Un appassionato e informato plaidoyer, quello di Yves-Marie Blanchard, nel descrivere lo stato dell’arte nella chiesa cattolica di quello che è (o dovrebbe essere) il soggetto e l’oggetto principale del suo esistere: la Bibbia. L’autore si compiace del fatto che «la Bibbia abbia ritrovato oggi nella pratica cattolica il posto eminente che non avrebbe mai dovuto lasciare, il che evidentemente costituisce già in sé una bella conquista ecumenica, in particolare nei confronti delle chiese nate dalla Riforma» (p. 7).
Pagine che si lasciano leggere volentieri, vuoi per la scientificità combinata a un brillante stile divulgativo, vuoi per il palinsesto sul quale il nostro testo è ben costruito.
Aggiungo che il titolo di Blanchard appare in una collana della Queriniana denominata: «Sintesi», in cui compaiono testi anche di teologi protestanti come Étienne Trocmé o ortodossi come Olivier Clément.
In breve: il viaggio teologico di Blanchard si muove tra due punti cardinali: il primo è la relazione tra Scrittura e Rivelazione, il secondo tra Scrittura e Parola. Tra i due poli l’autore attraversa il vasto terreno delle principali specificità bibliche, sia storiche che teologiche. Dalla formazione dei canoni al compimento della Scrittura per, successivamente, affrontare la questione delle lingue del corpus biblico (un «meticciato») e dei suoi numerosi racconti.
Questi ultimi esprimono, nel loro insieme, una spiccata propensione della Bibbia «a raccontare piuttosto che a spiegare, strutturare» (p. 98). Il mistero rivelato è raccontato e reso accessibile a tutti, dai più piccoli ai più grandi. Trattasi di racconti, destinati a costruire, come è avvenuto nel corso dei secoli, forti identità, personali e collettive. Infine, l’autore approda al tema del compimento stesso delle Scritture. L’Antico e il Nuovo Testamento si fronteggiano, s’intrecciano continuamente: dal punto di vista cristiano non esiste l’uno senza l’altro, il loro rapporto è indissolubile. Sintomatico, a tal proposito, è il Vangelo di Luca nel descrivere la vicenda storica di Gesù Cristo. Dalla sua iniziale lettura pubblica d’Isaia nella sinagoga di Nazareth (Lc. 4,16 ss.) al cammino verso Emmaus nel primo giorno della settimana (che diventerà la domenica, «il giorno del Signore») (Lc. 24). Si compie così un disegno ermeneutico, perimetrato «secondo le Scritture», di cui Gesù Cristo è il protagonista. Storia (Gesù) e fede (Cristo) germogliano dallo stesso terreno scritturale. La diversità oggettiva degli scritti biblici si erge contro ogni pretesa d’unità intesa come necessario appiattimento delle diversità, quasi che le mille differenze tra gli scritti biblici fossero l’ostacolo maggiore nel condividere un cammino di fede. Si apre qui una questione complessa e, nello stesso tempo, affascinante: come far convivere, da un lato, la tensione verso un’unità visibile e concreta e, dall’altro, il rispetto per le specifiche caratteristiche confessionali.
Tenere insieme questi opposti sembrerebbe impossibile (per la serie: ognuno segua la propria strada e non perdiamo altro tempo!), eppure la convivenza, o meglio la comunione tra chiese, è il compito irrinunciabile del dialogo ecumenico. La cui motivazione profonda matura nello stabile radicamento (non episodico ma costante e approfondito) delle diverse comunità cristiane nell’unica Scrittura. Difficile tenere insieme le diversità scritturali e quelle confessionali, facile è invece accendere conflitti o innalzare separazioni. La Bibbia, attraverso la complessa operazione della costituzione dei canoni, sia sul piano redazionale che ermeneutico, tiene insieme non un’accozzaglia di testi ma la fonte principale della Rivelazione divina, che è plurale. Il cristianesimo che si rifà alla Bibbia non può che essere, nel suo divenire storico, plurale. Ovvero un insieme di esperienze differenti, nel tempo e nello spazio, ma simili nel loro tentativo di fedeltà alla Parola di Dio.
La Scrittura è attraversata da lingue e tradizioni diverse: esse sono specularistesse vicende dell’identità cristiana con le quali, storicamente, ha dovuto e deve continuare a fare i conti, utilizzando strumenti scientifici per scavare nei testi e nei contesti storici. Non basta insomma giustapporre l’Antico al Nuovo Testamento con una semplice operazione diacronica: occorre scoprire la chiave interpretativa che, per i cristiani, risiede nella figura stessa del Cristo. Ultima acuta osservazione del Blanchard è che la «tensione tra la totalità del Libro e la singolarità di ogni testo o frammento, anche di aspetto minore, richiama un’ecclesiologia di comunione» (p. 168).
Insomma, si tratta di affrontare le infinite pluralità dei percorsi biblici che, a loro volta, s’intersecano con altrettanto numerose direzioni culturali ed esistenziali. Un viaggio, di fronte all’enormità del compito, che ha dell’impossibile. Non a caso, di fronte all’infinita gamma di possibilità che il Libro racchiude, si può essere tentati di rinunciare a quest’esplorazione delegandola esclusivamente agli specialisti. Inoltrarsi tra queste pagine significa scoprire come questa pluralità di percorsi e di storie bibliche apra, in modo singolare, la nostra mente. È vero che per intraprendere bene questo cammino dentro la Bibbia occorre dotarsi di strumenti adatti (gli specialisti servono appunto a questo) proprio per non arrendersi alle prime difficoltà.
Ma è un cammino possibile, tenendo conto che «il discorso ragionato non dovrà mai cessare di rinfrescarsi al flusso vivo delle Scritture» (p. 168). Ed è proprio questa tensione, tra il testo biblico e la vita, che può suscitare esperienze, personali e comunitarie, trasformatrici e innovative. Si tratta di una ricerca di fede, di senso, di scopo, che pesca il proprio nutrimento dentro la complessità e l’intelligenza della Scrittura. Una ricerca, quest’ultima, che in una vita, per lunga che sia, non si esaurisce, ma può solo interrompersi e rimbalzare di generazione in generazione. Fornendo, di secolo in secolo, nuove informazioni, interpretazioni, emozioni e commenti che affiorano nell’accurato confronto tra il testo biblico e i vari contesti storici, compreso il nostro.
G. Platone,
Protestantesimo 2-3/2024, 302-304