio», ossia gli angeli del consiglio della corona del Signore. In verità, alcuni studiosi ritengono che a lui sia assegnato in quel caso il compito di «giustiziere», di vero e proprio aggressore che vaglia la qualità morale degli esseri umani, nella fattispecie di Giobbe, un innocente che è travolto ma che non cede e avvia una sorta di contestazione radicale nei confronti del Mandante divino.

Lo studioso statunitense Ryan E. Stokes interpreta così quella figura in un saggio minuzioso e avvincente, svelandone però anche l'evoluzione a cui essa è stata sottoposta fino a essere trasformata da agente di Sua Maestà il Signore in un suo tenace avversario, un personaggio alonato da tutti i fumi del diabolico. Non per nulla il titolo dell'opera dell'esegeta americano recita Come il giustiziere di Dio è diventato il nemico per eccellenza, soprattutto sulla base della letteratura apocrifa giudaica.

Subentra, così, quella rappresentazione anche cristiana che rende il Satana il principe degli angeli ribelli a Dio, sconfitti e scaraventati sulla terra, come rievoca con righe incandescenti l'autore dell'Apocalisse neotestamentaria: «Il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli» (12,9). Per approdare a questa metamorfosi demoniaca è, però, necessario inoltrarsi nella foresta lussureggiante dei simboli apocrifi, ed è ciò che fa con acribia questo docente dell'Università di Jefferson City, nel Tennessee.

Gli scritti presi in esame sono molteplici e hanno titoli attribuiti dagli studiosi che li maneggiano con approcci sofisticati data la loro complessità. Così entra in scena il Libro dei Vigilanti del III secolo a.C.; subentra l'Epistola di Enoc che sposta l'accento sulla responsabilità umana nel male attraverso l'esercizio della libertà; imponente è la letteratura «satanica» dei celebri manoscritti di Qumran sulla riva occidentale del mar Morto; curioso è il Libro dei Giubilei del III sec. a.C. In questo scritto entra in azione un misterioso «Principe di Mastema» con una sua legione di spiriti maligni. L'etimologia di quel nome è da ricondurre alla radice ebraica stm che denota un'attività ostile, ed è uno pseudonimo di Satana.

Egli, da un lato, si inquadra nel progetto divino perché inganna e flagella le nazioni idolatriche attraverso i suoi emissari nocivi; dall'altro lato, è un avversario di quel piano divino attraverso l'opera di seduzione ostile nei confronti del popolo di Dio. Si intuisce, perciò, che in quelle pagine confluiscono – quasi come in un delta ramificato – le correnti di tradizioni diverse. Questa fluidità rende impegnativa la definizione di una mappa ove si affollano spiriti, demoni, Satana e attori enigmatici sovrumani come il Belial che fa coppia con Satana. Anche in questo caso si tratta di un nome comune che rimanda a concetti di «indegnità» e persino a connotazioni di morte e nullità.

Nell'orizzonte già evocato dei rotoli di Qumran esso ha il profilo di un angelo che tormenta gli israeliti secondo la duplice finalità rivestita dal Principe di Mastema. È sorprendente l'unica sua presenza nel Nuovo Testamento in un passo dell'epistolario paolino tutto intessuto di inattesi rimandi qumranici ( 2 Corinzi 6,15 con la forma Beliar: «Quale intesa tra Cristo e Beliar, o quale collaborazione tra fedele e infedele?»). Questa incursione nelle scritture cristiane ci permette di concludere, come fa Stokes, intercettando Satana nel messaggio del Nuovo Testamento ove si presenta per 36 volte con chiare connotazioni diaboliche, accanto a una varia tassonomia di altri esseri negativi sovrumani, in particolare ho diàbolos, il «divisore», avversario di Dio e dell'umanità, in duello con Cristo.

Si configura, così, una serie di questioni roventi, come quelle del nesso tradizionale colpa-castigo, della tentazione, del peccato, della libertà e del male. In verità, al di là dell'entusiastico ed enfatico Inno a Satana di Carducci, nella cultura contemporanea vale quanto ironicamente confessava Gide: «Non credo nel diavolo, ma è proprio quello che il diavolo spera».


G. Ravasi, in Il Sole 24 Ore 7 maggio 2023

Nella prima domenica di Quaresima il rito romano prevede quest’anno la lettura dell’episodio evangelico delle tentazioni di Cristo, dal quarto capitolo del vangelo secondo Matteo. «Allora Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti alla fine ebbe fame». La narrazione si ritrova negli altri due vangeli sinottici (quelli di Marco e di Luca) ed è commentata da Benedetto XVI nel primo volume su Gesù di Nazaret. Con questa «discesa nei pericoli che minacciano l’uomo», Cristo – scrive Ratzinger – «deve entrare nel dramma dell’esistenza umana, attraversarlo fino in fondo, per ritrovare così “la pecorella smarrita”, caricarsela sulle spalle e ricondurla a casa», lottando con il demonio.

Proprio il diavolo è una figura che papa Francesco non teme di evocare continuamente, tanto da costituire un elemento di rilievo del suo insegnamento, anche se quasi mai i media ne danno conto perché questo tratto non rientra nel profilo moderno e progressista che gli è stato cucito addosso. Gesuita di formazione tradizionale, Bergoglio ha invece sempre presente la realtà del demonio.

Bruciare il diavolo

Emblematico è quanto il pontefice ha raccontato nel 2016, ricordando che da arcivescovo di Buenos Aires predicava ai bambini la prima domenica di Quaresima: «Il diavolo che cosa faceva con Gesù? Ha fatto questo perché voleva che Gesù si sottomettesse». Poi, insieme ai ragazzi più piccoli – nella loro festa e secondo un metodo teatrale da secoli proprio dei gesuiti – «bruciavamo il diavolo. Era un modo per fare con i bambini la meditazione delle due bandiere di sant’Ignazio. Da una parte c’era il diavolo e dall’altra un angelo. Preparavo un diavolo grande fatto di stoffa e dentro mettevo dei petardi. Si faceva una catechesi», quindi «si accendeva il fuoco. Tutti urlavano. Era un’esplosione di petardi! I bambini si divertivano. Era un teatro che li aiutava a imparare. Per me era un modo per far fare loro il terzo esercizio della prima settimana degli Esercizi spirituali. Sant’Ignazio in questo esercizio vuole stimolare la capacità di condannare il male e di suscitare odio verso il peccato».

Non basta però denunciare il male, bisogna «decidere una conversione» dirà un ventennio più tardi Bergoglio, ormai papa. Il 22 dicembre scorso, nel discorso natalizio ai cardinali e ai prelati di curia, Francesco ha scelto infatti di riferirsi a un detto di Gesù – nell’undicesimo capitolo del Vangelo di Luca – e ha spiegato ai curiali: «La nostra prima conversione riporta un certo ordine», ma il male si ripresenta, e allora sono dei «demoni educati» che rientrano in noi, «senza che io me ne accorga. Solo la pratica quotidiana dell’esame di coscienza può far sì che ce ne rendiamo conto», perché «il demonio, cacciato via, torna; travestito, ma torna. Stiamo attenti!».

Oltre le decine e decine di menzioni del diavolo, spesso improvvisate od occasionali, nel 2018 il pontefice lo ha presentato verso la fine dell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate «sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo». Nella preghiera del Padre Nostro – si legge nel documento papale – «terminiamo chiedendo al Padre che ci liberi dal Maligno»: un’espressione che «non si riferisce al male in astratto», ma a «un essere personale che ci tormenta». Non bisogna dunque pensare «che sia un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea». Chiarito questo punto, il papa gesuita torna però sulla coscienza individuale: il diavolo «non ha bisogno di possederci. Ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi. E così, mentre riduciamo le difese, lui ne approfitta per distruggere la nostra vita».

Caduta dal cielo

L’insegnamento di Francesco sul demonio è perfettamente in linea con quello della chiesa. In tempi recenti lo ha sintetizzato il Catechismo della chiesa cattolica, chiesto dal Sinodo dei vescovi nel 1985 e pubblicato nel 1992. Secondo il testo, voluto da Giovanni Paolo II e coordinato dal cardinale Ratzinger, dietro «la scelta disobbediente dei nostri progenitori» – il peccato originale narrato all’inizio della Genesi – c’è «un angelo caduto, chiamato Satana o il diavolo».

Questa credenza di una creatura angelica in origine buona ma poi ribellatasi a Dio si trova all’origine in testi giudaici apocrifi ed è appena accennata nella Bibbia, poi viene riaffermata in ambito cristiano in età tardoantica e nel medioevo. Contro le dottrine dualiste che vedono nel demonio il principio autonomo del male, si pronunciano il sinodo di Braga del 561 e soprattutto il concilio Lateranense IV, tenutosi nel 1215: «Il diavolo infatti e gli altri demoni sono stati creati da Dio naturalmente buoni, ma da sé stessi si sono trasformati in malvagi». I teologi domenicani e francescani, da Tommaso d’Aquino a Duns Scoto, discuteranno poi sulla creazione e sulla caduta di questi esseri spirituali, con speculazioni che arrivano all’inizio dell’età moderna fino al gesuita Francisco Suárez.

Ma la storia del diavolo è molto più antica e complicata, come racconta Satana di Ryan Stokes, un libro innovativo e chiaro appena tradotto dalla Queriniana. Il biblista statunitense indaga le trasformazioni delle diverse figure sataniche che compaiono nelle scritture sacre ebraiche databili intorno al sesto secolo avanti l’èra cristiana o più tardi. All’origine compare un aggressore sovrumano che per conto di Dio diviene giustiziere, come nel ventiduesimo capitolo dei Numeri e nel terzo di Zaccaria. Poi, nella redazione definitiva del libro di Giobbe, «il Satana» inizia a trasformarsi in accusatore e in avversario dell’essere umano.

Queste entità dai tratti indefiniti si moltiplicano. Sono demoni e spiriti maligni – dai nomi e profili diversi, come Principe di Mastema, Belial, Angelo delle Tenebre – che affollano le riscritture e gli sviluppi apocrifi della Bibbia per arrivare ai manoscritti di Qumran scoperti tra il 1947 e il 1956 sulle rive del mar Morto. Centinaia di testi che in parte sono conservati nelle lingue originarie (ebraico e aramaico) ma anche in etiopico o in slavo antico, oltre il greco e il latino.

Spesso sono racconti sull’origine del mondo e sul suo destino che – dopo la distruzione del Secondo Tempio nell’anno 70 – entrano a far parte delle due correnti in cui si divide il giudaismo antico: l’ebraismo rabbinico e il cristianesimo. Basta sfogliare gli Apocrifi dell’Antico Testamento curati da Paolo Sacchi (Utet e Paideia), le Leggende degli ebrei raccolte da Louis Ginzberg un secolo fa (Adelphi) o anche solo i libri del Nuovo Testamento per rendersi conto della presenza inquietante del diavolo.

Vigilanti e forti

Il problema del male incombe su questo ribollire di pensiero. Sono gli spiriti maligni a ingannare gli esseri umani? È Dio che li ha creati? A questi interrogativi rispondono affermativamente il Libro dei vigilanti e la rilettura biblica nei Giubilei. Altri scritti, come la Lettera di Enoch e la Lettera di Giacomo nel Nuovo Testamento, sottolineano la libertà e la responsabilità dell’uomo, mentre nei testi di Qumran si profila la guerra senza quartiere tra luce e tenebre che segna gli ultimi tempi. Ed è Giovanni, nel primo secolo, a identificare il diavolo con «il serpente antico», il seduttore di tutta la terra, nel dodicesimo capitolo della sua Apocalisse, che conclude la Bibbia cristiana.

Mezzo secolo fa, il 15 novembre 1972, un cristiano aperto alla modernità come Paolo VI parlava del demonio. Reazioni e critiche si scatenavano contro il papa, considerato retrogrado e fuori del tempo, perché Montini apriva la lunga riflessione – scritta di suo pugno – in modo sorprendente: «Quali sono oggi i bisogni maggiori della chiesa? Non vi stupisca come semplicista, o addirittura come superstiziosa e irreale la nostra risposta: uno dei bisogni maggiori è la difesa da quel male, che chiamiamo il Demonio».

Il male e il peccato, «perversione della libertà umana, e causa profonda della morte», sono infatti anche «occasione ed effetto d’un intervento in noi e nel nostro mondo d’un agente oscuro e nemico, il Demonio», dice Montini. Che descrive questa realtà come «un essere vivo spirituale, pervertito e pervertitore», e afferma che «esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente». E di fronte ai segni della presenza del diavolo – «là dove la negazione di Dio si fa radicale, sottile ed assurda, dove la menzogna si afferma ipocrita e potente» – il papa ricorda le parole attribuite all’apostolo Pietro: il cristiano «dev’essere vigilante e forte».


G.M. Vian, in Domani 26 febbraio 2023