Qual è un’interpretazione adeguata di Gen 3? Questo testo sostiene che gli esseri umani generalmente intesi sono peccatori e perversi in conseguenza del peccato originale? Cosa intendere con il concetto di “peccato originale”? È sinonimo di “caduta”?
Questi interrogativi guidano l’indagine di Mark S. Smith nel volume costituito da un’introduzione, sette capitoli e un epilogo. L’esegeta americano, docente di Letteratura ed Esegesi dell’Antico Testamento presso il Princeton Theological Seminary, studia uno dei capitoli più celebri della Bibbia con l’intenzione di fornire elementi testuali grazie ai quali dimostrare che molti assunti di fede diffusi ordinariamente tra i cristiani sono frutto più delle rispettive tradizioni teologiche che non risultato di un esame e un’ermeneutica adeguati dei testi.
L’A. dichiara che, nella sua ricerca, intende contrastare la lettura di Gen 3 proposta da Giovanni Calvino, per il quale «gli esseri umani sono immersi interamente nel peccato a causa del peccato originale di Adamo ed Eva. La conseguenza fu la “caduta” del genere umano con l’allontanamento dalla grazia di Dio» (p. 5).
Senza la pretesa di offrire una lettura originale di Gen 3, ma appoggiandosi sui risultati di eminenti studiosi che lo hanno preceduto, Smith indaga i testi con un’attenzione tanto diacronica quanto sincronica e, in modo particolare, osservandone l’orizzonte culturale e riconoscendo le procedure di una lettura retrospettiva. L’espressione «orizzonte culturale» denota, per l’A., «i testi e le tradizioni che erano noti a diversi autori antichi mentre questi componevano le proprie opere» (p. 21). La «lettura retrospettiva», invece, considera il fenomeno letterario per cui «gli scrittori più tardi proiettino retroattivamente in Gen 3 l’orizzonte culturale corrispondente ai testi e alle tradizioni che essi vedevano come autorevoli» (p. 23).
Riconoscendo quanto raro sia il tema della caduta nella Scrittura – anche a livello squisitamente lessicale – e come esso, noto nel periodo greco-romano in riferimento agli angeli decaduti e applicato successivamente all’umanità (pp. 25-43), nel secondo capitolo (pp. 44-50) sono passate in rassegna le differenti interpretazioni circa la “natura” del peccato originale narrato in Gen 3. Il terzo capitolo (pp. 51-70) è dedicato alla presentazione delle principali interpretazioni contemporanee del testo genesiaco. L’assenza di un vocabolario specifico indicante la caduta o la reazione divina all’insegna della collera, porta l’A. a sostenere che «gli interpreti hanno sovrimposto a Gen 3 idee su peccato e disobbedienza, sull’ira divina o sul castigo divino che si trovano in altri testi della Bibbia» (p. 55).
Più che tematizzare il peccato/caduta, il testo genesiaco sviluppa principalmente la categoria del desiderio: questo è l’assunto principale del quarto capitolo (pp. 71-92). Se, infatti, in Gen 3 l’atto del mangiare dall’albero non è qualificato come peccato, disobbedienza o trasgressione, è pur vero che «il desiderio precede la conoscenza del bene e del male, e la paura che la segue» (p. 87). Il racconto, pertanto, focalizza la questione del desiderio, presente in un contesto che sfocerà nell’esperienza della morte, ma che a livello narrativo non presenta ancora né la morte né il peccato.
Il quinto capitolo (pp. 93-104) si dedica a rilevare i nessi letterari tra Gen 3 e Gen 4, per giungere a sostenere che «la conoscenza in campo morale giunge solo dopo – e perché – la donna e l’uomo non prestano ascolto a Dio. […] Il comando di Dio sull’obbedienza – non mangiare l’albero – viene prima che gli esseri umani possano realmente esercitarla, prima che essi conoscano la differenza tra il bene e il male» (p. 102). In un certo senso, il comando divino suscita il desiderio nei progenitori: questo, tuttavia, non può essere ancora considerato peccato. Piuttosto, è in Gen 4 che questo prende forma attraverso «le ricadute derivanti dalla nuova conoscenza acquisita dall’umanità riguardo al bene e al male e dalla nuova capacità umana di compierlo» (p. 103). Il peccato compare, allora, come una potenzialità della condizione umana rispetto all’ambito della bontà e della malvagità.
Con il sesto capitolo (pp. 105-113), l’A. giunge a enunciare la sua tesi: rilevando le connessioni lessicali tra Gen 2-4 e Gen 6 sembrerebbe che il redattore «abbia costruito il racconto su desiderio, peccato e malvagità a ritroso, partendo dal diluvio e risalendo sino alla creazione degli esseri umani. In altre parole, il racconto jahvista è stato generato a partire da una lettura retrospettiva delle tradizioni che egli aveva ricevuto» (p. 113). Osservando complessivamente Gen 1-11 sono identificabili due filoni morali dell’umanità, sintetizzabili nell’espressione «conoscenza del bene e del male». Un primo filone è connotato in chiave negativa: si parte dal desiderio e dalla conoscenza della prima coppia in Gen 3, per giungere al peccato e all’assassinio di Gen 4 e, infine, alla degenerazione complessiva del male umano in Gen 6. Il male che era implicitamente presente nell’albero della conoscenza ha prodotto i suoi frutti nel genere umano al tempo del diluvio. Questo filone negativo suggerisce l’idea di peccato originale generalmente attribuito a Gen 2-3. Il secondo filone implica, invece, la bontà della creazione umana raccontata in Gen 1 e incarnata in alcune figure (Enoc, Noè).
Nel capitolo conclusivo (pp. 114-117) Smith, alla luce dei risultati dell’indagine, cerca di mostrare che gli esseri umani, secondo il libro della Genesi, non sono radicalmente malvagi. Quest’ultima interpretazione è conseguenza delle tradizioni teologiche interpretative successive, ma non reggono alla prova testuale.
Nell’epilogo l’A. solleva alcune provocazioni di carattere ermeneutico, alla luce di alcuni cliché delle tradizioni cristiane: è necessario il diavolo per spiegare le origini del peccato originale? La libertà umana è sufficiente a spiegare adeguatamente la disobbedienza umana? Si può stare davanti a Dio anche senza conoscere dai testi biblici le risposte a tutte le questioni umane, compresa quella riguardante il bene e il male?
Il pregio dello studio di Smith è sicuramente lo sguardo critico e serrato al testo di Gen 3 alla luce anche della ricca tradizione letteraria del Vicino Oriente Antico, come pure un’apertura alle concezioni e interpretazioni ebraiche del racconto. Ne emerge una lettura esegetica grazie alla quale la semplificazione ermeneutica diffusasi nei secoli lascia lo spazio alla reale complessità del testo. Il guadagno di questa indagine è la dimostrazione che Gen 3 più che tematizzare il peccato, la trasgressione, la disobbedienza o la punizione cerca di tratteggiare la condizione umana in rapporto al desiderio e alla bontà, al peccato e al male vissuti in relazione a Dio.
Questa apertura ermeneutica dei testi è una risorsa per ampliare il dialogo con altre discipline, in primis quante si occupano della dimensione del desiderio nella realtà antropologica, per un arricchimento reciproco e sanamente critico tra l’annuncio della Rivelazione e le prospettive delle discipline umanistiche.
A. Albertin, in
Studia Patavina 2/2024, 375-377