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Le nostre radici ebraiche
Antoine Nouis

Le nostre radici ebraiche

Prezzo di copertina: Euro 12,00 Prezzo scontato: Euro 11,40
Collana: Sintesi
ISBN: 978-88-399-2966-2
Formato: 11,5 x 19 cm
Pagine: 96
Titolo originale: Nos racines juives
© 2021

In breve

Prefazione di Marion Muller-Colard

«Questo è un libro essenziale: ci mette in guardia contro ogni pretesa di crescere “fuori dal terreno”, come se non avessimo radici, come se non fossimo stati generati nel corso di una lunga storia che non ha ancora finito di partorirci» (Marion Muller-Colard).
Una lettera d’amore ai nostri “fratelli maggiori”. Un libro che, con passione e umiltà, riconosce il debito dei cristiani verso Israele: una eredità positiva, gioiosa, da condividere.

Descrizione

«Credo alle radici ebraiche perché credo che Gesù di Nazaret sia la realizzazione di un’attesa espressa da generazioni di credenti», spiega con calore il biblista Antoine Nouis. «E se Gesù non è il frutto di questa attesa, tutto il Nuovo Testamento è menzogna».
Questo agile libro ci invita così a ritrovare le nostre profonde radici ebraiche, in maniera tale da farci riscoprire tutta l’importanza del Primo Testamento (non chiamiamolo “Antico”, che evoca qualcosa di desueto), autentico fondamento dei vangeli. Ancora di più: la conoscenza della tradizione ebraica, del Talmud e del pensiero rabbinico ci fa entrare in una formidabile eredità che viene a nutrire il nostro pensiero e la nostra umanità, tanto quanto a dare spessore alla nostra fede.

«Ho scritto questo libro per condividere una convinzione: la prima parte delle nostre Bibbie non rientra tanto in ciò che è “antico”, perciò desueto, quanto in ciò che è “primo”, dunque fondamentale».

Recensioni

A lungo direttore del settimanale francese “Reforme”, il teologo, pastore e biblista protestante Antoine Nouis, con questo suo breve ma accattivante saggio, illustra il perché sia profondamente innamorato del Primo Testamento nutrendosi, nel corso della sua vita spirituale, dello straordinario pensiero rabbinico. È lo stesso Nouis a suggerire sin dalle prime pagine di usare la dicitura «Primo Testamento» anziché quella di «Antico Testamento»: con la prima, infatti, si evoca tramite l’aggettivo ciò che si trova in principio, ciò che fa da fondamento, che sostiene una «struttura».

Con una scrittura distinta e chiara nell’esporre il proprio pensiero, l’autore sottolinea l’importanza delle parabole, il cui uso è largamente testimoniato dai vangeli: essi non sono né una ripetizione delle Scritture ebraiche, né tantomeno qualcosa di totalmente nuovo, piuttosto si presentano come un inestricabile intreccio tra le due cose. Al riguardo scrive Nouis: «La particolarità del cristianesimo è che esso non è la sua origine, ma è portato da una radice che gli è estranea» (p. 10). Se il marcionismo, condannato dalla Chiesa antica, opponeva il Dio severo del Primo Testamento al Dio d’amore del Secondo operando un’indebita semplificazione ideologica in ordine alla complessità e all’articolazione che sottende i due, il Corano, dal canto suo, a parere dell’islam restaura una verità in precedenza corrotta o dimenticata dagli ebrei e dai cristiani. Proprio per questo nel mondo musulmano non sempre c’è la dovuta attenzione agli scritti che hanno preceduto l’ultima e definitiva rivelazione.

A differenza dei due citati approcci, la tradizione cristiana, rifiutandoli, opta per un procedimento di ispirazione nei confronti della Bibbia ebraica da cui ha tratto cose antiche e cose nuove, una tensione, dunque, costituita allo stesso tempo da radicamento e riletture. Nouis argutamente fa notare come, a differenza del pensiero selvaggio, studiato da Levi-Strauss come linguaggio mitico, o del pensiero greco che si basa sulla dialettica, o ancora una volta del Corano che preferisce la predicazione, le Scritture bibliche abbiano privilegiato un tipo particolare di narrazione che si pone fra il mito e la storia. Non a caso il teologo francese si richiama al poeta Christian Bobin per esprimere tale particolarità: «La Bibbia è un libro fatto di molti libri, e in ciascuno di questi libri vi sono molte frasi, e in ognuna di queste frasi molte stelle, olivi e fontane, asinelli e alberi di fico, campi di grano e pesci – e il vento, dovunque il vento, il malva del vento della sera, il rosa della brezza mattutina, il nero delle grandi tempeste» (p. 13).

Con queste immagini Nouis esamina il Libro che, pur nella diversità, mette in relazione i cristiani con gli ebrei: un’analisi effettuata, come lui stesso confessa apertamente, con l’emisfero sinistro del cervello da teologo e con quello destro da bambino, entrambi uniti nel cogliere la parola e il soffio che la stessa Bibbia emana ininterrottamente. La prima parte del saggio, «Il Primo Testamento nel Nuovo Testamento», pertanto, approfondisce la genealogia teologica, i profeti, e i salmi. Da tale approfondimento emerge che le Scritture ebraiche non sono solo una sorta di introduzione a quelle cristiane, ma sono anche un modo di pensare con una specifica grammatica e con giochi linguistici che danno luogo a una autentica visione del mondo. Ciò necessariamente comporta che: «Se il Vangelo si inscrive in una storia, si elabora in un ambito di pensiero con una maniera singolare di apprendere la questione di Dio» (p. 50).

Nella seconda parte, «L’apporto delle radici ebraiche», forte da quanto precede, Nouis si sofferma su quelle che considera come le tensioni innervanti le diverse parti della Bibbia ebraica. Tensioni in grado di offrire, nel loro insieme, una robusta cornice atta a sviluppare altre tensioni che attraversano il Secondo Testamento, come ad esempio quelle tra la legge e la libertà o tra il giudizio e il perdono. Tutto questo determina una lettura infinita del testo biblico. Al riguardo i cristiani hanno come modello l’ermeneutica ebraica, una lezione, quella della Torah orale, che dovrebbe sempre accompagnare il loro approccio alle Scritture.

In definitiva, perché Nouis crede alle radici della sua fede cristiana? Non lo sa, non è lui che le ha scelte, sono loro che ce lo hanno condotto, nutrito e convocato. Un nutrimento e una convocazione che il teologo francese propone a ogni singolo credente in Gesù ilCristo.


D. Segna, in Protestantesimo 1/2024, 63-64

Le nostre radid ebraiche del pastore protestante Antoine Nouis, parroco della chiesa riformata di Francia oltre che teologo e biblista particolarmente sensibile alle questioni sulla trasmissione della fede, è un libro di appena 91 pagine che tuttavia svolge una funzione "essenziale" – come riporta la teologa protestante Marion Muller-Colard nella Prefazione – perché «ci mette in guardia contro ogni pretesa di crescere fuori dal terreno, come se non fossimo stati generati nel corso di una lunga storia che ci precede, ci nutre e non ha ancora finito di partorirci» (p. 5). E aggiunge: «Le nostre radici ebraiche non è tuttavia né una lezione, né un pamphlet: è una lettera d'amore che si declina in entusiasmo, umiltà e riconoscimento di un debito» (Ibid.).

In effetti in ogni pagina traspare una intensità interiore, una sensibilità umana e spirituale, un coinvolgimento personale dell'A. tanto da affermare: «Questo libro, essenziale per me, mi dà occasione di precisare il mio rapporto con la Scrittura, con la storia e con l'incarnazione» (p. 7). Ciò viene ripreso, quasi nella forma di una professione di fede, nella Conclusione intitolata Credo alle radici ebraiche della fede cristiana (pp. 87-91). Per ben 17 volte ripete "credo" motivandolo di volta in volta, confessando un principio fondamentale definito "parte di un mistero". Alla domanda "Perché credo alle radici ebraiche della mia fede", egli risponde dicendo: «Non lo so, non sono io che le ho scelte, sono loro che mi hanno portato, nutrito e convocato» (p. 90). Si tratta di unprincipio, di «un modo di pensare, con una grammatica particolare» (p. 50) che ci mette in gioco con ciò che ci precede, ci sceglie e ci determina.

Infatti, il Primo Testamento è una raccolta che pullula di storie con le quali si entra in una relazione di prossimità e di tensione. Contiene dei “luoghi teologici”, le genealogie, i profeti e i salmi, che non solo introducono alla comprensione di Dio mi anche «mostrano un Vangelo che si inscrive in una storia e in una tradizione» (p. 45). Se si toglie il Primo Testamento, la fede cristiana viene privata delle sue radici, il messaggio evangelico del Nuovo Testamento diventa "insipido"; «tutto il processo di incarnazione che è il cuore del suo messaggio» diventa incomprensibile (p. 57).

Su questa tesi Nouis costruisce le due parti del libro, Il Primo Testamento nel Nuovo Testamento (prima parte) e L’apporto delle radici ebraiche (seconda parte). Di quest'ultima meritano attenzione i capitoletti. 5-8 nei quali l'A. mostra in primo luogo la tensione che attraversa le diverse parti della Bibbia ebraica (la Torah, i Neviim e i Ketuvim) che fa da cornice ad altre tensioni che attraversano il Nuovo Testamento, ossia la legge e la libertà, la fondazione e l'apertura, il giudizio e il perdono. Si tratta di tensioni che «mi portano a pensare la pluralità e mi impediscono di barricarmi in una teologia che si richiude su se stessa» (p. 65).

In secondo luogo egli invita a ripensare anche l'interpretazione delle Scritture ricordando il fatto che il Primo Testamento regge su due piedi: la Torah scritta che è la Bìbbia ebraica e la Torah orale che è tutto il corpus di commentari e riflessioni sulla Torah scritta che è stato pensato e insegnato dai rabbini. Anche in questo caso si deve ritenere che «Dio non si lascia mai rinchiudere in un'interpretazione unica. Poiché egli è infinito, è necessario aver un'infinità di risposte per parlarne con giustezza» (p. 73).

In terzo luogo il pensiero rabbinico. Esso costituisce «un'apertura sull'infinito, in quanto afferma che ogni testo può avere una pluralità di significati e che le interpretazioni diverse non si contrappongono le une alle altre, ma si arricchiscono reciprocamente» (p. 75).

Questa idea può aiutare la teologia e le religioni a vincere la tentazione idolatrica (ritenersi padroni delle cose ultime) e la minaccia dell'assolutismo. A tal proposito egli ricorda l'immagine del moralista Bernard Quelquejeu con la quale paragona la religione alla nitroglicerina: essa «è capace di scavare tunnel per permettere alle persone di incontrarsi, ma anche di distruggere case» (p. 81). Per questo e altri motivi occorre dare il giusto posto al giudaismo il quale è «un volto teologico e spirituale che dovrebbe impedire al cristianesimo di rinchiudersi in una concezione esclusiva della verità» (p. 82), che «permette di concedere un posto all'altro nel mio sistema di pensiero» (p. 84). Quando il cristianesimo si basa su una fonte che non è lui stesso (il Primo Testamento) «non satura il campo del significato, ma lascia uno spazio per il dialogo e per l'incontro con altre parole di verità» (p. 85).

Ciò che muove Nouis a perorare la causa delle "nostre radici ebraiche" è la ricerca sincera di una sapienza teologica e spirituale. Egli mostra da una parte di saper fare autocritica sulla teologia protestante (si veda quanto scrive a p. 81 sulla sua teologia unita a insonnie), dall'altra una apertura totale alla ricerca del senso del Primo Testamento che lui dice di voler esaminare «con l'emisfero sinistro del mio cervello da teologo e l'emisfero destro da bambino, per analizzare la parola e accogliere il soffio» (p. 14).


G. Zambon, in Studia Patavina 1/2023, 201-203

Antoine Nouis, pastore protestante, teologo e biblista versato nella letteratura rabbinica, tanto da definire la sua adesione al cristianesimo con un aggettivo particolare «rabbiniano», con il libro «Le nostre radici ebraiche» (Queriniana) introduce il lettore nel vasto mare dei Maestri d’Israele. Ritiene che siano tre i luoghi teologici che consentono di comprendere il Vangelo di Marco come «un Vangelo che si inscrive in una storia e in una tradizione. Togliere il Primo Testamento dalla fede cristiana equivale a privarla delle sue radici»: le genealogie, i profeti e i salmi.

Nouis accentua un dato molto importante e da non sottovalutare: l’Antico Testamento, che Nouis preferisce chiamare Primo Testamento, non è soltanto una sorta di passaggio introduttivo al Nuovo, ma incarna «un modo di pensare, con una grammatica particolare e giochi linguistici che danno luogo a una visione del mondo. Se il Vangelo si inscrive in una storia, si elabora in un ambito di pensiero con una maniera singolare di apprendere la questione di Dio».

Sappiamo dal Talmud che a Mosé è stata donata la Torah, quindi il Nome dell’Altissimo, ne consegue che la Torah stessa non è più nei cieli ma donata a Israele che deve applicarla ascoltando il parere della maggioranza dei saggi (la Grande Assemblea che nasce dopo l’estinzione del profetismo). La Legge si è ‘incarnata’, proprio come l’incarnazione è il cuore del Nuovo Testamento: il Signore Gesù incarnandosi diventa il vertice di questa discesa di incarnazione progressiva nei secoli.

Interessante e peculiare è cogliere quanto Nouis definisce identità che si specifica in tre modalità: la Torah, cioè l’identità di fondazione; i libri profetici, cioè l’identità di contestazione; tutti gli altri scritti dimostrano l’identità di universalizzazione. Emerge ancora una volta una scansione a tre, questa volta esplicitata considerando la tensione fra legge e libertà; fra la fondazione e l’apertura; fra giudizio e perdono. La conoscenza delle radici ebraiche consente al pastore di sottolineare la tipicità dell’interpretazione delle Scritture: la presenza e il valore attribuito alla tradizione orale pari a quella scritta. Lo slancio che ne nasce assume il colore dell’infinito, cioè di letture infinite, sempre però appoggiate ad una tradizione antecedente.

Ritorna ancora il numero tre, ovvero le ragioni che proteggono qualora si considerino le radici ebraiche: la ragione teologica, per cui basarsi sul Primo Testamento è un modo per dire che la parola di Dio sarà sempre in eccesso rispetto alla mia comprensione e al mio discorso; la ragione storica è rappresentata dallo stesso popolo d’Israele sopravvissuto nei secoli attraversando persecuzioni che avrebbero voluto eliminarlo; la ragione etica: il cristianesimo «non satura il campo del significato, ma lascia uno spazio per il dialogo e per l’incontro con altre parole di verità […]».

Nelle ultime righe del suo scritto Nouis conferma perciò quello che ha scritto Paul Claudel: «La prova del pane è che nutre; la prova del vino è che inebria; la prova della verità è la vita; e la prova della vita è che fa vivere!». Infine 17 ragioni per credere alle radici ebraiche: il lettore, immergendosi in questa lettera d’amore, agile e semplice, le potrà scoprire.
C. Dobner, in La Voce e il Tempo 2 ottobre 2022

Pastore protestante, Antoine Nouis è teologo e biblista, per anni direttore della rivista Réforme. Nel suo volume egli intende sottolineare l’importanza del Primo Testamento e del pensiero rabbinico per la comprensione del Nuovo Testamento e della figura di Gesù. Nouis preferisce parlare di “Primo Testamento” perché oggi l’aggettivo “antico” ha assunto, secondo lui, una connotazione negativa che esprime qualcosa di obsoleto, da rigettare. Egli definisce il proprio cristianesimo «rabbiniano» (p. 67), dal momento in cui, dopo trent’anni di studio, negli ultimi venti si è inoltrato nella letteratura rabbinica e nel suo ampio mare interpretativo, restandone affascinato e dipendente in modo continuativo. Nella sua opera l’autore cita varie volte alcuni stralci di questa letteratura.

Il Primo Testamento nel Nuovo Testamento

Mentre il marcionismo ripudia il Primo Testamento e il Corano lo reinterpreta per islamizzarlo, il cristianesimo attinge dal Primo Testamento come ispirazione da cui trarre cose antiche e cose nuove. La Bibbia pullula di storie ed è attraente anche per questo solo motivo. L’autore vede un influsso del Primo Testamento nelle sue tre parti – Torah, Profeti, Scritti – innanzitutto nella genealogia che apre il Vangelo di Matteo. In essa vi entrano quattro donne dalla storia irregolare. Maria vi si aggiunge con la sua vicenda. Quattrodici generazioni salgono fino a Davide, quattordici discendono fino all’esilio e le ultime quattordici risalgono fino a Gesù. Da parte loro, i profeti sono grandi critici del tempio, divenuto sede in cui si è sequestrato l’incontro con Dio grazie all’opera dei tecnici addetti – i sacerdoti – e ai sacrifici animali. L’istituzione ha soffocato la parola. La predicazione del Battista – sacerdote figlio di sacerdote – non avviene nel tempio ma nel deserto, dove attira per un battesimo di penitenza, come aveva predetto Is 40,3. I vangeli contestano implicitamente la vocazione del tempio.

Con la sua entrata regale, ma umile e pacifica, in Gerusalemme, Gesù compie la profezia di Zc 9,9-10. La purificazione del tempio (o, meglio, del culto) operata da Gesù intende riparare il furto di Dio stesso operato dall’istituzione e da una spiritualità basata più sul rituale che sull’interiorità e sulla persona. Con la sua persona, predicazione e gesti di guarigione Gesù compie la parola predetta dai profeti. L’autore ricorda però anche la discontinuità tra il giudaismo dei tempi di Gesù e il rabbinismo attuale.

I Salmi, che appartengono alla terza parte della Bibbia ebraica, punteggiano la vita di Gesù, in specie il racconto della sua passione e morte in croce. I Salmi contengono molte preghiere di lotta. Nella passione, Gesù prega il Sal 22. Si sente abbandonato da Dio ma resta in Dio, mai al di fuori di lui. Gesù fa affidamento ai salmi per invitarci a emettere il nostro grido davanti a Dio. Il Sal 118,22 («La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo») è il versetto del salmo più citato nel Nuovo Testamento ed esprime – secondo Nouis – l’interpretazione ecclesiale dello scandalo di un messia crocifisso e risorto. Ha fatto pensare l’impensabile.

I tre luoghi teologici delle genealogie, dei profeti e dei salmi mostrano secondo l’autore «un vangelo che si inscrive in una storia e in una tradizione. Togliere il Primo Testamento dalla fede cristiana equivale a privarla delle sue radici» (p. 45). Il radicamento non va però solamente accolto, ma va interpretato.

L’apporto delle radici ebraiche

Il Primo Testamento non è solo un’introduzione al Nuovo, ma contiene anche «un modo di pensare, con una grammatica particolare e giochi linguistici che danno luogo a una visione del mondo. Se il Vangelo si inscrive in una storia, si elabora in un ambito di pensiero con una maniera singolare di apprendere la questione di Dio» (p. 50).

Incarnazione

La Bibbia confessa un Dio creatore, ma senza cadere nel deismo e neppure nel panteismo. La relazione con il creato è pensata in termini di alleanza. Secondo i saggi, nell’alleanza, l’uomo dipende da Dio, ma si può affermare anche il reciproco. Alleandosi con l’uomo, Dio riconosce di aver bisogno degli esseri umani per compiere il proprio disegno, così come l’uomo ha bisogno del divino per sapersi comportare nel mondo. A Mosè è data la Torah, il nome stesso di Dio secondo il Talmud (cf. p. 54). La tradizione rabbinica è convinta che ormai la Torah non è nei cieli, nel senso che la sua applicazione ora non dipende più da una voce ma dalla maggioranza dei saggi (la Grande Assemblea che nasce dopo l’estinzione del profetismo).

La Legge si è “incarnata”, proprio come l’incarnazione è il cuore della rivelazione del Nuovo Testamento. Pensando l’incarnazione di Cristo, i cristiani si sono inseriti in una tradizione spirituale che li precedeva. La Bibbia si presenta come una grande narrazione che inizia con la creazione e culmina in Gesù Cristo. Ma se conosco solo la fine della storia, l’ho veramente capita, vissuta, abitata? Per capirla in profondità – afferma lo studioso – occorre aver vissuto con i personaggi tutto il cammino che conduce alla sua conclusione. Il Vangelo e il NT non sono caduti dal cielo, ma sono stati pensati e scritti in una corrente teologica e spirituale, in un processo di incarnazione progressiva.

Tensioni e lettura infinita

La Bibbia ebraica conosce delle tensioni, per cui, secondo molti, non è possibile delineare una teologia del Primo Testamento, ma solo varie teologie (così come nel NT). Nouis afferma che la Torah rappresenta un’identità di fondazione, i libri profetici un’identità di contestazione, mentre la raccolta degli “altri scritti” corrisponde a un’identità di universalizzazione, contenendo molti elementi presenti anche in altri ambiti culturali. Lo studioso ricorda che l’ebraismo struttura le tre parti della Bibbia ebraica secondo un ordine decrescente di importanza. Le tensioni del Primo Testamento permettono di pensare a quelle presenti nel NT. Nouis ne ricorda tre.

La prima è la tensione tra legge e libertà (cf. Paolo), necessarie entrambe, se la prima non si fossilizza. Non si tratta di scegliere ed escludere. Il riferimento al Primo Testamento permette di pensare la complessità. La seconda tensione è quella tra la fondazione e l’apertura. Nel NT sono espresse delle affermazioni sull’essere o meno con Gesù o contro Gesù che vanno interpretate nel contesto. C’è la fondazione in Gesù e c’è l’apertura verso l’altro. La terza tensione è quella fra il giudizio e il perdono. Ci sarà un giudizio ma il perdono ha sovrabbondato, pur non essendo automatico e obbligatorio.

Secondo Nouis, dire solo che ci sono teologie diverse significa ignorare la complessità. Lo studio del rabbinismo e dei saggi del giudaismo successivo ha insegnato all’autore ad apprendere la complessità, ad articolare la norma e la sua trasgressione, l’esclusivo e l’inclusivo, la giustizia e la misericordia, a pensare i dissensi. Lo studioso è giunto in tal modo a una personale comprensione del NT.

Il terzo apporto fornito dalle radici ebraiche al cristianesimo (oltre alle idee di incarnazione e di complessità) è quello fornito a riguardo dell’interpretazione delle Scritture. Il giudaismo rabbinico conosce una tradizione orale che ha lo stesso valore di quella scritta e attraverso la quale si interpreta la Bibbia (come i cristiani fanno tramite Gesù). Esso conosce anche una lettura infinita, che non equivale a cervellotica. Ogni lettura è legittima se è collegata a una tradizione che la supporta.

L’autore cita una pagina del Talmud in cui si illustrano molte spiegazioni circa il tempo e la modalità in cui si compiranno i tempi messianici (con elementi anche contraddittori fra di loro, ma tutti supportati dalla Bibbia o da altri saggi precedenti). Il Talmud si presenta come un discorso irriducibilmente plurale.

Uno sguardo nuovo e apertura sull’attualità

La scoperta della lettura rabbinica ha aperto all’autore orizzonti infiniti e fecondi. Egli fornisce tre esempi di come la lettura rabbinica entri in risonanza col NT, fornendo uno sguardo nuovo. I pesantissimi “guai” rivolti da Gesù ai farisei in Mt 23 trovano un parallelo in una pagina del Talmud (scritto da farisei) che illustra sette tipi di farisei: l’esibizionista, il temporeggiatore, il “pestello” (cioè con la testa bassa per falsa umiltà), il calcolatore fra colpe e buone azioni per compensarle, il previdente (osserva un precetto per poterne violare un altro della stessa importanza), il fariseo per timore, il fariseo per amore, come Abramo. Quest’ultimo è l’unico amato da Dio. Non si tratta della critica di rappresentanti di un movimento religioso, ma di un cattivo posizionamento davanti a Dio. Si può rileggere Mt 23 sostituendo il termine fariseo con quello di cristiano.

Nell’allegoria delle due mogli di Abramo elaborata da Paolo nella Lettera ai Galati per illustrare la schiavitù e la libertà, l’Apostolo inverte gli elementi. Alla schiava Agar sono associati il monte Sinai e Gerusalemme, cioè il dono della Legge, della liberazione e dell’indipendenza di Israele. Paolo si avvale di aperture presenti nella tradizione (la donna libera e la donna schiava) per far vivere il racconto biblico, confrontandolo con le problematiche attuali. Nutrito della lettura infinita dei rabbini, Paolo rilegge le Scritture accettando il rischio dell’interpretazione e dell’attualizzazione. Il racconto biblico non è un fatto del passato intoccabile. È certo che con la sua teologia fatta «a colpi di martello» (p. 78) Paolo non ha mancato di creare scandalo fra i saggi del suo tempo. Ai suoi interlocutori Paolo ricorda che «è nell’esercizio della libertà che essi sono veri figli di Abramo, eredi di una promessa che passa dalla donna libera, e non dalla donna schiava» (p. 78).

I commentari rabbinici si preoccupano più di una lettura attualizzante delle Scritture che non di una di tipo storico. La Lettera agli Ebrei ricorda l’importanza di evitare “oggi” la ribellione contro Dio e contro Mosè attuata dal popolo di Israele nel deserto (cf. Eb 3,7-8 che cita Sal 95,7-8). Per Eb l’“oggi” del salmista diventa quello della prima Chiesa, diventa l’oggi del lettore del nostro tempo.

Nouis ricorda come la religione possa chiudersi in se stessa e generare mostri. Occorre perciò aprirsi al volto dell’altro.

«Ai miei occhi – afferma lo studioso – il giudaismo è un volto teologico e spirituale che dovrebbe impedire al cristianesimo di rinchiudersi in una concezione troppo esclusiva della propria verità» (p. 82).

Recuperare le radici

Tre ragioni esplicitano secondo Nouis la protezione che la presa in considerazione delle proprie radici ebraiche può offrire di fronte ai mostri generati dal cristianesimo. La prima è una ragione teologica. L’idolatria minaccia il teologo quando egli è incline ad assimilare il suo discorso su Dio con Dio stesso, avendo il dominio su di lui. Allora tutto diventa possibile. «Basarsi sul Primo Testamento è un modo per dire che la parola di Dio sarà sempre in eccesso rispetto alla mia comprensione e al mio discorso» (p. 83). La ragione storica è dovuta invece alla straordinaria sopravvivenza di Israele, che crede nello stesso Dio dei cristiani, nonostante tutte le persecuzioni. Secondo Nouis, se uno legge la storia guidato dal Vangelo e con gli occhiali di Cristo, non può non vedere in questo popolo oppresso, ma sempre vivo, un segno della traccia di Dio nella storia. Non possiamo ignorare la stupefacente ricchezza di sapienza, di riflessione, di studio, di fede e di preghiera presente nella modalità ebraica di leggere le Scritture. Secondo Nouis, il cristiano non può ignorare questa ricca tradizione. La ragione etica, infine, sta nel fatto che prendere in considerazione il Primo Testamento come radice, con la sua prossimità e la sua differenza, è un’apertura che permette di concedere un posto all’altro nel mio sistema di pensiero. Confrontandosi con il Primo Testamento, altro da sé, il cristianesimo «non satura il campo del significato, ma lascia uno spazio per il dialogo e per l’incontro con altre parole di verità […] Appoggiarsi su una fonte che mi è estranea è un modo per aprire uno spazio che permette alla parola dotata di senso di circolare» (p. 85).

Diciassette ragioni…

Diciassette sono le ragioni elencate da Nouis nella conclusione del suo volume per credere alle radici ebraiche. Gesù e gli apostoli, Paolo e i primi missionari, erano ebrei. Gesù è la realizzazione di un’attesa espressa da generazioni di credenti. Il Vangelo parla di una incarnazione della parola. Questa si inscrive in una tradizione. Il Primo Testamento è il terriccio in cui i libri del NT sono stati pensati. Togliere i riferimenti alla Bibbia ebraica rende fragile il NT. Gesù in persona ha espresso il primo di tutti i comandamenti citando Dt 6,4-5.

In Rm 9,2-5 Paolo, il cantore della libertà cristiana (e secondo Nouis uno dei fondatori del cristianesimo), ha espresso un dolore enorme per l’incredulità dei suoi correligionari nei confronti di Gesù. Di essi ricorda però i numerosi e preziosi privilegi storico-teologici. Se si tolgono i personaggi e le storie del Primo Testamento, la fede cristiana diverrebbe più piccola, più triste, respirerebbe meno bene. Il Primo Testamento è inoltre copioso di creatività (miti, racconti, tragedie, epopee, parabole, preghiere, proverbi ecc.).

Nouis crede, inoltre, nelle radici ebraiche del cristianesimo perché il pensiero rabbinico è ricco come la vita, e non povero come un’ideologia. Egli ricorda come la prima Chiesa non si è sbarazzata del Primo Testamento, dichiarando di essere portatrice di una verità radicalmente nuova che rende obsolete le rivelazioni precedenti. Paolo ricorda che tutto è un dono. Il Vangelo non è caduto dal cielo, ma è il frutto di un’attesa e di una storia. Il riconoscimento delle radici ebraiche porta all’umiltà, al sentirsi portati da una fonte diversa da se stessi: «Le mie radici mi ricordano che il Dio che io servo è più grande di ciò che so di lui» (p. 90). I commentari dei saggi sono ricchi di pepite di intelligenza e di sapienza che parlano del Dio in cui crede anche il cristiano. Se il popolo ebraico non esistesse, il mondo sarebbe enormemente più povero di arte, letteratura, poesia, filosofia, scienze e umanità.

Ancora, Nouis crede alle radici ebraiche perché Israele è stato perseguitato regolarmente e il versetto salmico più citato nel NT dice che «La pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d’angolo». Il cuore della rivelazione cristiana – la passione di Gesù – evoca il progetto di annientamento del popolo di Israele e della sua tradizione religiosa. Non si può mantenere alcun senso della storia che possa essere difeso voltando le spalle ad Auschwitz.

L’ultima ragione del motivo per il quale Nouis crede nelle radici ebraiche della sua fede cristiana sta nel fatto che non è stato lui ad averle scelte, ma sono state loro che lo hanno portato, nutrito e convocato. L’autore ha letto per cinquant’anni il Primo Testamento e da trenta lo ha fatto con l’aiuto dei commentari dei saggi, trovandovi un nutrimento per la propria fede. Nelle ultime righe del suo scritto Nouis conferma perciò quello che ha scritto Paul Claudel: «La prova del pane è che nutre; la prova del vino è che inebria; la prova della verità è la vita; e la prova della vita è che fa vivere!» (p. 91).

Termino queste righe mentre giunge la notizia della morte a Gerusalemme di p. Frederic Manns, esegeta francescano, grande studioso delle radici ebraiche del cristianesimo. Viva in Dio e goda il premio della gioia del suo Signore, del quale ha diffuso con amore infinito la Parola.


R. Mela, in SettimanaNews.it 4 gennaio 2022