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L'umano, immagine filiale di Dio
Christof Betschart

L'umano, immagine filiale di Dio

Un’antropologia teologica in dialogo con l’esegesi

Prezzo di copertina: Euro 53,00 Prezzo scontato: Euro 50,35
Collana: Biblioteca di teologia contemporanea 213
ISBN: 978-88-399-3613-4
Formato: 15,7 x 23 cm
Pagine: 400
Titolo originale: L‘humain, image filiale de Dieu. Une anthropologie théologique en dialogue avec l’exégèse
© 2022

In breve

Cosa significa essere a immagine di Dio? Quali incalcolabili conseguenze ha questa affermazione in tutti i settori e le esperienze della vita umana? L’ipotesi su cui lavorare è che non ci sia vera alterità se non di fronte a questa verità.

Descrizione

L’uomo e la donna, secondo la Genesi, sono stati creati «a immagine di Dio». Nonostante la sua apparente semplicità, questa affermazione è tra le più discusse e ambigue della tradizione ebraico-cristiana. Cosa può significare quell’affermazione per degli esseri finiti, limitati e spesso traviati quali noi siamo? Quali incalcolabili conseguenze comporta quella affermazione in tutti i settori e le esperienze della vita umana?
Christof Betschart colma una lacuna nella teologia, basandosi su uno studio approfondito dei testi biblici. In linea con l’interpretazione cristologica dell’immagine di Dio, che trova in Cristo sia il prototipo che il modello compiuto di tutti gli esseri umani, egli si interroga sulla nozione di filiazione divina. L’immagine di Dio è in definitiva una immagine filiale, segnata dal sigillo della filiazione divina.
Tale tesi viene sviluppata sia per rendere più concreto il concetto di immagine creata e ricreata, sia per rivisitare alcune grandi questioni dell’antropologia teologica postconciliare, come il nesso fra natura e grazia, la mediazione cristologica dell’antropologia (e viceversa) o il binomio “essere” e “relazione”.
Ne esce un’analisi illuminante del genere umano in relazione all’immagine divina, un’opera che si palesa pagina dopo pagina come una guida rivelatrice.

Recensioni

Il titolo palesa che siamo di fronte a uno studio dedicato all'imago Dei, declinata in termini filiali; l'A. è Christof Betschart, preside della Facoltà teologica Teresianum. La recensione segue in maniera critico-descrittiva lo sviluppo del testo, che parte con una trattazione esegetica e arriva alla sistematica, collocando nel mezzo una ricognizione di tipo storico.

Si inizia (prima parte-primo capitolo) dal racconto sacerdotale di Genesi 1,26-28. L'A. osserva che negli ultimi decenni si sono percorse due ipotesi interpretative dell'immagine e somiglianza genesiaca, non escludentesi: una di tipo funzionale, soprattutto connessa al tema della sovranità sul creato e una di stampo relazionale. Lo scrittore antico non si preoccupa di definire teoreticamente in cosa consista l'effigie; al fondo predica un rapporto, in cui non manca la dimensione filiale, che si concretizza nella missione di governo sulla creazione. Tramite una sequenza, indicata come intermezzo, compare di seguito un interessante sviluppo tratto dalla letteratura sapienziale: lo stare di fronte a Dio avrebbe qualcosa di destinale e incompiuto e sarebbe l'assimilazione alla Sapienza la via per ottemperare all'identità. Il teologo carmelitano suggerisce questo come contesto prossimo alla rilettura paolina in argomento (secondo capitolo). L'Apostolo specifica che Cristo, o il Figlio, è l'Impronta del Padre e che «i credenti sono trasformati, conformati o rinnovati» a sua rispondenza (p. 107).

La seconda parte concerne il ripensamento del concetto di immagine in Gaudium et spes, nel più ampio contesto conciliare e nella teologia a esso contemporanea. Il terzo capitolo si concentra sul rinnovato rapporto tra antropologia e cristologia, con l'attenzione a superare la loro dissociazione e a evitare l'«eccesso di una cristologizzazione» che depauperi la realtà umana (p. 132). In GS 12-22 sono ravvisate a proposito due soluzioni: la prima e più estesa legge l'indicazione di imago Dei come rafforzativa della dignità personale, presupposto umanistico che si apre alla ricapitolazione cristologica; la seconda, "in germe" in GS 22, adotta come punto di partenza il mistero del Figlio, in cui si integra l'antropologia (p. 189). Il quarto capitolo, con lo stesso quesito, passa in rassegna i contributi di Barth, von Balthasar, Rahner, Pannenberg e della Cti. Storicamente, la via a emergere sarebbe quella che privilegia la visione teologico cristologica sull'umano, senza che venga sminuito il valore della filosofia e della cultura, disponibili al divino.

Il quinto capitolo è riservato al peculiare contributo di De Lubac su natura, soprannaturale e grazia. L'orientamento del teologo gesuita è apprezzato e recepito da Betschart, benché giudicato ancora eccessivamente giocato nel campo scolastico, esile ad esempio nel riferimento cristologico. È però tutto sommato ribadita la compresenza di due realtà formanti "un solo ordine", dove il "soprannaturale" assume, rispettando e non assorbendo, il “naturale” (p. 229). L'A. è certamente a conoscenza delle molteplici critiche e rivisitazioni di questa articolazione.

La terza parte presenta il contributo propriamente sistematico. Il sesto capitolo confronta le interpretazioni ontologica e relazionale circa l'immagine divina. Sulla scorta delle analisi precedenti, ora il punto di riferimento precipuo è Edith Stein. Messa tra parentesi l'illustrazione funzionale, si riconosce che l'opzione metempirica è stata preponderante fino a metà del XX secolo, cedendo progressivamente il passo al prospetto interazionale, che sarebbe assunto come necessariamente in contrasto con l'ipotesi precedente. L'A. dichiara a questo punto: «Noi prendiamo posizione contro tale tendenza, perché si basa su un'opposizione artificiale e su una concezione discutibile di ciò che è una relazione personale» (p. 239). La proprietà sussistente "a priori" rende possibile la relazione, «nel senso di un vero arricchimento personale» (p. 262). Dal punto di vista spirituale – si aggiunge sotto l'influenza di Guardini e Propper – Dio chiama un tu umano, ma perché si dia corrispondenza è necessario che sia prima costituita «una capacità di risposta» (p. 259). Il meno che qui si possa dire è che andrebbe meglio precisato che cosa si intenda per "a priori" e d'altra parte che ci sono prospettive che sostengono una ontologia relazionale, costitutivamente dialogica. Senza scomodare altre voci, mi limito alla filosofa tedesca, che in Essere finito ed Essere eterno associa al momento identitario l'intima presenza del trascendente Dio e che ne Il problema dell'empatia coglie il sentire personale come pulsante dentro un'alterità che insieme ci supera e ci abita (si veda C. Carbone, Esperienza religiosa ed esperienza mistica in Nuovo giornale di filosofìa della religione 7 [2018]).

L'analisi svolta è a questo punto declinata, in riferimento ali' essere figlio/a, sul duplice piano originario e personalizzato: il settimo capitolo ritorna sul versante esegetico e un ulteriore intermezzo ripercorre testi conciliari, in vista dell'affondo finale. Il capitolo ottavo, dichiarato "sintesi teologica", raccoglie e cerca di comporre tutti i tasselli. L'accostamento della figliolanza all'immagine divina chiarifica il valore primario di questo rapporto tipico con Dio. Come per la ricerca umana, tenendo a mente la lezione lubachiana, qui si segnala che la soggettualità (o immagine filiale creazionale) ha una sua autonomia ed è inoltre predisposta in libertà alla filiazione adottiva di grazia. Segue quindi una rilettura in chiave cristologica, con particolare riguardo al tema della predestinazione. Ogni persona è voluta secondo l'immagine che è Cristo, il quale si rivela come principio di unità nella creazione e a fortiori attraverso la ricreazione (p. 325). La filiazione originaria cristica «è inalienabile» ed è «punto di partenza di una relazione filiale personalizzata, che si costruisce nel tempo e che può comportare rottura e riconciliazione» (p. 266). Considerando il procedimento esposto, mantengo l'impressione di un parziale disallineamento tra il riferimento ontologico, debitore di una certa metafisica e il dato della filiazione d'origine, più congenito all'insegnamento biblico teologico e peraltro più concorde con la contemporanea antropologia culturale. Reputo di conseguenza che andrebbe maggiormente assecondato il principio cristologico trinitario, per delineare un'identità personale, suscitata e qualificata dal distintivo e generativo rapporto con Dio.

Il finale Sintesi e prospettive è più di una conclusione. L'A. puntualizza di aver indagato il concetto di tropo filiale come prospettiva di accesso e chiave di lettura eminentemente proficua dell'antropologia teologica, senza voler trattare tutto. Sono d'altronde offerte diverse piste di approfondimento complementari: nel capitolo ottavo si riflette su peccato e riconciliazione, escatologia, ecclesiologia, pneumatologia e trinitaria e qui sono impostate altre due prospettive. Intanto la questione della salvezza universale, che permette di identificare nell'amore al prossimo il segno della vivificazione cristologizzante di chi non è battezzato. Poi il tema ecologico, che riprende la direttrice funzionale sull'imago. Al proposito viene da chiedersi se tale pista non sia stata troppo frettolosamente abbandonata, perdendo così l'occasione di un plausibile irrobustimento della dimensione storica concreta e di un chiarimento sul farsi effettivo della persona nella carità. Il contributo di Betschart è certamente valido e consolida su vari fronti l'importante prospettiva filiale dell'antropologia teologica. L'argomento resta comunque aperto sia a chiarimenti che a migliorie e va ribadito che in particolare sul costitutivo dell'umano e circa l'unitarietà dell'unìversale storia della salvezza sono presenti studi differenti, pure organici e accurati.


A. Scardoni, in Studia Patavina 1/2024, 147-149

Partiendo del principio de que todo conocimiento procede de la revelación divina, Christof Betschart nos presenta una obra que pretende desarrollar una antropología teológica vinculada a la exégesis. Más que hacer un análisis exhaustivo de la Sagrada Escritura o enumerar las diversas formas en que el ser humano se ha pensado a sí mismo a lo largo de la historia, Betschart nos lleva por un camino en el que la búsqueda de Dios se convierte en revelación divina y en revelación de lo humano. A lo largo de la obra, “imagen de Dios” e “imagen del hombre” son inseparables, y la segunda está determinada por la primera.

Dividido en tres partes, L’Umano, immagine filiale di Dio traza una trayectoria que engancha al lector y le hace implicarse en la búsqueda de lo humano. La primera parte está enteramente dedicada a la imagen de Dios revelada y descrita en las Escrituras. Un desarrollo que parece querer distanciarse de la cuestión antropológica, pero que vuelve a este sentido analizando la imagen de Dios a partir de la Persona de Jesucristo. Desde los relatos bíblicos hasta los escritos paulinos, la imagen de Dios hecho hombre se presenta de un modo cada vez más vinculado al tema principal de la obra. La segunda parte de la obra es especialmente relevante para la antropología teológica. En ella la cuestión se desarrolla a partir del Concilio Vaticano II y de pensadores como Barth, Balthasar, Rahner, Pannenberg y Lubac. Aquí convergen las diferentes perspectivas hacia una cristología capaz de hablar de Dios, donde también se encuentra el ser humano.

Tras haber recorrido el camino bíblico y doctrinal–cristológico sobre la imagen de Dios, la tercera parte de la obra surge como clímax y conclusión, presentando al ser humano como imagen de Dios. Porque se comprende la imagen de Dios, se hace posible comprender la imagen del ser humano. Betschart evita la tentación de desarrollar esta tercera parte del libro a partir de la teología de la Creación, vinculando la imago hominis no sólo a la Creación, sino también a la salvación y a la gracia divina.

Desde el punto de vista estructural, esta obra presenta también algunas particularidades que la hacen única entre los escritos de antropología teológica. Cada una de las partes del libro presenta, en todos sus subcapítulos, una conclusión o síntesis prospectiva. Es importante señalar, sin embargo, que esta estructura pierde cierta coherencia interna cuando la segunda parte del libro carece de ella. Estas conclusiones ayudan a conectar los distintos subcapítulos y partes del libro. En ellas se hace una recapitulación reflexiva de lo que se ha dicho anteriormente y la reflexión se orienta hacia el tema del subcapítulo siguiente.

Otra particularidad es la forma en que están organizadas la introducción y la conclusión. La primera presenta un status quaestionis que se divide en diferentes puntos. Esta estructura permite al lector situarse, de forma sistemática, en el contexto de la antropología teológica y de las diferentes perspectivas sobre la búsqueda de Dios, al tiempo que conoce el proyecto, la metodología y el itinerario que presentará el libro. En el caso de la conclusión, la estructura también es peculiar, ya que sigue el mismo principio sistematizador, enumerando, por un lado, las aportaciones de la obra a la antropología teológica y a la exégesis y, por otro, las perspectivas e ideas que quedan abiertas tanto en relación con la cuestión salvífica, en una clara aproximación a la teología de la imagen, como en relación con una ecología teológica que es preciso promover.

A pesar de esta estructura innovadora, la novedad aportada por Christof Betschart no es de orden estructural ni de orden literario. Betschart aporta una nueva mirada sobre la antropología teológica. Sin negar los desarrollos en el campo y la cercanía que éstos tienen con los relatos de la Creación, el teólogo abre nuevos caminos teológicos al incorporar la imagen de Cristo y la vida de la Gracia en la reflexión antropológica. Al hacer esta elección, Betschart lleva al lector no sólo a vislumbrar una imago Dei más cercana a la imago hominis, sino también a redescubrir una imagen humana llena de Gracia e integrada en una Creación toda ella bendita. También aquí se redescubre una nueva imagen de la Creación y, en consecuencia, nuevas perspectivas sobre los problemas ecológicos, sobre la relación entre fe y ciencia o sobre la noción de dignidad humana.

Además del tema central de la obra, L’Umano, immagine filiale di Dio presenta también nuevos horizontes teológicos en relación con la teología de la imagen. A este respecto, el autor parece apartarse de la cadencia interna del libro al dejar en segundo plano –o incluso ocultar– el vínculo con la exégesis bíblica. Sin embargo, en mi opinión, no se trata de un punto débil de la obra. Al contrario, al vincular la teología de la imagen –a partir de la reflexión sobre la antropología teológica– a los documentos del Concilio Vaticano II, adquiere una dimensión eclesial única. En cierto modo, la teología de la imagen deja de estar vinculada únicamente a la persona de Jesucristo, tal como se narra en las Escrituras, para presentarse como imagen–Cuerpo de Cristo.

En nuestra opinión, tal vez sería importante que esta dimensión, aunque secundaria para el objetivo de la obra, estuviera un poco más desarrollada y presentada, en términos teológico–eclesiales, con informaciones más actualizadas. De hecho, desarrollar esta perspectiva de la teología de la imagen, dejando de lado los documentos más recientes del Magisterio, parece ir a contracorriente de lo que se defiende. Sin embargo, este ejercicio abre puertas a reflexiones teológicas que antes parecían más olvidadas, a saber, la continuidad entre imagen–Cristo e imagen–Iglesia. Desde esta perspectiva también pueden entenderse mejor las preocupaciones ecológicas que se presentan al final del libro. La ecología es pensada como una imagen de la Creación que necesita ser cuidada. Una Creación de la que el ser humano forma parte, en la que Dios se encarna y que, en consecuencia, aparece como imagen del Cuerpo de Cristo. Así, del mismo modo que cada ser humano, como imagen y semejanza de Dios, necesita cuidarse a sí mismo y a sus semejantes, los creyentes asumen una responsabilidad ecológica al entender la imagen–Iglesia como un elemento de la Creación, inseparable de su referencia al Creador y a la imagen humana–filial de Dios.


S. Vilas Boas, in Archivo Teológico Granadino vol. 87 (2024), 239-241

La domanda centrale di ogni filosofia cristiana se la teologia possa contribuire alla comprensione razionale del mondo con qualcosa di originario senza snaturare il carattere razionale-universale della filosofia, ma anche senza ridurre razionalisticamente il presupposto della fede, viene antropologicamente fondata da Betschart nella sua recente pubblicazione, che individua come punto centrale la possibilità di una comprensione della persona nella sua autonomia: soltanto a partire dalla sua origine – che in senso cristiano è la filiazione divina – in Dio senza che ciò mini la costitutiva alterità dell'uomo da Dio, e proprio solamente in questa differenza la sua affermazione come essere libero, autonomo e dotato di dignità. Ciò apre al contempo alla considerazione teologica di un dinamico crescendo nella realizzazione dell'essere figli e figlie di Dio nel Figlio in ogni essere umano, per cui si innesca qui anche la dimensione soteriologica. A tale condizione, così la tesi dell'A., la cristologia stessa può diventare il forum per un dibattito interdisciplinare sull'uomo, dall'esegesi alla pastorale, dall'ecologia alle scienze, dall'etica all'arte e alla psicologia, solo per farne qualche esempio, non escludendo il guadagno della prospettiva ecumenica (10-14): quindi anche oltre la teologica senza che gli esponenti delle altre discipline debbano condividere come presupposto la fede cristiana. Questo programma viene evidenziato, inoltre, come una delle esigenze del Concilio Vaticano II senza essere stata da esso assolto.

Non è la realizzazione di questo progetto interdisciplinare il tema del libro, bensì la sua fondazione antropologico-teologica che ruota intorno al dispositivo interpretativo dell'immagine: uno sguardo che dall'uomo immagine di Dio fino alla figliolanza mediata da Cristo è incentrato più sulla dimensione cristologica e soteriologica rispetto a quella creazionistica che ha determinato tale metodo dell'antropologia teologica sin dai suoi esordi postconciliari (9). Concretamente, l'A. segue l'idea di una lettura della Genesi tramite Paolo, quindi una prospettiva dell'uomo «creato secondo l'immagine di Cristo» che sfocia in un'interpretazione filiale (15-16). Tale metodo antropologico-teologico si articola in tre parti, consultando innanzitutto la Bibbia (21-127) per poi interrogare il Concilio Vaticano II (129-231) e infine presentare l'interpretazione filiale dell'immagine di Dio (233-333). Qualche ragionamento di «Sintesi e prospettive» (335-349) e un'ampia bibliografia (351-378), nonché gli indici (379-395), chiudono questo denso studio.

Nella consapevolezza della difficoltà di conciliare il racconto della creazione nella Genesi con le fonti extrabibliche e nel constatare il limite dell'interpretazione funzionale della Bibbia, si indica subito il significato etico oltre quello specificamente esegetico: l'analogia alla divina «funzione di "dominare"» caratterizza l'uomo nella sua responsabilità per la terra e chi vive su di essa (32-33). In ciò, il testo biblico si differenzia dai miti mesopotamici come I'Enuma elish che identifica il senso della vita umana con il servizio degli dei (35). Il tratto più particolare sembra però la non-antropocentricità della creazione in quanto l'uomo è profondamente riconnesso con la dimensione della terra e degli altri animali, ma non con quella del mare e del cielo (38). Questa costatazione radicalizza la questione dell'uomo "ad immagine" di Dio, anche per la specificità che, a differenza delie altre creature, solo nel caso dell'uomo, Dio si rende soggetto della creazione (negli altri casi è la terra che a comandamento di Dio diventa "produttiva"), senza che però possa corrispondere al plurale del v. 26: «Facciamo l'essere umano» (39). Valutando varie ipotesi interpretative, e giudicando la questione infine come ostacolo irrilevante all'interpretazione dell'uomo come immagine di Dio, l'A. constata comunque che la «decisione di creare l'essere umano richiede, a quanto pare, un certo coraggio che non era necessario per le opere precedenti» (41).

Nel secondo capitolo della Genesi si descrive poi la condizione dell'uomo creato (nel significato di «umano o umanità, uomo o donna o nome proprio, Adamo») come «una tensione tra fragilità e dignità», tra argilla e spirito che esprime la «dignità intrinseca e inalienabile dell'uomo e della donna», indipendentemente dalla salvezza in Cristo (42-44). Secondo Bonhoeffer e Barth, tale "essere immagine" dell'uomo e della donna è la base per ogni relazione tra Dio e lui o lei (47), e in questo modo entrambi offrono – con il loro superamento relazionale dell'interpretazione funzionale – una soluzione ancora oggi valida per comprendere il significato di «immagine e somiglianza» – che comunque include la dimensione corporea – come non consistente in una determinata caratteristica, ma nella libertà dell'uomo che è sempre «per Dio» (63); sebbene in questa prospettiva venga meno la «consistenza ontologica propria delle creature» (64): gli esseri umani sono creati – sempre in una prospettiva di analogia – «secondo la "specie" di Dio» (65), senza che ciò debba mettere in dubbio la trascendenza di Dio come caratteristica teologica importante della Priesterschrift. Laddove quest'ultima afferma Adamo soltanto «immagine di Dio», sarà l'evangelista Luca a chiamarlo, in prospettiva cristologica, «figlio» (68).

Nel Nuovo Testamento, però, soprattutto «Paolo fa parte di un processo di rilettura della Genesi»(89), in quanto per lui l'immagine è Cristo e i credenti sono trasformati da questa immagine in figli (91). La lettura dell'A. inserisce ora questa mediazione cristologica – a partire dall'inno di Colossesi – nelle aperture esegetiche della stessa Genesi,attraverso l'identificazione del Figlio preesistente tramite cui avvenne la creazione, e il Figlio glorificato (96).

È stato il Concilio a riproporre il tema della «creazione dell'essere umano a immagine di Dio» (134): nonostante il termine non ricorra spesso nei testi conciliari, ne costituisce una «idea centrale», per la sua polivalenza biblica, patristica e funzionale alla determinazione del rapporto tra natura e grazia (141). E sebbene Rahner, e anche Ratzinger, abbiano criticato l'importante primo capitolo di Gaudium et spes per mancanze nell'elaborazione cristologica (141, 146, 153), è stata l'attenzione del Concilio per la teologia di Barth – senza aderire alla sua riduzione dell'antropologia a cristologia – a spingere la questione antropologica verso una definitiva soluzione cristologica (146-147). Le due linee di lettura, infatti, che vanno dall'antropologia alla cristologia (145-152), e che parlano dell'antropologia all'interno della cristologia (152-158), non sono nient'altro che l'espressione della duplice difficoltà di impostare il dialogo tra la teologia e le scienze su ciò che è l'uomo: né concepire l'antropologia filosofica come autonoma, né la precedenza della cristologia sembrano poter proporre un metodo soddisfacente (153, 159).

Con un approfondimento delle riflessioni svolte dalla Commissione Teologica Internazionale dietro indicazioni di Kasper (161-167) e un'indagine sul pensiero di Barth (167-175), l'A. valorizza attraverso il confronto con Balthasar, Rahner e Pannenberg l'apporto della «domanda umana» alla teologia (175), in vista di interpretare poi la cristologia come «il termine e allo stesso tempo – inseparabilmente – l'inizio dell'antropologia» (180), basandosi sui due paradigmi biblici dei due Adamo e dell'immagine di Dio (186). Proprio per aver messo entrambi in una prospettiva di «immagine filiale» alla base della sua lettura (191), l'A. ritiene necessario relativizzare – oltre questo status dell'antropologia teologica – il «cristocentrismo» dell'antropologia, o almeno di «non usare il termine ''cristocentrismo" in modo iperbolico» (190), in quanto l'immagine rimanda al prototipo operando un «decentramento» cristologico.

Un approfondimento, a questo punto indispensabile, del rapporto tra «[n]atura e grazia» in de Lubac (192-231), porta nella terza parte all'integrazione della dimensione trinitaria e pneumatologica nell'antropologia teologica, grazie all'«immagine filiale» che consente – contro un'opinione sistematica diffusa che orientandosi a Buber e Levinas oppone l'approccio relazionale, sviluppato a partire da Bonhoeffer e Barth, a quello ontologico (239) – la sintesi tra «l'ontologico e il relazionale» (235). Partendo dalla «nota individuale» di ogni individuo secondo Edith Stein (247), che non si lascia semplicemente identificare con la storia individuale di ciascuno, l'A. evidenzia, con la filosofa, che si tratta della dimensione dell'anima alla quale si accede solo con l'amore che instaura «una relazione personale che permette di conoscere la persona amata nella sua singolarità e che rivela la persona a se stessa» (249): e tale relazione si esprime attraverso i termini dell'immagine che in tedesco rimanda sia al prototipo («Urbild»)sia alla copia («Abbild»),facendo comprendere come la dimensione relazionale e ontologica si completino a vicenda (250), prendendo le distanze da ogni riduzione della persona come individuo concreto ad «esemplare umano» (254). In questo modo, al centro dell'antropologia non sta il rapporto tra Dio e l'uomo – che sarebbe un rapporto metafisico non-antropologico – ma «tra la pienezza dell'umanità di Cristo e la nostra stessa umanità» (257): la più grande somiglianza nella piùgrande distinzione. Ciò culmina nella dinamica del dono di sé che nella perfezione si incontra nella Trinità divina e, quindi, nell'amore di Cristo (261-262): L'«amore unitivo non è fusionale, ma interpersonale, cioè presuppone l'alterità delle persone» (262).

La «filiazione», nel suo «senso inclusivo», è poi oggetto dell'ultimo passaggio sistematico (268), a partire da un'esegesi di Paolo che realizza – riprendendo l'Antico Testamento – la sintesi tra immagine e filiazione (271-287). Inserendola nella prospettiva conciliare (289-295), l'A. constata che la Bibbia connette con l'immagine di Dio solo la relazione della filiazione (e non altre come la sponsalità, l'alleanza ecc., 297), per segnare che tale relazione c'è dall'inizio dell'esistenza: si delinea così la dinamica tra l'essere figli di Dio dalla creazione e il destino della filiazione adottiva che consiste nel diventare immagine di Cristo (331). Allo stesso momento rimane sempre una differenza costitutiva tra adozione e filiazione senza rendete la filiazione adottiva una «filiazione di secondo ordine»: «la filiazione adottiva è una filiazione nel Figlio e nient'altro che una partecipazione creata alla sua filiazione divina increata» (332). Rispetto al linguaggio dell'immagine, quella della filiazione trasforma la relazione tra Dio e il suo popolo da un livello oggettuale a quello personale, riuscendo a incentrare il «legame intrinseco fra creazione e salvezza» (333).

Questo trattato molto denso che richiede una lettura attenta e intensa, impossibile da affrontare senza avanzate cognizioni nell'esegesi, nella cristologia nonché nell'antropologia teologica stessa, è un vero e proprio guadagno per quest'ultima disciplina che aveva molto bisogno di uno studio fondamentale e fondativo che non solo operasse una sintesi tra gli approcci dei grandi nomi del passato, ma aprisse anche alle esigenze del dibattito intra- e interdisciplinare in cui la teologia oggi è inserita.


M. Krienke, in Teologia 3/2023, 505-507

Il teologo svizzero Christof Betschart, sottoponendo l’asserzione della Genesi riguardo all'uomo «creato a immagine di Dio» (1,27) e i suoi corollari biblici a un'analisi serrata, appoggiandosi all'apporto della dottrina del Concilio Vaticano II e di un grande teologo come Henri de Lubac, propone una lettura cristologica del tema. Per induzione, dalla figura umana di Cristo, il Figlio, si ascende al Padre, riconoscendo che l'uomo e la donna partecipano di quella filiazione. Sono, quindi, epifania del divino che è rispecchiato in essi, perché ne sono appunto l'«immagine» vivente.


G. Ravasi, in Il Sole 24 Ore 27 novembre 2022