Sette furono le frasi pronunciate da Gesù in croce riportate dai Vangeli: ai crocifissori: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno»; alla madre Maria: «Donna, ecco tuo figlio», al discepolo amato Giovanni: «Ecco tua madre»; al malfattore pentito, crocifisso accanto a lui: «In verità ti dico: oggi sarai con me nel paradiso». E poi: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?»; «Ho sete!»; «Tutto è compiuto!»; «Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito».
Nel suo ultimo e spiritualmente intenso saggio «Le sette parole di Gesù in croce» (Queriniana, 278 pagg., 20 €), il cardinale Gianfranco Ravasi scrive che esse sono il suo estremo e supremo testamento, scendono da un manufatto di legno, la croce, che è divenuto uno dei simboli fondamentali della cristianità. In quel giorno, attorno ad esse si stringevano le poche persone che ebbero il coraggio di stare accanto al crocefisso: la madre, Maria, alcune donne e il discepolo amato. Accanto a loro vi era anche una folla ostile attratta da uno spettacolo macabro, ma anche il centurione romano che disse “Davvero quest’uomo era figlio di Dio”, oltre e Simone di Cirene che aveva portato una parte della croce nel cammino verso il Golgota.
Quarantuno parole alle quali sono state dedicate innumerevoli interpretazioni per la loro basilare importanza in quanto la morte di Gesù è il momento supremo della Passione e la croce è il simbolo universale, tragicamente doloroso, del cristianesimo, la chiave di volta per interpretare la resurrezione. Di fronte alla croce ciascuno di noi - credente o non credente - s’interroga sul significato da dare alla vita, sul mistero di Dio. Davanti alla croce, a qualsiasi croce, anche se non di commovente bellezza come quella del pittore tedesco Mathias Grünewald, ora nel museo di Unterlinden a Colmar in Alsazia ed eseguita negli anni 1512-16, - un «capolavoro destinato a sublimare l’angoscia infinita dell’anima» ha scritto Joris Karl Huysmans – noi raccontiamo la nostra sofferenza, la nostra miseria e impotenza e ci domandiamo perché Dio sembra non rispondere ed averci abbandonato.
Le parole di Cristo prima della morte dimostrano anche la grande sofferenza fisica da Lui provata in una lunga agonia, seguita alla solitudine nell’orto di Getsemani, quando tutti i discepoli lo avevano abbandonato. Uno di loro, Giuda, lo aveva tradito e un altro, Pietro, ripetutamente rinnegato. Cristo allora chiese al padre di allontanare da lui il calice della morte, ma come voleva il padre.
Leggere Ravasi, che, come tutti sanno è presidente del Pontificio Consiglio della cultura e della Pontificia Commissione di archeologia sacra, oltre ad essere autore di oltre centocinquanta opere, costituisce sempre un arricchimento culturale indimenticabile per come trasporta nel cuore della storia, della Bibbia e del Vangelo, affrontando con una linearità narrativa esemplare temi di religione e teologia. Penetra nel mistero cristiano e costringe a riflettere, a porsi delle domande sulla fede, una fede che non è esente dalla sensazione di essere abbandonati, da dubbi, come gli disse - lo riporta in un altro volume (“Le parole e i giorni”, Milano 2008) - il grande scrittore cattolico Julien Green: «Finché si è inquieti, si può stare tranquilli».
L’autore pone il lettore visibilmente di fronte alla croce, fa sentire la terribile agonia di Gesù. Per tornare alle frasi di Cristo in Croce, ci soffermeremo sulla più sconvolgente: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» riportata nel Vangelo di Matteo e di Marco, parole che ad una prima lettura appaiono di disperazione, di sconfitta, ma Ravasi le colloca nel contesto del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? lontane dalla mia salvezza sono le parole del mio lamento! Dio mio, grido di giorno ma tu non rispondi, di notte non ho mai silenzio…».
Un grido che - continua Ravasi - «sboccia come un fiore di fuoco da un’esperienza sconcertante e sconsolante, quella del silenzio di Dio, della sua lontananza distaccata, come non di rado capita nelle parole delle suppliche del Salterio: “Dio, non rimanere muto, non restare in silenzio e inerte, o Dio, Dio della mia lode non tacere». (Salmo 83). «Da questo grido germoglia e si ramifica un vero e proprio canto intonato dal solista sofferente e indirizzato al Dio assente. Si profila sulla scena un Dio simile a un imperatore impassibile, assiso pacificamente sul suo trono regale, indifferente alle nostre lacrime e al turbinare della nostra storia». Tuttavia, per dare ancora la parola a Ravasi: «Quella di Gesù in croce non è una disperazione, non è l’attestazione di una perdita di speranza; egli grida sperando; urla sì, ma con la fiducia che Dio porrà fine al silenzio, all’alienazione della distanza». Il Salmo 22, del resto si conclude con la fiducia in Dio: «Mi hai esaudito!»
La croce, osserva l’autore, «mantiene, dunque, tutta la sua tragicità, è una domanda aperta come si ha nella quarta parola di Cristo in croce: «Dio, Dio mio perché mi hai abbandonato?», ma al tempo stesso nel Crocefisso si svela l’epifania dell’amore che non solo cancella il male, ma trasforma e trasfigura la creatura proclamando la vittoria sulla morte, la libertà e il riscatto da ogni miseria».
Ravasi descrive l’agonia di Gesù con riferimenti al vecchio testamento, essendo un biblista di fama internazionale, ed ai Vangeli senza dimenticare, e gli scritti e le note musicali più commoventi (tra altri Sant’Agostino, Pascal, Borges, Bach e Haydn), e le opere artistiche. Oltre a quella del già citato Grünewald vorremmo aggiungere il Cristo del Velasquez sul quale Miguel de Unamuno ha scritto una delle più alte espressioni della poesia spagnola.
Con accuratezza filologica l’autore analizza il significato, a volte allegorico, delle altre frasi di Cristo sulla croce: dalla considerazione sul perdono chiesto per i crocifissori al padre da Gesù, alla promessa al brigante, con lui in croce, che sarà “oggi” in paradiso, alla madre Maria alla quale affida al discepolo amato, nella quale Maria potrebbe rappresentare la chiesa, dalla richiesta di bere («Ho sete!»), fino alle ultime due sulla fine e sull’affidamento del suo spirito al padre.
L’angoscia di Cristo è quella di chi si trova di fonte al silenzio di Dio. Dio è silenzio e mistero è anche la Provvidenza. Spesso non la sappiamo riconoscere. Tuttavia rivivere la tensione della Crocifissione, come dicevamo prima, ci invita a riflettere e noi pensiamo che Dio rompa i suoi silenzi con Shakespeare, con Dante, con Pascal e Manzoni e con la musica di Bach, Mozart, Schubert e Mahler. E ciò dimostra come l’intelligenza, necessaria per capire l’arte, proceda all’unisono con la fede, non la contrasta, anzi l’avvalora e la rafforza. Aiuta a accettare il mistero di un Cristo non sceso sulla terra come vincitore, ma crocifisso perché parlava di amore e di perdono, un mistero che la storia non è riuscita ad allontanare o cancellare, in cui è racchiuso tutto il significato della nostra vita -la sconfitta della morte -, un mistero che ci rende sicuri che i nostri morti ci ascoltano e ci aiutano, malgrado il loro silenzio.
Il volume di Ravasi, per concludere, è un impeccabile e superbo scenario di fede, una fede che è sì anche lotta, agonia, tormento, sempre però alla fine vittoriosa nel nome dell’amore e del perdono.
P. Grieco, in
L’Ordine 7 luglio 2019, 2