Il volume che qui recensiamo mira, nelle intenzioni dell’Autore, a «completare quella che era stata una ricerca di quasi vent’anni», intorno ai «possibili significati della vita etica e del processo decisionale» (p. 277). In effetti, l’opera di Selling, apparsa nel 2016 col titolo Reframing Catholic Theological Ethics (Oxford University Press), si propone di mettere a tema anzitutto il metodo della teologia morale cattolica, disciplina che Joseph Selling ha insegnato per oltre un trentennio, presso l’Università Cattolica di Lovanio, ove dal 2011 è professore emerito.
A suo avviso, la teologia morale si trova irretita in una crisi di metodo (cap. 1), dovuta all’«incoerenza della chiesa [sic] nell’applicare più metodi per affrontare temi diversi» (p. 15). Selling ne individua due, che descrive per opposizione: il metodo deduttivo, adottato nell’etica personale e, segnatamente, sessuale, centrato sull’applicazione delle leggi e sulla proliferazione normativa imperniata sul concetto di legge naturale; e il metodo induttivo, che si è fatto gradualmente largo nella dottrina sociale della Chiesa, più attento ai dati empirici e alla valutazione proporzionale dei risultati, che si limita a descrivere obiettivi, piuttosto che formulare norme universali.
A giudizio di Selling, «mentre nell’evoluzione della dottrina sociale della chiesa si sono verificati questi cambiamenti metodologici, l’insegnamento ufficiale in molti altri campi, soprattutto nell’etica sessuale, si è mantenuto comportamentale e rigidamente normativo» (p. 218). Mentre il primo tipo di approccio si accontenterebbe di un’adesione comportamentale alla norma, concentrandosi su singoli atti (e omissioni), senza tenere in dovuto conto la singolarità delle diverse storie di vita, il secondo sarebbe invece centrato sui fini da conseguire, sui quali unicamente dovrebbe appuntarsi la valutazione morale, lasciando invece al soggetto la determinazione dell’«azione materiale» che di volta in volta li realizza.
La «convergenza di metodo» (cap. 8) auspicata da Selling mira appunto alla sistematica estensione di quest’ultimo metodo anche ad altre regioni della teologia morale, in particolare all’etica sessuale. Secondo un approccio etico orientato al fine – così Selling considera la propria proposta –, le norme, che pur continuerebbero a sussistere, avrebbero il ruolo di linee-guida vincolanti unicamente nella formulazione dell’intenzione che il soggetto si propone, per accertare la bontà dell’obiettivo proposto e la sua conformità alla dignità umana; invece la scelta comportamentale che realizza quell’intenzione andrà determinata dal soggetto in senso proporzionale, tenendo conto di circostanze imprevedibili e sempre singolari, su cui la norma è inabile a legiferare.
Insomma – pare essere questa l’intentio profundior del volume di Selling – «sarebbe un passo positivo per la chiesa trattenersi dall’offrire soluzioni “preconfezionate” per problemi di morale interpersonale, in particolare sessuale e coniugale» (p. 226). Più esplicitamente, il bersaglio di Selling, su cui il volume ritorna più volte, è l’illiceità morale della contraccezione nei rapporti tra coniugi, così come insegnato da Humanae vitae, considerata da Selling una battuta d’arresto rispetto agli auspici conciliari per il superamento di un’etica normativa.
Per una lettura di segno diverso sul tema, mi permetto di rimandare all’acuto contributo di G.E.M. Anscombe, On Contraception and Chastity, ora disponibile anche al lettore italiano nella raccolta curata da S. Kampowski, Una profezia per il nostro tempo: ricordare la sapienza di Humanae vitae (Cantagalli, Siena 2018). […]
Segnalo soltanto due indizi in merito. Riferendosi agli ea quae sunt ad finem, Selling parla ripetutamente di ‘mezzi’ – come peraltro fanno numerose traduzioni, col rischio d’equivocare –, senza avvedersi che tali ‘mezzi’ non sono affatto «cose ordinate al fine [e dunque] accidentali rispetto all’operazione» (p. 84), ma sono anzitutto atti nei quali il soggetto impegna la propria libera volontà e, dunque, nient’affatto accidentali rispetto ad altri eventuali fini a cui sono ordinati.
Forse è per questa ragione che Selling, a differenza di Tommaso, disattende anche il ruolo della virtù di prudenza (quasi mai nominata), giacché essa diventa irrilevante laddove si tratta unicamente di scegliere mezzi convenienti all’obiettivo stabilito. Un secondo rilievo: appoggiandosi sulla distinzione tomista tra specie fisica e morale, Selling contrae nel fine d’intenzione (ulteriore) l’aspetto formale dell’intero evento morale (espressione con cui designa l’atto morale nel suo complesso), declassando conseguentemente gli atti che lo realizzano a pure azioni materiali. L’equivoco di Selling risulta plateale in questo passo: «È chiarissimo [...] che per Tommaso l’atto interiore della volontà, l’intenzione rivolta al fine, costituisce l’elemento formale dell’attività umana volontaria, e l’atto esterno della volontà, il consenso, la scelta e l’uso sono l’elemento materiale dell’attività umana volontaria» (p. 88).
A chi non è avvezzo alla frequentazione dei testi tomisti, in particolare alle intricate questioni sull’atto umano, tali affermazioni potrebbero sembrare del tutto innocue, mentre in realtà fraintendono la concezione tomista dell’agire, giacché l’atto esterno (actus exterior) che è oggetto di consensus, electio, usus, non è una mera attività materiale, come intende Selling, bensì costituisce un tipo di atto scelto come tale, dunque un fine a tutti gli effetti, sebbene possa a sua volta essere ordinato a fini ulteriori.
Smantellando il darsi di ordini di fini gerarchicamente subordinati (p. 115), Selling, come già la tradizione proporzionalista a cui di fatto egli si allinea, finisce per riconoscere la dignità di fine soltanto all’intento («obiettivo») che il soggetto si pone, senza peraltro mai definire il grado di prossimità che tale intenzione ha con la scelta effettiva. In tal modo, va perduto lo statuto proprio dell’oggetto morale, che Selling equipara a «comportamento», «azione materiale», «atto o omissione fisica» (pp. 27-28, 32-33), mentre invece costituisce quella stessa operazione in quanto scelta dalla volontà e, pertanto, sempre portatrice di un irriducibile contenuto intenzionale che non arriva ‘dopo’, a specificare moralmente un’azione fisica soltanto pre-morale, ma che è richiesto per costituire l’oggetto dell’atto esattamente come atto volontario.
L’oggetto morale è dunque la più piccola unità intenzionale capace di descrivere propriamente l’atto (non l’azione esteriore), quella che Tommaso chiama materia circa quam (STh I-II, q. 18, a. 2, ad 2), intendendo non la semplice esecuzione fisica dell’atto, bensì il contenuto intenzionale che definisce un tipo di azione, concepito dalla ragione pratica e da questa proposto alla volontà come fine prossimo.
L’equivoco sull’oggetto morale è a mio avviso il grande punto debole dell’opera di Selling, da cui dipendono altre posizioni espresse dall’Autore, tra cui la comprensione fisicista della ‘natura’ e della ‘legge naturale’ (pp. 133-135, 141-145), ed il rifiuto della categoria di intrinsece malum, considerato come l’indebita assolutizzazione di un comportamento materiale (pp. 7, 28). La «piccola rettifica» che Selling auspica nell’etica cattolica, «una rettifica tanto semplice quanto l’eliminazione del concetto di “male intrinseco”» (p. 229) – ‘rettifica’ per cui Selling si è recentemente speso come co-curatore del volume The Concept of Intrinsic Evil and Catholic Theological Ethics (Lexington Books – Fortress Academic, Lanham – London 2019) – è in realtà di grandissime proporzioni, poiché scardina l’obiettiva unità intenzionale degli atti umani e riduce le scelte concrete a ‘materia’ pre-morale.
Chi scrive e tutt’altro che fautore del comportamentismo, né proviene da una tradizione morale imperniata sulla legge, quanto piuttosto da quella tomista degli habitus virtuosi. In questo, mi trovo in sintonia con l’aspirazione di Selling a restituire ai fini virtuosi la dovuta centralità nell’elaborazione sistematica dell’etica, come anche nell’auspicio di ricentrare la riflessione morale sull’integralità della condotta, senza concentrarsi solo su atti discreti ed omissioni. Ho apprezzato pure il tentativo, seppur germinale, di articolare meglio le singole virtù, studiandole per coppie (cap. 6) e proponendo poi un’appendice (pp. 264-270) in cui si esplorano alcune possibili denominazioni di virtù.
Nel volume di Selling vi sono anche altri aspetti che meriterebbero una puntuale discussione, tra cui: l’interpretazione degli insegnamenti morali delle Scritture, il ruolo della gerarchia nell’interpretazione delle Scritture e nella competenza de re morali, la valenza della dignità umana come criterio per la teologia morale (cap. 5), la comprensione del ‘male ontico’ e la sua inevitabile integrazione nelle scelte etiche particolari (cap. 7).
L’impressione globale, al termine della lettura, è di disincanto e generalizzato impoverimento del discorso etico. Mentre l’etica tomista, a cui pure Selling intende ispirarsi, si apriva sotto il segno della destinazione beatificante, che sosteneva l’impegno etico e ne motivava l’esigenza, nella proposta di Selling non c’è traccia di qualcosa come un ‘fine ultimo’ che valga il sacrificio d’altri beni. Così come non compare alcun riferimento al vissuto dei santi, autentico locus della teologia morale, né si mette a tema la continuità storica dell’insegnamento magisteriale in campo etico, né tantomeno il fallimento morale indotto dal peccato. Verrebbe da chiedersi se un’etica così impostata resti compiutamente teologica o non sia, più propriamente, un’etica filosofica d’ispirazione cristiana.
M. Panero, in
Salesianum 3/2024, 621-624