La quota di maschi adulti che, all’interno di relazioni di prossimità e fiducia, abusano di bambini/e, in cerca di una relazione di pura dominazione che l’emancipazione delle donne sta tentando di precludere, è enorme. La commissione Sauvé ha fatto un calcolo sulla Francia postbellica per conto della Conferenza episcopale francese: ha contato 5,5 milioni di perpetratori che hanno trovato il modo di creare una intimità stuprante e poi di procurarsi una nicchia di omertà nel familismo maschilista o nel perbenismo borghese o nella loro contestazione libertaria.
Una quota di questi delitti è stata commessa dal clero cattolico (in Francia il 3,9%). In parte coperta da vescovi che hanno allargato il numero delle vittime confondendo peccato e reato. Vicende, casi che pongono un problema che va molto al di là della pur solenne «vergogna» che la Chiesa cattolica ha espresso dai tempi di Benedetto XVI o della adozione di legislazioni ispirate alla zero tolerance con cui Rudolph Giuliani tentò, senza riuscirci, di bonificare la metropolitana di New York, meritando un posto nella storia di quello che i giuristi chiamano il «populismo penale» (Denis Salas) o «il diritto penale come religione di massa» (Massimo Donini).
Il problema che pertiene alla sfera della penitenza e non della paura della gogna (vergogna significa vereor gognam) è un altro: perché il Vangelo non abbia saputo condannare l’idolatria dell’onnipotenza maschile, come ad esempio ha condannato, ben prima della modernità illuminista, la schiavitù, e anzi l’abbia incorporata alla sua dottrina. Nel 2002, lavorando a un numero della rivista «Concilium» dedicato al «tradimento strutturale della fiducia», ci illudevamo che la teologia e la gerarchia potessero iniziare a discutere su quando e perché la predicazione del Vangelo non avesse individuato tre incubatori di abuso, cioè: 1) una teologia della famiglia, definita dall’Ottocento «prima cellula della società» perché luogo di una asimmetria archetipica fra il pater familias e gli oggetti del suo potere; 2) una teologia del sacerdozio, che, nutrita di spiritualità febbricitanti, faceva del prete un uomo doppio: identico al Cristo sull’altare e impune fuori dal presbiterio; 3) una teologia del potere ecclesiastico, che, anziché l’obbedienza, insegnava la sudditanza pedagogica nei seminari e nei noviziati. E — ci dice un importante libro di Céline Hoyeau su Il tradimento dei padri (Queriniana editrice) — insegnava subalternità che sfociava nell’abuso carnale nelle nuove comunità monastiche e nei movimenti laicali nati dal dopoguerra in qua.
Più fattuale del rapporto Sauvé — letteralmente un autodafè generale su base statistica — Hoyeau racconta senza eufemismi come in tutte o quasi le esperienze religiose francesi nate a cavallo del Vaticano II ci siano stati fondatori, guide, leader che erano venerati dagli adepti e onorati dalla gerarchia come portatori di una stagione spirituale che, secondo i conservatori, doveva rimediare le delusioni del postconcilio: e che proprio grazie a questo hanno sottomesso soprattutto adulti — per lo più donne, spesso religiose — e le hanno rese vittime di violenze di coscienza, prima; e poi sessuali.
Una galleria di orrori in cui spicca il filosofo domenicano Marie-Dominique Philippe, che irretiva le sue vittime con dottrine mariologiche raccapriccianti (Maria «sposa del Cristo») o con elucubrazioni morali sui rapporti carnali senza penetrazione, analoghe a quelle di Bill Clinton («I did not have sexual relations with that woman») sui suoi rapporti con Monica Lewinsky. E accanto al père Marie-Do una catena di fondatori dalla quale non è esentato nemmeno Jean Vanier — laico, non sposato, vissuto all’Arca in mezzo a disabilità mentali gravissime, e accusato da morto di una serie di relazioni con donne adulte ricondotte alla figura dell’abuso di coscienza e sessuale.
«Cadono gli idoli» ha commentato un vescovo sciocco, felice nel vedere il conservatorismo dei Grigi, l’estetismo liturgico della comunità delle Beatitudini, il successo del Focolare, accusati di reati, peccati diversi fra loro, ma alla fine sufficienti a costruire, come fa Céline Hoyeau, una logica del sospetto che sembra desiderare il ritorno al Cinquecento di Paolo IV.
Una logica che applica al giornalismo d’inchiesta il teorema «psicologico» — in Italia espresso dal padre Amedeo Cencini, l’inquisitore di Bose — secondo cui solo la morte o l’uccisione del fondatore rende adulta una comunità: teorema che da un lato dovrebbe portare alla reiterazione del divieto del Lateranense IV di scrivere regole o comunità per evitare una turpitudine «fisiologica». Dall’altro manda assolto un solo attore, cioè il papato: quando nel 1988 Papa Wojtyla decise di «appaltare» ai movimenti la festa di Pentecoste (una delle tre che nella tradizione liturgica hanno la messa di mezzanotte che nessun vescovo celebra), quando decise di far diventare il «carisma» dei fondatori di nuove comunità i profeti di quelle «minoranze creative» teorizzate da Ratzinger, diede copertura a tutto: ciò che riteneva imperfette sublimazioni o vocazioni immature, che oggi appare incubatore di brutture e delitti.
Il papato di Francesco s’è liberato di quel passato: senza porre il problema delle cause, senza domandare ai vescovi uno sforzo di pensiero evangelico su quei nodi teologici di fondo, ma creando un sistema penale sommario di corti «marziali», che rendono oggi ogni vescovo (anche quello che fra molti anni sarà eletto vescovo di Roma al suo posto) consapevole che sia una verità scomoda sia una calunnia infame potranno inibirne la funzione affidatagli da Dio. Sempre meglio dell’omertà, certo. Ma la sordità alla parola evangelica che ha permesso gli abusi dei piccoli e delle religiose resta intonsa: in attesa di una teologia, di un magistero, di un concilio o di tutti e tre.
A. Melloni, in
Corriere 29 agosto 2023