La domanda centrale di ogni filosofia cristiana se la teologia possa contribuire alla comprensione razionale del mondo con qualcosa di originario senza snaturare il carattere razionale-universale della filosofia, ma anche senza ridurre razionalisticamente il presupposto della fede, viene antropologicamente fondata da Betschart nella sua recente pubblicazione, che individua come punto centrale la possibilità di una comprensione della persona nella sua autonomia: soltanto a partire dalla sua origine – che in senso cristiano è la filiazione divina – in Dio senza che ciò mini la costitutiva alterità dell'uomo da Dio, e proprio solamente in questa differenza la sua affermazione come essere libero, autonomo e dotato di dignità. Ciò apre al contempo alla considerazione teologica di un dinamico crescendo nella realizzazione dell'essere figli e figlie di Dio nel Figlio in ogni essere umano, per cui si innesca qui anche la dimensione soteriologica. A tale condizione, così la tesi dell'A., la cristologia stessa può diventare il forum per un dibattito interdisciplinare sull'uomo, dall'esegesi alla pastorale, dall'ecologia alle scienze, dall'etica all'arte e alla psicologia, solo per farne qualche esempio, non escludendo il guadagno della prospettiva ecumenica (10-14): quindi anche oltre la teologica senza che gli esponenti delle altre discipline debbano condividere come presupposto la fede cristiana. Questo programma viene evidenziato, inoltre, come una delle esigenze del Concilio Vaticano II senza essere stata da esso assolto.
Non è la realizzazione di questo progetto interdisciplinare il tema del libro, bensì la sua fondazione antropologico-teologica che ruota intorno al dispositivo interpretativo dell'immagine: uno sguardo che dall'uomo immagine di Dio fino alla figliolanza mediata da Cristo è incentrato più sulla dimensione cristologica e soteriologica rispetto a quella creazionistica che ha determinato tale metodo dell'antropologia teologica sin dai suoi esordi postconciliari (9). Concretamente, l'A. segue l'idea di una lettura della Genesi tramite Paolo, quindi una prospettiva dell'uomo «creato secondo l'immagine di Cristo» che sfocia in un'interpretazione filiale (15-16). Tale metodo antropologico-teologico si articola in tre parti, consultando innanzitutto la Bibbia (21-127) per poi interrogare il Concilio Vaticano II (129-231) e infine presentare l'interpretazione filiale dell'immagine di Dio (233-333). Qualche ragionamento di «Sintesi e prospettive» (335-349) e un'ampia bibliografia (351-378), nonché gli indici (379-395), chiudono questo denso studio.
Nella consapevolezza della difficoltà di conciliare il racconto della creazione nella Genesi con le fonti extrabibliche e nel constatare il limite dell'interpretazione funzionale della Bibbia, si indica subito il significato etico oltre quello specificamente esegetico: l'analogia alla divina «funzione di "dominare"» caratterizza l'uomo nella sua responsabilità per la terra e chi vive su di essa (32-33). In ciò, il testo biblico si differenzia dai miti mesopotamici come I'Enuma elish che identifica il senso della vita umana con il servizio degli dei (35). Il tratto più particolare sembra però la non-antropocentricità della creazione in quanto l'uomo è profondamente riconnesso con la dimensione della terra e degli altri animali, ma non con quella del mare e del cielo (38). Questa costatazione radicalizza la questione dell'uomo "ad immagine" di Dio, anche per la specificità che, a differenza delie altre creature, solo nel caso dell'uomo, Dio si rende soggetto della creazione (negli altri casi è la terra che a comandamento di Dio diventa "produttiva"), senza che però possa corrispondere al plurale del v. 26: «Facciamo l'essere umano» (39). Valutando varie ipotesi interpretative, e giudicando la questione infine come ostacolo irrilevante all'interpretazione dell'uomo come immagine di Dio, l'A. constata comunque che la «decisione di creare l'essere umano richiede, a quanto pare, un certo coraggio che non era necessario per le opere precedenti» (41).
Nel secondo capitolo della Genesi si descrive poi la condizione dell'uomo creato (nel significato di «umano o umanità, uomo o donna o nome proprio, Adamo») come «una tensione tra fragilità e dignità», tra argilla e spirito che esprime la «dignità intrinseca e inalienabile dell'uomo e della donna», indipendentemente dalla salvezza in Cristo (42-44). Secondo Bonhoeffer e Barth, tale "essere immagine" dell'uomo e della donna è la base per ogni relazione tra Dio e lui o lei (47), e in questo modo entrambi offrono – con il loro superamento relazionale dell'interpretazione funzionale – una soluzione ancora oggi valida per comprendere il significato di «immagine e somiglianza» – che comunque include la dimensione corporea – come non consistente in una determinata caratteristica, ma nella libertà dell'uomo che è sempre «per Dio» (63); sebbene in questa prospettiva venga meno la «consistenza ontologica propria delle creature» (64): gli esseri umani sono creati – sempre in una prospettiva di analogia – «secondo la "specie" di Dio» (65), senza che ciò debba mettere in dubbio la trascendenza di Dio come caratteristica teologica importante della Priesterschrift. Laddove quest'ultima afferma Adamo soltanto «immagine di Dio», sarà l'evangelista Luca a chiamarlo, in prospettiva cristologica, «figlio» (68).
Nel Nuovo Testamento, però, soprattutto «Paolo fa parte di un processo di rilettura della Genesi»(89), in quanto per lui l'immagine è Cristo e i credenti sono trasformati da questa immagine in figli (91). La lettura dell'A. inserisce ora questa mediazione cristologica – a partire dall'inno di Colossesi – nelle aperture esegetiche della stessa Genesi,attraverso l'identificazione del Figlio preesistente tramite cui avvenne la creazione, e il Figlio glorificato (96).
È stato il Concilio a riproporre il tema della «creazione dell'essere umano a immagine di Dio» (134): nonostante il termine non ricorra spesso nei testi conciliari, ne costituisce una «idea centrale», per la sua polivalenza biblica, patristica e funzionale alla determinazione del rapporto tra natura e grazia (141). E sebbene Rahner, e anche Ratzinger, abbiano criticato l'importante primo capitolo di Gaudium et spes per mancanze nell'elaborazione cristologica (141, 146, 153), è stata l'attenzione del Concilio per la teologia di Barth – senza aderire alla sua riduzione dell'antropologia a cristologia – a spingere la questione antropologica verso una definitiva soluzione cristologica (146-147). Le due linee di lettura, infatti, che vanno dall'antropologia alla cristologia (145-152), e che parlano dell'antropologia all'interno della cristologia (152-158), non sono nient'altro che l'espressione della duplice difficoltà di impostare il dialogo tra la teologia e le scienze su ciò che è l'uomo: né concepire l'antropologia filosofica come autonoma, né la precedenza della cristologia sembrano poter proporre un metodo soddisfacente (153, 159).
Con un approfondimento delle riflessioni svolte dalla Commissione Teologica Internazionale dietro indicazioni di Kasper (161-167) e un'indagine sul pensiero di Barth (167-175), l'A. valorizza attraverso il confronto con Balthasar, Rahner e Pannenberg l'apporto della «domanda umana» alla teologia (175), in vista di interpretare poi la cristologia come «il termine e allo stesso tempo – inseparabilmente – l'inizio dell'antropologia» (180), basandosi sui due paradigmi biblici dei due Adamo e dell'immagine di Dio (186). Proprio per aver messo entrambi in una prospettiva di «immagine filiale» alla base della sua lettura (191), l'A. ritiene necessario relativizzare – oltre questo status dell'antropologia teologica – il «cristocentrismo» dell'antropologia, o almeno di «non usare il termine ''cristocentrismo" in modo iperbolico» (190), in quanto l'immagine rimanda al prototipo operando un «decentramento» cristologico.
Un approfondimento, a questo punto indispensabile, del rapporto tra «[n]atura e grazia» in de Lubac (192-231), porta nella terza parte all'integrazione della dimensione trinitaria e pneumatologica nell'antropologia teologica, grazie all'«immagine filiale» che consente – contro un'opinione sistematica diffusa che orientandosi a Buber e Levinas oppone l'approccio relazionale, sviluppato a partire da Bonhoeffer e Barth, a quello ontologico (239) – la sintesi tra «l'ontologico e il relazionale» (235). Partendo dalla «nota individuale» di ogni individuo secondo Edith Stein (247), che non si lascia semplicemente identificare con la storia individuale di ciascuno, l'A. evidenzia, con la filosofa, che si tratta della dimensione dell'anima alla quale si accede solo con l'amore che instaura «una relazione personale che permette di conoscere la persona amata nella sua singolarità e che rivela la persona a se stessa» (249): e tale relazione si esprime attraverso i termini dell'immagine che in tedesco rimanda sia al prototipo («Urbild»)sia alla copia («Abbild»),facendo comprendere come la dimensione relazionale e ontologica si completino a vicenda (250), prendendo le distanze da ogni riduzione della persona come individuo concreto ad «esemplare umano» (254). In questo modo, al centro dell'antropologia non sta il rapporto tra Dio e l'uomo – che sarebbe un rapporto metafisico non-antropologico – ma «tra la pienezza dell'umanità di Cristo e la nostra stessa umanità» (257): la più grande somiglianza nella piùgrande distinzione. Ciò culmina nella dinamica del dono di sé che nella perfezione si incontra nella Trinità divina e, quindi, nell'amore di Cristo (261-262): L'«amore unitivo non è fusionale, ma interpersonale, cioè presuppone l'alterità delle persone» (262).
La «filiazione», nel suo «senso inclusivo», è poi oggetto dell'ultimo passaggio sistematico (268), a partire da un'esegesi di Paolo che realizza – riprendendo l'Antico Testamento – la sintesi tra immagine e filiazione (271-287). Inserendola nella prospettiva conciliare (289-295), l'A. constata che la Bibbia connette con l'immagine di Dio solo la relazione della filiazione (e non altre come la sponsalità, l'alleanza ecc., 297), per segnare che tale relazione c'è dall'inizio dell'esistenza: si delinea così la dinamica tra l'essere figli di Dio dalla creazione e il destino della filiazione adottiva che consiste nel diventare immagine di Cristo (331). Allo stesso momento rimane sempre una differenza costitutiva tra adozione e filiazione senza rendete la filiazione adottiva una «filiazione di secondo ordine»: «la filiazione adottiva è una filiazione nel Figlio e nient'altro che una partecipazione creata alla sua filiazione divina increata» (332). Rispetto al linguaggio dell'immagine, quella della filiazione trasforma la relazione tra Dio e il suo popolo da un livello oggettuale a quello personale, riuscendo a incentrare il «legame intrinseco fra creazione e salvezza» (333).
Questo trattato molto denso che richiede una lettura attenta e intensa, impossibile da affrontare senza avanzate cognizioni nell'esegesi, nella cristologia nonché nell'antropologia teologica stessa, è un vero e proprio guadagno per quest'ultima disciplina che aveva molto bisogno di uno studio fondamentale e fondativo che non solo operasse una sintesi tra gli approcci dei grandi nomi del passato, ma aprisse anche alle esigenze del dibattito intra- e interdisciplinare in cui la teologia oggi è inserita.
M. Krienke, in
Teologia 3/2023, 505-507