Probabilmente questo è il libro più famoso e più diffuso di Henri Nouwen. Esso nasce, come specifica l’autore stesso, da un «incontro apparentemente insignificante» con un poster raffigurante un particolare del Ritorno del figlio prodigo di Rembrandt e che «ha messo in moto una lunga avventura spirituale che mi ha portato ad una nuova comprensione della mia vocazione e mi ha offerto nuova forza per viverla». Al centro del libro, allora, si incontrano tre epoche: un dipinto del diciassettesimo secolo e il suo artista, nonché una parabola del primo secolo e il suo autore, e una persona del ventesimo secolo alla ricerca del significato della vita. Il figlio prodigo è il nostro dipinto personale, il dipinto che contiene non solo il cuore della storia che Dio vuole raccontarmi, ma anche il cuore della storia che noi vogliamo dire a Dio e al popolo di Dio. Ma anche il figlio maggiore è ognuno di noi.
Il fine del dipinto (e del libro) però è altro. È incluso in una parola che una persona rivolse a Nouwen un giorno: «Che tu sia il figlio più giovane o il figlio maggiore, ti devi rendere conto di essere chiamato a diventare il padre». Nouwen entra nei minimi dettagli del dipinto tirando fuori lezioni ricchissime per la vita psichica e spirituale in un viaggio che parte dal figlio minore, passando per il figlio maggiore per giungere poi al padre al quale tutti siamo chiamati a somigliare.
La lettura che fa, poi, attraversa anche la biografia di Rembrandt. Così, ad esempio, nella figura del figlio più giovane, Nouwen legge quanto segue: «Ogni volta che guardo il figlio prodigo che si inginocchia davanti al padre e affonda il viso contro il suo petto, non posso che scorgere in lui l’artista, un tempo così sicuro di sé e venerato, giunto alla dolorosa consapevolezza che tutta la gloria da lui attinta non è che vana gloria». La parabola del figliol prodigo ci parla soprattutto della «immensità dell’amore compassionevole di Dio», ma anche del rischio reale di abbandonare questo amore. «Quando mi inserisco in questa storia alla luce di quell’amore divino, diventa dolorosamente chiaro che andar-via-di-casa è molto più vicino alla mia esperienza spirituale di quanto potessi pensare». Quel paese lontano può prendere diverse forme e volti, ma l’esito è unico, è l’andare in un paese lontano e «finché viviamo nelle illusioni del mondo, le nostre dipendenze ci condannano a ricerche futili nel “paese lontano”, esponendoci a una serie infinita di delusioni che ci lasciano inappagati». E così «sono il figlio prodigo ogni volta che cerco l’amore incondizionato dove non può essere trovato».
Un’altra ricca lezione che Nouwen tira fuori dalla parola è che il perdono ricevuto è una delle più grandi provocazioni e difficoltà della vita dell’uomo. Scrive: «Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale è ricevere il perdono di Dio. C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo». È l’approdo all’infanzia spirituale che non è infantilismo. Nouwen specifica infatti che Gesù non mi chiede di rimanere un bambino, ma di diventarlo. Diventare un bambino significa vivere una seconda innocenza: non l’innocenza del neonato, ma l’innocenza a cui si arriva attraverso scelte consapevoli.
Un’altra, fra le tante ricche intuizioni del testo è quella che vede in Gesù il vero prodigo. Nouwen osserva come Gesù abbia lasciato la casa del Padre celeste, è venuto in un paese straniero, ha dato via tutto quello che aveva ed è tornato, attraverso la croce, alla casa di suo Padre». Ma tutto ciò, Gesù l’ha fatto con una grande differenza: «Tutto questo lo ha fatto non come figlio ribelle, ma come figlio obbediente, inviato sulla terra per riportare a casa tutti i figli perduti di Dio. Anche Gesù, che ha narrato la parabola a quelli che lo criticavano perché si accompagnava ai peccatori, ha vissuto il lungo e doloroso viaggio che descrive».
Nouwen confessa che è improbabile che Rembrandt abbia mai pensato al figlio prodigo in questo modo. Questa interpretazione non era solita nella predicazione e negli scritti del suo tempo. Tuttavia, vedere in questo giovane stanco e affranto la persona stessa di Gesù dà molto conforto e consolazione. «Il giovane abbracciato dal Padre non è più soltanto un peccatore pentito, ma l’intera umanità che torna a Dio». La parabola dipinta da Rembrandt potrebbe essere giustamente chiamata “La parabola dei figli perduti”. Non si è perduto soltanto il figlio più giovane, che se n’è andato da casa per cercare libertà e felicità in un paese lontano, ma anche quello che è rimasto. Esteriormente faceva tutte le cose che si suppone faccia un bravo figlio, ma, interiormente, si era allontanato da suo padre.
E colui che ama fino a perdersi nell’amore per ritrovare e far ritrovare se stesso a ognuno dei figli è il padre, immagine di un Dio dinamico, non fissista o prigioniero di una sua fatidica perfezione, un Dio che ci salva con il suo abbraccio benedicente.
R. Cheaib, in
Theologhia.com 22 aprile 2018