Ho appena terminato di leggere, con interesse ed emozione, un nuovo libro dedicato alla grande figura di Óscar Arnulfo Romero, il vescovo martire di El Salvador, assassinato in odium fidei il 24 marzo 1980, che sarà santificato domenica prossima 14 ottobre da papa Francesco. Il libro, dal titolo Óscar Romero – L’eredità teologica di un santo rivoluzionario (Queriniana 2018), ha come autore un giovane teologo statunitense, nato da genitori portoricani, Michael Edward Lee, docente di cristologia e spiritualità alla Fordham Universitydi New York, padre di due figli e marito di una donna di origini italiane.
Intento della pubblicazione: delineare la visione teologica di Romero attraverso l’analisi della sua vita, dei suoi scritti e delle sue omelie. «Non è possibile capire Óscar Romero senza capire la sua teologia» (p. 273). L’eredità che il nuovo santo lascia alla Chiesa intera, infatti, «ha un contenuto profondamente teologico che non può essere ignorato» (p. 20). «Romero è una risorsa importante per il pensiero e per l’azione cristiana nel mondo di oggi» (p. 274).
Michael Edward Lee, dopo aver svolto per oltre quindici anni ricerche in El Salvador, illustra l’eredità teologica di san Romero delle Americhe sviluppando in particolare tre temi: la conversione, il discepolato e il martirio. Non per una mera finalità accademica, ma essenzialmente in funzione della risposta da dare ad alcune stringenti domande. Perché Óscar Arnulfo Romero, «modello della fede-che-fa-giustizia» (p. 12), è importante oggi? Come, in pieno clima di globalizzazione, i cristiani possono pensare e vivere in modo diverso (p. 24) sull’esempio del cristiano, presbitero e vescovo Óscar Romero? In che modo la scelta preferenziale per i poveri, che è all’origine del suo martirio (p. 302), può essere di stimolo per i cristiani del XXI secolo, per incarnare e testimoniare l’Evangelo di Gesù di Nazareth nella vita di ogni giorno, così da contribuire a produrre storia di salvezza e di liberazione per tutti, umanizzando la società e cristianizzando la Chiesa?
«Nella teologia di Romero, la proclamazione del regno di Dio, la chiamata alla conversione e la denuncia del peccato sono le componenti chiave del ministero di Gesù che tutti i credenti devono imitare; sono i criteri su cui si misura il discepolato cristiano autentico» (p. 170). Questi tre elementi, caratteristici della persona di Gesù, come hanno plasmato l’approccio pastorale di Romero al ruolo della Chiesa nel mondo, così dovrebbero caratterizzare l’impegno – anche a livello politico – nella società di ogni persona battezzata (p. 299). L’impegno a trasformare e ad umanizzare il mondo, a lottare contro il peccato non solo personale ma anche sociale e strutturale, a tutelare la dignità conferita da Dio e insita in ogni essere umano, a guardare la realtà delle cose dall’ottica dei poveri non è frutto di una personale sensibilità sociale ovvero un’aggiunta o un effetto collaterale della fede, ma piuttosto la dimensione necessaria di una fede viva e autentica (p. 148).
«Anche se il Credo di Calcedonia del V secolo afferma che Gesù è pienamente divino e pienamente umano, molta spiritualità cattolica della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX ha finito col focalizzare l’incarnazione in termini di affermazione della divinità di Gesù. L’incarnazione, intesa in modo particolare come uno dei misteri cristologici insieme alla crocifissione e alla risurrezione, diceva molto sul Dio che è divenuto umano in Gesù, ma non si è soffermata realmente su che tipo di essere umano Dio sia divenuto» (p. 208). E ancora. «Una fede che cerca la trascendenza di Dio non guarda lontano dal mondo e dai suoi problemi. Fa l’opposto. Esamina a fondo il cuore del mondo e vi vede la presenza di Dio. Questa presenza radicalmente misteriosa di Dio si rivela più chiaramente nel mondo dei poveri, con coloro che sono marginalizzati» (p. 210).
Nel delineare l’evoluzione del pensiero teologico del nuovo santo, Michael Edward Lee sembra condividere (p. 34) sostanzialmente quanto ama affermare il vescovo Vincenzo Paglia, postulatore della causa di beatificazione: «Óscar Romero è il primo martire del concilio Vaticano II, nel senso che è morto per aver reso concreta con la sua vita, nella sua carne, l’opzione preferenziale per i poveri». A questo proposito è interessante rilevare come sia dello stesso parere Bartolomeo Sorge, già direttore de La Civiltà Cattolica, che aveva avuto l’occasione di conoscere personalmente Romero a Puebla nel gennaio 1979, in occasione della 3ª Conferenza generale dell’episcopato latino-americano. Su Aggiornamenti Sociali (ottobre 2018), padre Sorge riporta quanto esplicitamente scritto il 31 gennaio 1980 da Romero nel suo diario: «Chi segue questa linea progressista di una Chiesa autenticamente fedele ai postulati del Vaticano II, deve soffrire molto e persino essere considerato con sospetto, ma la coscienza e la soddisfazione di servire Dio e la Chiesa valgono molto più di qualsiasi persecuzione».
L’evoluzione del pensiero teologico di Romero potrebbe essere sinteticamente espressa così: dalla teologia neoscolastica che dominò il cattolicesimo latinoamericano dall’inizio alla metà del XX secolo caratterizzata dal dualismo fra l’ordine umano e l’ordine divino, fra naturale e soprannaturale, fra corpo e anima, natura e grazia, materiale e spirituale, mondo e Chiesa, alla svolta antropologica caratterizzante la teologia del concilio Vaticano II riletta dalla Chiesa latinoamericana a Medellin (1968) e a Puebla (1979) che, da un lato, insegna con coraggio che la speranza escatologica offre nuovi motivi a sostegno dell’attuazione degli impegni terreni, dall’altro, crede fermamente che il riconoscimento del Dio rivelatosi in Gesù di Nazareth implica la tutela della dignità di ogni essere umano, in particolare dei poveri.
Il regno di Dio, annunciato da Gesù, «non è semplicemente il paradiso dell’aldilà, ma un modo riconfigurato di vedere l’esistenza umana sulla terra, in cui gli esseri umani prosperano in comunione gli uni con gli altri e con Dio» e «coloro che sono emarginati rappresentano più chiaramente il punto in cui tale comunione è spezzata, e in tal modo forniscono una missione alla Chiesa e a tutti i credenti su quella che dovrebbe essere la loro via di azione» (p. 300). Nove mesi dopo la nomina ad arcivescovo di El Salvador, nell’omelia del 4 dicembre 1977 Romero affermò: «Una religione di messe domenicali, ma di settimane ingiuste, non piace al Signore. Una religione piena di preghiere, ma con ipocrisia nel cuore, non è cristiana. Una Chiesa che si insediasse solo per trovarsi a suo agio, per possedere denaro, agio e comodità, ma che dimentichi di denunciare le ingiustizie, non sarebbe la vera Chiesa del nostro Divino Redentore». Nel febbraio 1980, un mese e mezzo prima di essere assassinato, dichiarò nel corso di una conferenza tenuta a Lovanio sul tema «Fede e politica»: «C’è una spiritualità pericolosa nel nostro tempo che dice alla Chiesa: tu devi predicare solo un mondo spirituale, devi parlare solo di Dio, del regno dei cieli e non ti devi preoccupare della terra. Così stiamo dividendo il Vangelo. Cristo è venuto a salvare gli uomini facendo attenzione anche ai loro corpi. Perciò non ci può essere una dicotomia fra i diritti di Dio e i diritti dell’uomo… Peccato è ciò che ha dato la morte al Figlio di Dio e peccato continua a essere ciò che dà la morte ai figli di Dio».
Romero santo è un dono straordinario non solo per la Chiesa cattolica, che, dal 1993, celebra il 24 marzo, data dell’assassinio di Óscar Romero, la Giornata mondiale di preghiera e digiuno per i missionari martiri. Lo è anche per ogni confessione cristiana e per gli uomini e le donne che operano a favore della tutela dei diritti umani e della dignità di chi è vittima della loro violazione. Basti pensare alla scelta della Chiesa anglicana di porre la statua del martire Romero sopra l’ingresso ovest – dedicato ai martiri del XX secolo – dell’abbazia di Westminster, accanto a quella di Martin Luther King, di Dietrich Bonhoeffer e di Massimilano M. Kolbe (e altri), o alla risoluzione A/RES/65/196 del 21 dicembre 2010 delle Nazioni Unite di celebrare, a partire dal 2011, il 24 marzo la Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime. È significativo che, nella risoluzione delle Nazioni Unite, si faccia riferimento in particolare al «lavoro importante ed estremamente utile di mons. Óscar Arnulfo Romero, di El Salvador, che si è attivamente impegnato in favore della promozione e della protezione dei diritti umani nel suo paese, e la cui attività è stata riconosciuta a livello internazionale grazie ai suoi appelli nei quali denunciava la violazione dei diritti umani delle persone più vulnerabili». Così come è emblematico che vengano richiamati i «valori difesi da mons. Romero»: la «dedizione al servizio dell’umanità, nel contesto di conflitti armati»; la sensibilità umana a «difesa dei diritti umani, alla protezione della vita e alla promozione della dignità umana»; gli «appelli costanti al dialogo e la sua opposizione a tutte le forme di violenza al fine di evitare scontri armati». Valori che hanno «portato di conseguenza alla sua morte il 24 marzo 1980». «In tutto il mondo, coloro che lottano per la giustizia, che cercano di difendere i diritti umani e cercano soluzioni pacifiche ai conflitti violenti, possono guardare a Óscar Romero per esserne ispirati» (pp. 24-25).
Nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, papa Francesco ricorda che una delle caratteristiche della santità nel mondo attuale è la parresia, cioè l’audacia, l’entusiasmo e il fervore apostolico che sollecita a mai fermarsi su «comode rive» e a vincere la tentazione di fuggire in luoghi sicuri che possono avere molti nomi: «individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme». Il santo sorprende e spiazza, perché la sua vita ci chiama ad uscire dalla mediocrità tranquilla e anestetizzante. Il santo ci ricorda che «Dio è sempre novità, che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere. Ci conduce là dove si trova l’umanità più ferita e dove gli esseri umani, al di sotto dell’apparenza, della superficialità e del conformismo, continuano a cercare la risposta alla domanda sul senso della vita… Per questo, se oseremo andare nelle periferie, là lo troveremo: Lui sarà già lì. Gesù ci precede nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima ottenebrata. Lui è già lì».
Presentandoci in modo davvero magistrale l’eredità teologica di san Romero delle Americhe, il libro di Michael Edward Lee offre stimoli preziosi per «far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità».
Dunque, l’auspicio formulato da papa Francesco il 23 maggio 2015 in occasione della beatificazione di Óscar Arnulfo Romero Galdamez, non può non che essere, alla vigilia della sua santificazione, anche il nostro: «Quanti hanno mons. Romero come amico nella fede, quanti lo invocano come protettore e intercessore, quanti ammirano la sua figura, trovino in lui la forza e il coraggio per costruire il regno di Dio e impegnarsi per un ordine sociale più equo e degno».
A. Lebra, in
SettimanaNews.it 13 ottobre 2018