Pastore protestante, Antoine Nouis è teologo e biblista, per anni direttore della rivista Réforme. Nel suo volume egli intende sottolineare l’importanza del Primo Testamento e del pensiero rabbinico per la comprensione del Nuovo Testamento e della figura di Gesù. Nouis preferisce parlare di “Primo Testamento” perché oggi l’aggettivo “antico” ha assunto, secondo lui, una connotazione negativa che esprime qualcosa di obsoleto, da rigettare. Egli definisce il proprio cristianesimo «rabbiniano» (p. 67), dal momento in cui, dopo trent’anni di studio, negli ultimi venti si è inoltrato nella letteratura rabbinica e nel suo ampio mare interpretativo, restandone affascinato e dipendente in modo continuativo. Nella sua opera l’autore cita varie volte alcuni stralci di questa letteratura.
Il Primo Testamento nel Nuovo Testamento
Mentre il marcionismo ripudia il Primo Testamento e il Corano lo reinterpreta per islamizzarlo, il cristianesimo attinge dal Primo Testamento come ispirazione da cui trarre cose antiche e cose nuove. La Bibbia pullula di storie ed è attraente anche per questo solo motivo. L’autore vede un influsso del Primo Testamento nelle sue tre parti – Torah, Profeti, Scritti – innanzitutto nella genealogia che apre il Vangelo di Matteo. In essa vi entrano quattro donne dalla storia irregolare. Maria vi si aggiunge con la sua vicenda. Quattrodici generazioni salgono fino a Davide, quattordici discendono fino all’esilio e le ultime quattordici risalgono fino a Gesù. Da parte loro, i profeti sono grandi critici del tempio, divenuto sede in cui si è sequestrato l’incontro con Dio grazie all’opera dei tecnici addetti – i sacerdoti – e ai sacrifici animali. L’istituzione ha soffocato la parola. La predicazione del Battista – sacerdote figlio di sacerdote – non avviene nel tempio ma nel deserto, dove attira per un battesimo di penitenza, come aveva predetto Is 40,3. I vangeli contestano implicitamente la vocazione del tempio.
Con la sua entrata regale, ma umile e pacifica, in Gerusalemme, Gesù compie la profezia di Zc 9,9-10. La purificazione del tempio (o, meglio, del culto) operata da Gesù intende riparare il furto di Dio stesso operato dall’istituzione e da una spiritualità basata più sul rituale che sull’interiorità e sulla persona. Con la sua persona, predicazione e gesti di guarigione Gesù compie la parola predetta dai profeti. L’autore ricorda però anche la discontinuità tra il giudaismo dei tempi di Gesù e il rabbinismo attuale.
I Salmi, che appartengono alla terza parte della Bibbia ebraica, punteggiano la vita di Gesù, in specie il racconto della sua passione e morte in croce. I Salmi contengono molte preghiere di lotta. Nella passione, Gesù prega il Sal 22. Si sente abbandonato da Dio ma resta in Dio, mai al di fuori di lui. Gesù fa affidamento ai salmi per invitarci a emettere il nostro grido davanti a Dio. Il Sal 118,22 («La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo») è il versetto del salmo più citato nel Nuovo Testamento ed esprime – secondo Nouis – l’interpretazione ecclesiale dello scandalo di un messia crocifisso e risorto. Ha fatto pensare l’impensabile.
I tre luoghi teologici delle genealogie, dei profeti e dei salmi mostrano secondo l’autore «un vangelo che si inscrive in una storia e in una tradizione. Togliere il Primo Testamento dalla fede cristiana equivale a privarla delle sue radici» (p. 45). Il radicamento non va però solamente accolto, ma va interpretato.
L’apporto delle radici ebraiche
Il Primo Testamento non è solo un’introduzione al Nuovo, ma contiene anche «un modo di pensare, con una grammatica particolare e giochi linguistici che danno luogo a una visione del mondo. Se il Vangelo si inscrive in una storia, si elabora in un ambito di pensiero con una maniera singolare di apprendere la questione di Dio» (p. 50).
Incarnazione
La Bibbia confessa un Dio creatore, ma senza cadere nel deismo e neppure nel panteismo. La relazione con il creato è pensata in termini di alleanza. Secondo i saggi, nell’alleanza, l’uomo dipende da Dio, ma si può affermare anche il reciproco. Alleandosi con l’uomo, Dio riconosce di aver bisogno degli esseri umani per compiere il proprio disegno, così come l’uomo ha bisogno del divino per sapersi comportare nel mondo. A Mosè è data la Torah, il nome stesso di Dio secondo il Talmud (cf. p. 54). La tradizione rabbinica è convinta che ormai la Torah non è nei cieli, nel senso che la sua applicazione ora non dipende più da una voce ma dalla maggioranza dei saggi (la Grande Assemblea che nasce dopo l’estinzione del profetismo).
La Legge si è “incarnata”, proprio come l’incarnazione è il cuore della rivelazione del Nuovo Testamento. Pensando l’incarnazione di Cristo, i cristiani si sono inseriti in una tradizione spirituale che li precedeva. La Bibbia si presenta come una grande narrazione che inizia con la creazione e culmina in Gesù Cristo. Ma se conosco solo la fine della storia, l’ho veramente capita, vissuta, abitata? Per capirla in profondità – afferma lo studioso – occorre aver vissuto con i personaggi tutto il cammino che conduce alla sua conclusione. Il Vangelo e il NT non sono caduti dal cielo, ma sono stati pensati e scritti in una corrente teologica e spirituale, in un processo di incarnazione progressiva.
Tensioni e lettura infinita
La Bibbia ebraica conosce delle tensioni, per cui, secondo molti, non è possibile delineare una teologia del Primo Testamento, ma solo varie teologie (così come nel NT). Nouis afferma che la Torah rappresenta un’identità di fondazione, i libri profetici un’identità di contestazione, mentre la raccolta degli “altri scritti” corrisponde a un’identità di universalizzazione, contenendo molti elementi presenti anche in altri ambiti culturali. Lo studioso ricorda che l’ebraismo struttura le tre parti della Bibbia ebraica secondo un ordine decrescente di importanza. Le tensioni del Primo Testamento permettono di pensare a quelle presenti nel NT. Nouis ne ricorda tre.
La prima è la tensione tra legge e libertà (cf. Paolo), necessarie entrambe, se la prima non si fossilizza. Non si tratta di scegliere ed escludere. Il riferimento al Primo Testamento permette di pensare la complessità. La seconda tensione è quella tra la fondazione e l’apertura. Nel NT sono espresse delle affermazioni sull’essere o meno con Gesù o contro Gesù che vanno interpretate nel contesto. C’è la fondazione in Gesù e c’è l’apertura verso l’altro. La terza tensione è quella fra il giudizio e il perdono. Ci sarà un giudizio ma il perdono ha sovrabbondato, pur non essendo automatico e obbligatorio.
Secondo Nouis, dire solo che ci sono teologie diverse significa ignorare la complessità. Lo studio del rabbinismo e dei saggi del giudaismo successivo ha insegnato all’autore ad apprendere la complessità, ad articolare la norma e la sua trasgressione, l’esclusivo e l’inclusivo, la giustizia e la misericordia, a pensare i dissensi. Lo studioso è giunto in tal modo a una personale comprensione del NT.
Il terzo apporto fornito dalle radici ebraiche al cristianesimo (oltre alle idee di incarnazione e di complessità) è quello fornito a riguardo dell’interpretazione delle Scritture. Il giudaismo rabbinico conosce una tradizione orale che ha lo stesso valore di quella scritta e attraverso la quale si interpreta la Bibbia (come i cristiani fanno tramite Gesù). Esso conosce anche una lettura infinita, che non equivale a cervellotica. Ogni lettura è legittima se è collegata a una tradizione che la supporta.
L’autore cita una pagina del Talmud in cui si illustrano molte spiegazioni circa il tempo e la modalità in cui si compiranno i tempi messianici (con elementi anche contraddittori fra di loro, ma tutti supportati dalla Bibbia o da altri saggi precedenti). Il Talmud si presenta come un discorso irriducibilmente plurale.
Uno sguardo nuovo e apertura sull’attualità
La scoperta della lettura rabbinica ha aperto all’autore orizzonti infiniti e fecondi. Egli fornisce tre esempi di come la lettura rabbinica entri in risonanza col NT, fornendo uno sguardo nuovo. I pesantissimi “guai” rivolti da Gesù ai farisei in Mt 23 trovano un parallelo in una pagina del Talmud (scritto da farisei) che illustra sette tipi di farisei: l’esibizionista, il temporeggiatore, il “pestello” (cioè con la testa bassa per falsa umiltà), il calcolatore fra colpe e buone azioni per compensarle, il previdente (osserva un precetto per poterne violare un altro della stessa importanza), il fariseo per timore, il fariseo per amore, come Abramo. Quest’ultimo è l’unico amato da Dio. Non si tratta della critica di rappresentanti di un movimento religioso, ma di un cattivo posizionamento davanti a Dio. Si può rileggere Mt 23 sostituendo il termine fariseo con quello di cristiano.
Nell’allegoria delle due mogli di Abramo elaborata da Paolo nella Lettera ai Galati per illustrare la schiavitù e la libertà, l’Apostolo inverte gli elementi. Alla schiava Agar sono associati il monte Sinai e Gerusalemme, cioè il dono della Legge, della liberazione e dell’indipendenza di Israele. Paolo si avvale di aperture presenti nella tradizione (la donna libera e la donna schiava) per far vivere il racconto biblico, confrontandolo con le problematiche attuali. Nutrito della lettura infinita dei rabbini, Paolo rilegge le Scritture accettando il rischio dell’interpretazione e dell’attualizzazione. Il racconto biblico non è un fatto del passato intoccabile. È certo che con la sua teologia fatta «a colpi di martello» (p. 78) Paolo non ha mancato di creare scandalo fra i saggi del suo tempo. Ai suoi interlocutori Paolo ricorda che «è nell’esercizio della libertà che essi sono veri figli di Abramo, eredi di una promessa che passa dalla donna libera, e non dalla donna schiava» (p. 78).
I commentari rabbinici si preoccupano più di una lettura attualizzante delle Scritture che non di una di tipo storico. La Lettera agli Ebrei ricorda l’importanza di evitare “oggi” la ribellione contro Dio e contro Mosè attuata dal popolo di Israele nel deserto (cf. Eb 3,7-8 che cita Sal 95,7-8). Per Eb l’“oggi” del salmista diventa quello della prima Chiesa, diventa l’oggi del lettore del nostro tempo.
Nouis ricorda come la religione possa chiudersi in se stessa e generare mostri. Occorre perciò aprirsi al volto dell’altro.
«Ai miei occhi – afferma lo studioso – il giudaismo è un volto teologico e spirituale che dovrebbe impedire al cristianesimo di rinchiudersi in una concezione troppo esclusiva della propria verità» (p. 82).
Recuperare le radici
Tre ragioni esplicitano secondo Nouis la protezione che la presa in considerazione delle proprie radici ebraiche può offrire di fronte ai mostri generati dal cristianesimo. La prima è una ragione teologica. L’idolatria minaccia il teologo quando egli è incline ad assimilare il suo discorso su Dio con Dio stesso, avendo il dominio su di lui. Allora tutto diventa possibile. «Basarsi sul Primo Testamento è un modo per dire che la parola di Dio sarà sempre in eccesso rispetto alla mia comprensione e al mio discorso» (p. 83). La ragione storica è dovuta invece alla straordinaria sopravvivenza di Israele, che crede nello stesso Dio dei cristiani, nonostante tutte le persecuzioni. Secondo Nouis, se uno legge la storia guidato dal Vangelo e con gli occhiali di Cristo, non può non vedere in questo popolo oppresso, ma sempre vivo, un segno della traccia di Dio nella storia. Non possiamo ignorare la stupefacente ricchezza di sapienza, di riflessione, di studio, di fede e di preghiera presente nella modalità ebraica di leggere le Scritture. Secondo Nouis, il cristiano non può ignorare questa ricca tradizione. La ragione etica, infine, sta nel fatto che prendere in considerazione il Primo Testamento come radice, con la sua prossimità e la sua differenza, è un’apertura che permette di concedere un posto all’altro nel mio sistema di pensiero. Confrontandosi con il Primo Testamento, altro da sé, il cristianesimo «non satura il campo del significato, ma lascia uno spazio per il dialogo e per l’incontro con altre parole di verità […] Appoggiarsi su una fonte che mi è estranea è un modo per aprire uno spazio che permette alla parola dotata di senso di circolare» (p. 85).
Diciassette ragioni…
Diciassette sono le ragioni elencate da Nouis nella conclusione del suo volume per credere alle radici ebraiche. Gesù e gli apostoli, Paolo e i primi missionari, erano ebrei. Gesù è la realizzazione di un’attesa espressa da generazioni di credenti. Il Vangelo parla di una incarnazione della parola. Questa si inscrive in una tradizione. Il Primo Testamento è il terriccio in cui i libri del NT sono stati pensati. Togliere i riferimenti alla Bibbia ebraica rende fragile il NT. Gesù in persona ha espresso il primo di tutti i comandamenti citando Dt 6,4-5.
In Rm 9,2-5 Paolo, il cantore della libertà cristiana (e secondo Nouis uno dei fondatori del cristianesimo), ha espresso un dolore enorme per l’incredulità dei suoi correligionari nei confronti di Gesù. Di essi ricorda però i numerosi e preziosi privilegi storico-teologici. Se si tolgono i personaggi e le storie del Primo Testamento, la fede cristiana diverrebbe più piccola, più triste, respirerebbe meno bene. Il Primo Testamento è inoltre copioso di creatività (miti, racconti, tragedie, epopee, parabole, preghiere, proverbi ecc.).
Nouis crede, inoltre, nelle radici ebraiche del cristianesimo perché il pensiero rabbinico è ricco come la vita, e non povero come un’ideologia. Egli ricorda come la prima Chiesa non si è sbarazzata del Primo Testamento, dichiarando di essere portatrice di una verità radicalmente nuova che rende obsolete le rivelazioni precedenti. Paolo ricorda che tutto è un dono. Il Vangelo non è caduto dal cielo, ma è il frutto di un’attesa e di una storia. Il riconoscimento delle radici ebraiche porta all’umiltà, al sentirsi portati da una fonte diversa da se stessi: «Le mie radici mi ricordano che il Dio che io servo è più grande di ciò che so di lui» (p. 90). I commentari dei saggi sono ricchi di pepite di intelligenza e di sapienza che parlano del Dio in cui crede anche il cristiano. Se il popolo ebraico non esistesse, il mondo sarebbe enormemente più povero di arte, letteratura, poesia, filosofia, scienze e umanità.
Ancora, Nouis crede alle radici ebraiche perché Israele è stato perseguitato regolarmente e il versetto salmico più citato nel NT dice che «La pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d’angolo». Il cuore della rivelazione cristiana – la passione di Gesù – evoca il progetto di annientamento del popolo di Israele e della sua tradizione religiosa. Non si può mantenere alcun senso della storia che possa essere difeso voltando le spalle ad Auschwitz.
L’ultima ragione del motivo per il quale Nouis crede nelle radici ebraiche della sua fede cristiana sta nel fatto che non è stato lui ad averle scelte, ma sono state loro che lo hanno portato, nutrito e convocato. L’autore ha letto per cinquant’anni il Primo Testamento e da trenta lo ha fatto con l’aiuto dei commentari dei saggi, trovandovi un nutrimento per la propria fede. Nelle ultime righe del suo scritto Nouis conferma perciò quello che ha scritto Paul Claudel: «La prova del pane è che nutre; la prova del vino è che inebria; la prova della verità è la vita; e la prova della vita è che fa vivere!» (p. 91).
Termino queste righe mentre giunge la notizia della morte a Gerusalemme di p. Frederic Manns, esegeta francescano, grande studioso delle radici ebraiche del cristianesimo. Viva in Dio e goda il premio della gioia del suo Signore, del quale ha diffuso con amore infinito la Parola.
R. Mela, in
SettimanaNews.it 4 gennaio 2022