«E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani. (…) Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio». Le parole taglienti di san Paolo nella prima Lettera ai Corinzi potrebbero essere lette come un capitolo di filosofia.
Una filosofia che si fa antifilosofia, come emerge dal famoso Discorso all’Areopago, in cui si confrontò con alcuni pensatori greci del tempo. Che lo ascoltarono a lungo quando l’Apostolo delle genti spiegò loro i tratti del Dio cristiano («In Lui ci muoviamo, viviamo ed esistiamo»), ma che lo lasciarono allorché si mise a parlare della resurrezione della carne. L’incontro di Atene si concluse con uno smacco per Paolo: la centralità dell’annuncio cristiano non fu accolta dal mondo intellettuale. Solo nei secoli successivi si sarebbe verificato quel grandioso connubio fra la sapienza greca e il paradosso cristiano.
Ma che Paolo fosse, oltre che il principale missionario della fede cristiana del primo secolo e probabilmente di tutti i tempi, anche un grande pensatore degno di figurare nei manuali di filosofia è indubitabile (come progettato da Jaspers). Fu Nietzsche soprattutto a riscoprirlo, facendo della Weltanschauung dell’ebreo di Tarso il suo principale avversario. In tempi più recenti, sono stati pensatori come Derrida, Foucault, Badiou, Zizek, Vattimo, Agamben e Cacciari a rivalutare il corpus delle lettere paoline, facendone «il testo messianico fondamentale dell’Occidente» (Agamben). Ma sulla scia di Schmitt e Taubes è soprattutto la teologia politica di san Paolo a ridiventare cruciale durante il ’900. Badiou e Zizek si spingono addirittura a proporre un’interpretazione materialistica delle sue epistole. Una versione secolarizzata depurata del significato religioso al punto che il filosofo sloveno parla di «materialismo della grazia». Rilettura sostanzialmente neomarxista.
Pure a livello teologico in tempi recenti si è accentuata la riscoperta del contributo di san Paolo alla storia del pensiero. Negli ultimi anni vale la pena segnalare la pubblicazione di volumi come Paolo e i filosofi di Tiziano Tosolini (Marietti 1820) e di San Paolo e la filosofia del ’900 di Carlo Scilironi (Cleup). Proprio quest’ultimo, docente di Ermeneutica filosofica e di Filosofia teoretica e pensiero teologico all’Università di Padova, ritorna sulla questione nel libro San Paolo filosofo. Proprio commentando l’evento dell’Areopago, Scilironi rileva che «l’antifilosofia di Paolo è filosofia a tutti gli effetti, filosofia fondamentale e radicale» e precisa: «Se Paolo fosse solo un teologo, non si spiegherebbe l’attacco nietzschiano. Nietzsche gli si oppone con tutta la sua forza proprio perché avverte la radicalità filosofica di Paolo».
Ma di cosa è fatta la filosofia, o antifilosofia, di Paolo? Se egli contrappone la sophìa ricercata dai Greci allo scandalo di Cristo crocifisso, non fa altro che ricordare ai filosofi del tempo che la loro sapienza «è circoscritta e finita». Non è tutta la sapienza. E in questo senso fa proprio l’approccio di Socrate, che sa di non sapere. «L’esistenza – afferma ancora Scilironi – per Paolo come per Socrate, è domanda originaria, perché non contiene in sé la propria ragion d’essere: in quanto tale è un precipitare verso la morte accompagnata dalla voce della coscienza che ne attesta la colpevolezza. Non c’è teodicea di sorta che venga a capo della sofferenza e della morte che costituiscono il proprio dell’esistenza e il destino di ciascuno. Non c’è sapienza di questo mondo che possa salvare l’uomo». L’esistenza è domanda di trascendenza e il messaggio socratico esprime appieno questo concetto, almeno come autotrascendenza.
L’autentica domanda filosofica quale emerge dai dialoghi del pensatore ateniese è una domanda di salvezza, una salvezza che non può venire solo dall’uomo, ineluttabilmente segnato dalla colpa e dal dolore. «Non può sfuggire – insiste l’autore – come in questi termini la filosofia di Paolo si dispieghi in una innegabile prossimità con la tradizione socratico-platonica. Ciò che non si può non vedere è la vicinanza dell’intendimento paolino con la "grande speranza" che chiude l’Apologia e anima per intero il Fedone. Platone fa del "mito" l’espressione della fede, cui non può non disporsi il sapere di non sapere; ma il sapere di non sapere è già sempre, in quanto tale, sperare».
Come non condividere allora quanto scriveva Heidegger al riguardo in Che cos’è metafisica?: «Vorrà la teologia cristiana ridecidersi a prendere sul serio la parola dell’Apostolo e quindi a considerare la filosofia come una follia?».
R. Righetto, in
Avvenire 13 maggio 2022, A13