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La genesi del bene e del male
Mark S. Smith

La genesi del bene e del male

La (ri)caduta e il peccato originale nella Bibbia

Prezzo di copertina: Euro 28,00 Prezzo scontato: Euro 26,60
Collana: Biblioteca Biblica 35
ISBN: 978-88-399-2035-5
Formato: 16 x 23 cm
Pagine: 200
Titolo originale: The Genesis of Good and Evil. The Fall(out) and Original Sin in the Bible
© 2022

In breve

«Questo libro suscita più domande di quanto non dia risposte; e non potrebbe essere altrimenti. Ma a coloro che sono interessati a ulteriori esplorazioni, esso offre anche una enorme ricchezza di risorse» (Christopher B. Hays).

Un’analisi esegetica stimolante, proposta con una scrittura fluida e incisiva.

Descrizione

Che cosa dice veramente il racconto su Adamo, Eva e il frutto proibito? Per secoli è stato una pietra angolare per la dottrina cristiana del “peccato originale”. Negli ultimi anni molti studiosi hanno però contestato questa interpretazione abituale, perché in Genesi 3 non si parla di peccato, trasgressione, disobbedienza o punizione, ma si delineano i tratti della condizione umana (nel bene e nel male). D’altro canto, il quadro è troppo complesso e strutturato per essere liquidato in maniera così semplice.
Smith analizza il racconto biblico con uno sguardo critico e approfondito, esaminando specialmente il controverso concetto di “caduta” a partire dalla ricca tradizione letteraria del Vicino Oriente Antico. In un serrato dialogo con la ricerca esegetica più recente, l’autore dimostra che il racconto delle origini fissato nei primi capitoli della Genesi costituisce un’esplorazione del desiderio e della bontà, del peccato e del male negli esseri umani, posti in relazione a Dio.
Lo specialista americano ci spinge così magistralmente a riscoprire il senso autentico del concetto di “peccato originale” a partire da una lettura fedele dell’intera narrazione biblica. In questo senso, andando oltre le interpretazioni tradizionali o moderne, egli ne deduce che è meglio parlare di “ricaduta” piuttosto che di “caduta”.

Recensioni

Qual è un’interpretazione adeguata di Gen 3? Questo testo sostiene che gli esseri umani generalmente intesi sono peccatori e perversi in conseguenza del peccato originale? Cosa intendere con il concetto di “peccato originale”? È sinonimo di “caduta”?

Questi interrogativi guidano l’indagine di Mark S. Smith nel volume costituito da un’introduzione, sette capitoli e un epilogo. L’esegeta americano, docente di Letteratura ed Esegesi dell’Antico Testamento presso il Princeton Theological Seminary, studia uno dei capitoli più celebri della Bibbia con l’intenzione di fornire elementi testuali grazie ai quali dimostrare che molti assunti di fede diffusi ordinariamente tra i cristiani sono frutto più delle rispettive tradizioni teologiche che non risultato di un esame e un’ermeneutica adeguati dei testi.

L’A. dichiara che, nella sua ricerca, intende contrastare la lettura di Gen 3 proposta da Giovanni Calvino, per il quale «gli esseri umani sono immersi interamente nel peccato a causa del peccato originale di Adamo ed Eva. La conseguenza fu la “caduta” del genere umano con l’allontanamento dalla grazia di Dio» (p. 5).

Senza la pretesa di offrire una lettura originale di Gen 3, ma appoggiandosi sui risultati di eminenti studiosi che lo hanno preceduto, Smith indaga i testi con un’attenzione tanto diacronica quanto sincronica e, in modo particolare, osservandone l’orizzonte culturale e riconoscendo le procedure di una lettura retrospettiva. L’espressione «orizzonte culturale» denota, per l’A., «i testi e le tradizioni che erano noti a diversi autori antichi mentre questi componevano le proprie opere» (p. 21). La «lettura retrospettiva», invece, considera il fenomeno letterario per cui «gli scrittori più tardi proiettino retroattivamente in Gen 3 l’orizzonte culturale corrispondente ai testi e alle tradizioni che essi vedevano come autorevoli» (p. 23).

Riconoscendo quanto raro sia il tema della caduta nella Scrittura – anche a livello squisitamente lessicale – e come esso, noto nel periodo greco-romano in riferimento agli angeli decaduti e applicato successivamente all’umanità (pp. 25-43), nel secondo capitolo (pp. 44-50) sono passate in rassegna le differenti interpretazioni circa la “natura” del peccato originale narrato in Gen 3. Il terzo capitolo (pp. 51-70) è dedicato alla presentazione delle principali interpretazioni contemporanee del testo genesiaco. L’assenza di un vocabolario specifico indicante la caduta o la reazione divina all’insegna della collera, porta l’A. a sostenere che «gli interpreti hanno sovrimposto a Gen 3 idee su peccato e disobbedienza, sull’ira divina o sul castigo divino che si trovano in altri testi della Bibbia» (p. 55).

Più che tematizzare il peccato/caduta, il testo genesiaco sviluppa principalmente la categoria del desiderio: questo è l’assunto principale del quarto capitolo (pp. 71-92). Se, infatti, in Gen 3 l’atto del mangiare dall’albero non è qualificato come peccato, disobbedienza o trasgressione, è pur vero che «il desiderio precede la conoscenza del bene e del male, e la paura che la segue» (p. 87). Il racconto, pertanto, focalizza la questione del desiderio, presente in un contesto che sfocerà nell’esperienza della morte, ma che a livello narrativo non presenta ancora né la morte né il peccato.

Il quinto capitolo (pp. 93-104) si dedica a rilevare i nessi letterari tra Gen 3 e Gen 4, per giungere a sostenere che «la conoscenza in campo morale giunge solo dopo – e perché – la donna e l’uomo non prestano ascolto a Dio. […] Il comando di Dio sull’obbedienza – non mangiare l’albero – viene prima che gli esseri umani possano realmente esercitarla, prima che essi conoscano la differenza tra il bene e il male» (p. 102). In un certo senso, il comando divino suscita il desiderio nei progenitori: questo, tuttavia, non può essere ancora considerato peccato. Piuttosto, è in Gen 4 che questo prende forma attraverso «le ricadute derivanti dalla nuova conoscenza acquisita dall’umanità riguardo al bene e al male e dalla nuova capacità umana di compierlo» (p. 103). Il peccato compare, allora, come una potenzialità della condizione umana rispetto all’ambito della bontà e della malvagità.

Con il sesto capitolo (pp. 105-113), l’A. giunge a enunciare la sua tesi: rilevando le connessioni lessicali tra Gen 2-4 e Gen 6 sembrerebbe che il redattore «abbia costruito il racconto su desiderio, peccato e malvagità a ritroso, partendo dal diluvio e risalendo sino alla creazione degli esseri umani. In altre parole, il racconto jahvista è stato generato a partire da una lettura retrospettiva delle tradizioni che egli aveva ricevuto» (p. 113). Osservando complessivamente Gen 1-11 sono identificabili due filoni morali dell’umanità, sintetizzabili nell’espressione «conoscenza del bene e del male». Un primo filone è connotato in chiave negativa: si parte dal desiderio e dalla conoscenza della prima coppia in Gen 3, per giungere al peccato e all’assassinio di Gen 4 e, infine, alla degenerazione complessiva del male umano in Gen 6. Il male che era implicitamente presente nell’albero della conoscenza ha prodotto i suoi frutti nel genere umano al tempo del diluvio. Questo filone negativo suggerisce l’idea di peccato originale generalmente attribuito a Gen 2-3. Il secondo filone implica, invece, la bontà della creazione umana raccontata in Gen 1 e incarnata in alcune figure (Enoc, Noè).

Nel capitolo conclusivo (pp. 114-117) Smith, alla luce dei risultati dell’indagine, cerca di mostrare che gli esseri umani, secondo il libro della Genesi, non sono radicalmente malvagi. Quest’ultima interpretazione è conseguenza delle tradizioni teologiche interpretative successive, ma non reggono alla prova testuale.

Nell’epilogo l’A. solleva alcune provocazioni di carattere ermeneutico, alla luce di alcuni cliché delle tradizioni cristiane: è necessario il diavolo per spiegare le origini del peccato originale? La libertà umana è sufficiente a spiegare adeguatamente la disobbedienza umana? Si può stare davanti a Dio anche senza conoscere dai testi biblici le risposte a tutte le questioni umane, compresa quella riguardante il bene e il male?

Il pregio dello studio di Smith è sicuramente lo sguardo critico e serrato al testo di Gen 3 alla luce anche della ricca tradizione letteraria del Vicino Oriente Antico, come pure un’apertura alle concezioni e interpretazioni ebraiche del racconto. Ne emerge una lettura esegetica grazie alla quale la semplificazione ermeneutica diffusasi nei secoli lascia lo spazio alla reale complessità del testo. Il guadagno di questa indagine è la dimostrazione che Gen 3 più che tematizzare il peccato, la trasgressione, la disobbedienza o la punizione cerca di tratteggiare la condizione umana in rapporto al desiderio e alla bontà, al peccato e al male vissuti in relazione a Dio.

Questa apertura ermeneutica dei testi è una risorsa per ampliare il dialogo con altre discipline, in primis quante si occupano della dimensione del desiderio nella realtà antropologica, per un arricchimento reciproco e sanamente critico tra l’annuncio della Rivelazione e le prospettive delle discipline umanistiche.


A. Albertin, in Studia Patavina 2/2024, 375-377

Chi abbia avuto una significativa istruzione religiosa in ambito cattolico o protestante si sarà imbattuto quasi certamente nel concetto di «peccato originale», tipicamente presentato come un aspetto fondante della dottrina cristiana incluso in essa sin dalle origini. Se n'è occupato di recente il biblista cattolico statunitense Mark S. Smith, docente al Princeton Theological Seminary, in un libro accuratissimo: La genesi del bene e del male La (ri)caduta e il peccato originale nella Bibbia (Queriniana, 2022).

È una ricerca che aiuta a comprendere come mai quel concetto si è conquistato un grande spazio nel cristianesimo occidentale (cattolici e protestanti), mentre nel cristianesimo orientale (ortodossi e alcune Chiese locali) si è generalmente affermato il concetto di «peccato ancestrale» e nell’originale pensiero ebraico non era presente né l’uno né l’altro (benché l'idea di peccato facesse ampiamente parte della tradizione biblica).

Il primo dei tre concetti implica una misteriosa trasmissione del «peccato di Adamo ed Eva» ad ogni essere umano, macchiando in modo radicale la sua anima e ferendo il suo rapporto con Dio. Il secondo implica un peccato personale di Adamo ed Eva ma non include affatto la sua trasmissione ai loro discendenti, che secondo questa concezione hanno quindi semplicemente subìto le conseguenze pratiche della cacciata dall'Eden, senza alcuna «macchia sull'anima di ciascuno». ll terzo è molto sfaccettato: da una rigorosa analisi linguistico-lessicale dell'originale ebraico dei capitoli 2 e 3 del libro biblico della Genesi risulta un'assenza di termini che rimandino a un senso di peccato o di male, mentre emergono questioni molto più complesse, con più domande che risposte... Per di più, il cristianesimo originario appare del tutto estraneo a questa tematica, dal momento che nell'intero testo evangelico non vi è nemmeno un riferimento alla narrazione biblica su Adamo ed Eva.

Agostino d'Ippona e gli ortodossi

L'esame dell'antica letteratura ebraica e cristiana rivela ineludibilmente che l'idea del «peccato originale» ha preso inizialmente forma nella letteratura apocalittica ebraica – come mostra la cosiddetta Apocalisse di Esdra, composta nel tardo I secolo d.C. – ed è emersa nella cristianità più di 300 anni dopo. Nella letteratura cristiana fu Agostino d'Ippona nella sua tarda età – durante i primi decenni del V secolo – a proporre con forza quell’idea, facendo riferimento a un brano di un'epistola di Paolo: Romani 5,12-21. Purtroppo per Agostino e per gli altri che dipendevano linguisticamente dal latino, anche quella lettera paolina – come tutti i testi del Nuovo Testamento – era originariamente in greco e la traduzione latina a loro disposizione (la Vulgata di Girolamo) era radicalmente errata in un punto cruciale del brano: il versetto 5,12. Ciò contribuì a indirizzare l'allora vescovo d'lppona verso un'errata lettura sia dell'epistola sia di quei capitoli della Genesi, ai quali Paolo si ispirava in quel brano.

L’enorme diversità esistente tra la concezione agostiniana del peccato attribuito a Adamo ed Eva e la concezione ortodossa ha portato inevitabilmente molti, nel corso dei secoli, a notare e commentare tale diversità. Nonostante il palese accumulo di errori interpretativi presente nella concezione agostiniana, il suo influsso ha segnato moltissimo il cattolicesimo e ancor più diversi rami del protestantesimo, nell'ambito del quale Calvino, nel XVI secolo, sviluppò la posizione di Agostino con toni ancor più aspri. In pratica, non si può non rendersi conto che è il «peccato ancestrale» della tradizione ortodossa (basata direttamente sul greco) a poter essere considerato frutto di una lettura corretta del brano paolino in questione.

La Genesi e Paolo di Tarso

Ma Smith va ancor più in là e mette in evidenza che, mentre gli accenti effettivi di Genesi 2-3 erano di tutt'altro genere rispetto alla valenza rappresentata dal commettere il peccato e il male, le interpretazioni nettamente posteriori che evocano tale valenza appaiono esser state mediate da una «lettura retrospettiva» che prese accenti, temi e lessico dalla parte successiva di quel libro biblico – cioè da Genesi 4–8 con i suoi drammatici racconti su Caino e Abele e sul «diluvio di Noè» – e li riproiettò all'indietro sui capitoli precedenti, dando ovviamente di questi una lettura non fedele al testo reale e quindi sostanzialmente scorretta.

Anche se Genesi 2–3 nella sua versione definitiva appare databile verso il VI secolo a.C., i soli scritti a noi noti che esprimano quella valenza prima di Cristo sono il Siracide (del II secolo a.C.) e un unico testo – noto come Opera sapienziale A – fra gli innumerevoli rotoli del mar Morto. Ciò attesta che nel pensiero ebraico tale valenza rimase estremamente rara per secoli.

Il primo scritto che sappiamo essere ritornato su di essa dopo la nascita di Cristo è proprio la lettera paolina ai Romani. Smith suggerisce dunque che anche Paolo sia stato coinvolto in quella «lettura retrospettiva» e che inoltre l'abbia espansa e forzata ancor più perché voleva stabilire in quella sua lettera una specularità tra il «nuovo» Cristo portatore della salvezza spirituale e della risurrezione nel mondo e il «vecchio» Adamo che – in quanto contrapposto in ciò a Cristo – doveva esser stato portatore non solo della morte ma anche del peccato nel mondo. Si tratta di un significativo rilievo critico che si affianca evidentemente alle contraddizioni di fondo rilevate da tempo negli scritti paolini dalla teologia femminista e da altri.

Strati nella Bibbia

In sé e per sé la narrazione contenuta in Genesi 2–3 non presenta una «caduta», ma semplicemente la «ricaduta» (nel senso di effetto concreto) di una complessa vicenda secondo cui i nostri mitici progenitori dovettero abbandonare il loro originario luogo di vita, piacevole ma non libero. La moderna esegesi biblica ha anche scoperto nei primi capitoli della Genesi strati culturali provenienti da varie tradizioni mediorientali e intrecciati profondamente tra loro, inclusi antichi miti politeisti: il tutto in una revisione testuale collegata a delle élite intellettuali ebraiche del periodo intorno al VI secolo a.C. e mirata ad affermare con decisione il monoteismo e la cultura patriarcale.

Bisognerebbe dunque rendersi pienamenteconto che la vicenda biblica di Adamo ed Eva non è affatto un resoconto storico, ma una costruzione letteraria in cui si incrociano simboli – e forse ricordi mitici – tratti da molteplici origini culturali e animati da molteplici intenti redazionali.

Smith e i Vangeli

Smith ha anche sparso nel testo apprezzamenti per vari discorsi di Agostino, Calvino e altri sostenitori del peccato originale, mostrando che non si tratta affatto di un testo di guerra contro qualche figura storica o istituzione religiosa, ma di una costruttiva ricerca nata dall'amore per la verità e la vita. Un tale approccio avrebbe anche la capacità potenziale di risolvere buona parte dei conflitti dottrinali che da secoli dividono le varie confessioni cristiane l'una dall'altra.

È infine da sottolineare che nei Vangeli stessi si trovano diversi discorsi che in sostanza appaiono incompatibili con l'idea che tra ogni essere umano che nasce e il divino vi sia una radicale frattura dovuta al peccato originale. Può bastare a questo proposito la parabola del figliol prodigo, nella quale i figli (cioè l'umanità) nascono nella casa del Padre e – se vogliono – possono continuare a vivere in essa liberamente e tranquillamente. Insomma, anche i Vangeli danno sostegno e profonda vicinanza a quest'opera di Mark S. Smith.


L. Benedini, in Rocca 18/2023, 20-21

Mentre preparava un corso dedicato alla Riforma, Mark S. Smith, biblista cattolico americano, che ha tenuto corsi anche al Pontificio Istituto Biblico di Roma, fu preso profondamente dalla domanda su come fosse giunto il cristianesimo occidentale all’idea secondo la quale si è pensato che gli esseri umani, in base a Gen 3, siano «caduti» e siano segnati intimamente dal peccato. Questo libretto tenta di rispondere a tale domanda.

Nei primi tre capitoli l'autore fornisce delle informazioni essenziali sulle interpretazioni cristiane tradizionali e sulle ermeneutiche moderne di Gen 3. In primo luogo Gen 3 e Gen 4 in connessione con Gen 6,5-8 apporta un ritratto profondamente psicologico della natura umana. La psicologia che traspare in questi capitoli genesiaci è strettamente legata al loro effetto drammatico. Fornire informazioni o spiegazioni non è il fine principale del racconto di Gen 2-3. L’autore narra in modo drammatico. Mentre ci addentriamo in questo testo ci è possibile riconoscere qualche tratto di noi stessi nei personaggi e nelle situazioni che si dispiegano davanti. Le Scritture ci aiutano a riconoscere la nostra propria Adam-itàed Ev-ità.

Mark S. Smith suggerisce di leggere insieme Gen 3–4 e Gen 6. Questi capitoli rappresentano in maniera ampiamente drammatica ciò che la dottrina del peccato originale (o almeno del peccato ancestrale) attribuisce a Gen 3. Con questi tre capitoli il libro della Genesi menziona gli «ingredienti principali» del peccato originale. Gen 3–6 non delinea tanto la caduta, quanto la ricaduta derivante dal desiderio umano in Gen 3, dalla quale risultano poi il peccato in Gen 4 e la malvagità umana in Gen 6. Secondo l'autore Gen 3 funge da "prefazione" a un racconto più lungo, dove il peccato fa il suo ingresso in scena in maniera esplicita solo in Gen 4 e acquista un'espressione più piena manifestandosi come "male'' all'inizio del racconto del diluvio in Gen 6.

Il bene e il male dell'albero della conoscenza è solo la prima di una serie di tematiche che conducono alla perversità umana di Gen 6. Un unico autore biblico avrebbe assemblato diversi di questi racconti, creando molti collegamenti verbali tra la storia di Adamo e di Eva in Gen 3 e quella di Caino e Abele in Gen 4. Riguardo alla datazione di Gen 2–3 Mark S. Smith accetta di collocarli come altri esegeti, tra i quali Jean Louis Ska, in una cornice temporale più tarda del tempo salomonico.

Però non si dovrebbe andare a una data corrispondente al periodo persiano. Il suo argomento è ex silentio, l'assenza di parole di origine persiana, in particolare del termine pardes («paradiso»), che avrebbe sostituito benissimo il termine gan («giardino»). L’autore si domanda in concreto cosa dice e cosa non dice Gen 3. Le parole divine sono presentate come «comandi», quindi ci sono delle conseguenze che derivano dalle azioni compiute da Adamo e Eva. Di certo la ri-caduta non è buona, poiché del serpente si dice che è «maledetto» e all'uomo Dio dichiara che il suolo è maledetto «a causa tua». I comandi divini hanno un peso reale e ce l'hanno anche le risposte divine rivolte alla coppia umana che li ha trasgrediti.

Tuttavia, in maniera paradossale il linguaggio che esprime specificamente il peccato umano, la disobbedienza e il castigo spesso ascritto alle azioni di Adamo e Eva narrate in Gen 3, non compare in questo capitolo. E qui Mark S. Smith fa un'osservazione che mi sembra importante sul modo di interpretare un testo per coglierne la parola di Dio. Possiamo distinguere tra ciò che il testo afferma esplicitamente, ciò che suggerisce per mezzo di indizi contestuali e ciò che i lettori ritengono di poter inferire da esso.

Questa osservazione di Mark S. Smith ci pone una domanda: entro quale cornice vogliamo leggere un testo biblico? La Costituzione Dei Verbum, al n. 12, ricorda la prima cornice fondamentale: l'esegeta deve ricercare con attenzione cosa gli agiografi abbiano inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Poi la cornice si allarga e si aggiunge che per ricercare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura all'interno di una terza cornice ancora più larga: «Tenuto in debito conto della viva tradizione di tutta la chiesa e dell'analogia della fede» (DV 12).

In concreto, Mark S. Smith legge Gen 3 nel contesto di Gen 1-11 dove egli vede rappresentata una progressione dell'umanità in due filoni morali, condensati nell'espressione: «Conoscenza del bene e del male». Un filone negativo implica il racconto dal desiderio alla conoscenza della prima coppia umana narrati in Gen 3, al peccato all'assassinio da parte di uno dei suoi figli in Gen 4 e, infine, al male umano in senso generale in Gen 6 e 8. Il male implicito nell'albero della conoscenza del bene e del male (Gen 2,9.17; 3,5.12) ha prodotto pienamente i suoi frutti nel genere umano al tempo del diluvio.

L’altro filone implica la bontà della creazione umana presentata in Gen 1; bontà che si incarna in figure come Abele, Enoc e Noè. Lesposizione di Smith è chiara e brevi sunti alla fine di ogni capitolo aiutano il lettore a prepararsi al prosieguo del discorso. Sono d'accordo con il giudizio dato da Christopher B. Hays: «Questo libro suscita più domande di quanto non dia risposte».


T. Lorenzin, in CredereOggi 253 (1/2023), 149-151

Mark S. Smith, classe 1955, insegna letteratura ed esegesi dell’Antico Testamento presso il Princeton Theological Seminary. Questa sua opera è dedicata al secondo racconto di creazione (cfr Gen 2–3). Il discorso verte su ciò che accade attorno all’albero del «conoscere bene e male» (p. 166, nota 38).

Le congetture dell’autore, esposte brevemente, sono le seguenti. Gen 3 delinea un ritratto della natura umana al cui centro c’è il desiderio. Di peccato propriamente non si parla (mancano termini espliciti, come quelli di Ez 28,16), e neppure di caduta (come nel Sal 82,7) o di male in senso stretto (il desiderio è menzionato ben prima che il male entri nella storia).

Né l’uomo né la donna sono maledetti, e Dio non si mostra irato o offeso, nonostante sia un Dio emotivamente reattivo, dolente, pentito, premuroso come un buon genitore. Maledetti sono invece il suolo e il serpente. Il testo biblico descrive insomma il degrado della condizione creaturale, quale ri-caduta di alcuni eventi nefasti.

Sul piano morale, la curiosità dei progenitori non è condannata come necessariamente pericolosa, e la conoscenza di per sé è considerata cosa buona (la divinità stessa la possiede). Il vero tema di Gen 2–3 non è quindi la caduta da uno stato di grazia, ma l’ascesa verso la cosciente responsabilità da parte di esseri che erano simili a bambini inesperti o a soggetti poveri di senno (come in Pr 7,7 o nel Sal 19,8).

D’altra parte, l’astuzia del serpente può essere associata, per certi versi, alla prudenza che il credente ottiene dalla Sapienza (cfr Pr 1,4 e 8,5). Del resto, se la coppia umana era priva di sufficiente comprensione morale, non poteva essere imputata di colpe nell’assecondare un desiderio spontaneo alimentato dalle opere di Dio, dato che l’albero era stato fatto desiderabile, allettante, buono da mangiare.

Sono le libere conseguenze della maturazione cognitiva a essere purtroppo penose e nefaste: paura, vergogna, dolore nel parto, sottomissione al patriarcato, fatica nel lavoro. Gen 2–3 tratteggia l’eziologia di tratti antropologici storicamente e socialmente diffusi.

Solo al capitolo 4, con la vicenda di Caino, il peccato si manifesta in modo esplicito come ri-caduta appunto di un’umanità più matura, ma esposta alla trasgressione. E al capitolo 6 appare in tutta evidenza il male, quella cattiveria che induce addirittura YHWH a pentirsi d’aver creato l’uomo (cfr Gen 6,6).

Il racconto della Genesi, secondo Smith, ha inevitabilmente dei limiti. Esso non scioglie alcuni «enigmi morali»: perché il Signore crea il serpente? Perché non chiarisce le ragioni della proibizione di mangiare il frutto? Perché il divieto è formulato prima che gli esseri umani siano in grado di esercitare responsabilmente l’obbedienza? Perché Dio colloca l’albero al centro del giardino? Perché non si adira? Perché, più avanti, non accetta il sacrificio di Caino?

Gen 2–3 sarebbe quindi la narrazione di una ri-caduta: fall (out) nel titolo originale. In inglese to fall out significa «accadere», «fuoriuscire», «produrre ripercussioni». Smith dissente dall’idea di Calvino che gli esseri umani siano tutti e interamente immersi nel peccato (e quindi allontanati dalla grazia di Dio) a causa della colpa originaria di Adamo ed Eva.

Altre tradizioni religiose – ortodossa, ebraica, musulmana – si limitano del resto a registrare i cambiamenti indotti dal cedimento alle lusinghe del serpente, ma non attribuiscono l’oggettiva miseria dell’umanità e l’inclinazione al male alla trasmissione automatica – «biologica» – di un peccato dei progenitori, a causa del quale nasceremmo tutti contaminati e completamente perversi.

L’autore scrive che «l’idea che Adamo ed Eva fossero già malvagi quando mangiarono il frutto proibito non è biblica» (p. 47). Autorevoli commentatori, come sant’Agostino, ispirandosi a san Paolo, avrebbero enfatizzato in maniera «retrospettiva» il ruolo di Adamo, partendo dalla visione di Cristo come salvatore e confrontandolo con Adamo, in modo da rappresentare quest’ultimo quale responsabile della trasgressione ancestrale.


P. Cattorini, in La Civiltà Cattolica 4139 (3/17 dicembre 2022), 517-518

>«Lo studio biblico è diventato non la scienza della Bibbia, ma dei suoi studiosi: la Bibbia, però, non è stata scritta per gli studiosi... Conoscere tutti i dati a proposito di un testo non è ancora capire il testo... Non si riesce a leggere tutto su un soggetto: ci si sente colpevoli. Si riesce a leggere tutto: ci si sente frustrati… Dire stupidaggini su un testo è follia; citarle è erudizione ... Non rimettere nel testo ciò che l'autore ha voluto lasciar fuori...».

Erano questi alcuni dei consigli che uno dei miei maestri, Luis Alonso Schökel (1920-1998), grande esegeta biblico, impartiva ai suoi discepoli. Li ho ripensati mentre leggevo il saggio di Mark S. Smith, docente alla Princeton e alla New York University, dedicato al c. 3 della Genesi e, quindi, ai temi della «caduta» adamica, del «peccato originale», della radice del bene e del male, del «paradiso perduto», sontuosamente cantato nel '600 da John Milton. L'autore, infatti, pur non deponendo l'abbigliamento brillante dello stile anglosassone anche quando tratta questioni così paludate, rivela in filigrana l'imponente bibliografia che attorno a quei versetti si è incessantemente prodotta. Eppure bisogna riconoscere che «il cucinato è più del mangiato e quello che si scrive è più di quello che si legge», come ancora diceva quel mio maestro.

Alla fine del caleidoscopio delle ipotesi interpretative rimangono, però, sul tappeto gli interrogativi di fondo che sbocciano da quel c. 3 ininterrottamente «cucinato» in sede storico-critica e che dilagano nelle pagine successive della Genesi (come non pensare a Caino e Abele o al diluvio?). L'esito dichiarato del percorso di Smith è proprio quello di dispiegare il ventaglio delle domande, ritenendo già efficace questa sola ars interrogandiattorno ad alcuni picchi teorici ed esistenziali, come sono appunto la «caduta» (tema per altro esile nella sua presenza altrove nella Bibbia), il peccato, la natura umana.

In realtà, egli elabora anche non poche risposte, a partire dalla stessa tipologia di quel c. 3, connessa alla memoria dell'autore sacro il quale rimanderebbe allusivamente alla figura regale della dinastia davidica, all'amata Gerusalemme e all'epoca monarchica ormai affondata nel passato. La questione centrale si annoda, però, attorno all'umanità emblematicamente incarnata dalla coppia Adamo-Eva, nomi etimologicamente universali (l'«Uomo» e la «Vivente»), come lo sono le loro esperienze, dal matrimonio al parto e al lavoro. Ma il groviglio maggiore è proprio in quella «caduta»-peccato sulla quale si eserciteranno soprattutto san Paolo e il fiume maestoso della successiva teologia (Agostino ne è il primo vessillo).

Entra, allora, inazione non solo la libertà umana ma anche Dio in una interazione che può essere di contrappunto armonico o di accesa dialettica. Per questo, è necessario integrare alla malvagità radicale dell'umanità anche la santità di un Abele o di Enoc o Noè. Da discutere è anche l'interporsi di Satana, per altro assente nel racconto della Genesi,a meno che lo si identifichi col serpente, come farà il tardo libro biblico deuterocanonico della Sapienza(2,24). Come è evidente, mistero divino, figura umana libera, orizzonte comunitario, categorie morali come bene e male, bontà e colpa s'intrecciano tra loro in una trama fitta che Smith cerca di esplorare, assediato dalla marea esegetico-teologica elaborata fino ad oggi, rimanendo alla fine con un utile paniere di domande sottilmente venate di risposte.

Lasciando a parte le sue pagine, si deve riconoscere che una legione di teologi e di filosofi fino ai nostri giorni ha identificato in quel capitolo della Genesi un palinsesto dispersivo di tesi, spesso «mettendo nel testo ciò che l'autore aveva lasciato fuori», come sopra ammoniva Alonso Schökel. Il paradigma teologico classico ha letto nel peccato originale una solidarietà interpersonale nel peccato, fondata nell'unità e identità della natura umana, per cui il racconto biblico sarebbe un'eziologia metastorica di taglio sapienziale riguardante l'antropologia teologica. Detto in altri termini, si risalirebbe a un archetipo universale (Adamo-Uomo) per spiegare la situazione dell'intero arco storico dell'umanità; e questo verrebbe fatto attraverso una riflessione sapienziale, cioè filosofico-teologica.

Una particolare riflessione contemporanea ha aperto un'altra direzione ermeneutica, quella logica per cui il peccato originale sarebbe da individuare nell'ingiustizia strutturale della società umana a cui il singolo partecipa e di cui è vittima. Ecco, però, farsi strada anche l'approccio psicologico che fiorisce dal concetto di angoscia kierkegaardiano e che riceve gli opposti variegati e spesso dissonanti della psicoanalisi freudiana o junghiana. Né si può ignorare lo sforzo cosmologico-metafisico di Pierre Teilhard de Chardin con la sua visione evoluzionistica escatologico-cristologica, per cui l'itinerario della storia e del creato procedono verso una progressiva catarsi che nel Cristo finale avrebbe la sua meta suprema. Si dovrebbe, poi, parlare anche di alcune ramificazioni tematiche settoriali legate al femminismo secondo cui il nucleo centrale della colpa è nel sessismo patriarcale e maschilista.

Comunque sia, nel delta sterminato di esegesi e interpretazioni, rimane vero quello che osservava il critico letterario Stephen Greenblatt nella sua Ascesa e caduta di Adamo ed Eva(Rizzoli 2017): «La storia di Adamo ed Eva parla a tutti noi. Riguarda il nostro essere, la nostra origine, perché amiamo e soffriamo... Sono un'incarnazione della responsabilità e vulnerabilità umana».


G. Ravasi, in Il Sole 24 Ore 28 agosto 2022