«Perché esiste il male?», «Da dove proviene il male?». Sono domande che l’umanità si pone da sempre e alle quali ha cercato di dare le risposte più diverse e che la pandemia da Covid 19 ha reso assolutamente attuali. La nostra società globale, infatti, così sicura di sé e della sua scienza, che riteneva di tenere tutto sotto controllo, si è vista aggredita in tempi rapidissimi da un nemico invisibile e terribilmente aggressivo, da un corpo estraneo che ha preso possesso delle nostre esistenze per più di un anno, ha provocato milioni di morti e ha tenuto sotto scacco l’economia in tutto il mondo.
È in una tale contingenza che è arrivato in libreria, pubblicato dalla Casa Editrice Queriniana, questo testo sul tema del Male. E anche se esso è stato originariamente scritto prima della pandemia (l’edizione francese è del 2017), è sotto lo stimolo di questo momento che io l’ho letto e ci ho riflettuto. Di più: è proprio perché era questa la situazione che stavamo vivendo che ho sentito l’urgenza di prenderlo in mano.
François-Xavier Putallaz è un filosofo svizzero che insegna all’Università di Friburgo ed è membro della Commissione etica nazionale svizzera e della Commissione di bioetica dei Vescovi svizzeri. In Italia sono già stati pubblicati alcuni suoi testi, come il romanzo storico L’ultimo viaggio di Tommaso d’Aquino (Piemme 2000) o il più classico Figure francescane alla fine del xiii secolo (Jaca Book 1996); ma sono apparsi anche articoli e interviste su temi di bioetica. Quest’ultima annotazione segnala come il nostro autore sia attento anche al colloquio con un pubblico non specialistico. Ciò è evidente in questo libro in cui il lettore viene preso per mano e accompagnato attraverso un percorso, niente affatto agevole, che porta a confrontarsi con questo nodo che stringe l’esperienza umana.
Un percorso che si sviluppa attraverso il discorso filosofico e approda alla visione teologica del confronto con Dio e con la Sua volontà. Abbiamo aperto questa breve riflessione con la domanda: «che cos’è il male?». Il Putallaz, per darne una (non) definizione, usa una metafora: «Un giorno, capitò che uno dei miei figli mi pose una serie di domande divertenti, tra cui questa: “puoi dirmi che cos’è un buco, senza dire che cosa c’è attorno?” [...]. Il buco non è una realtà come le altre, visibile o tangibile: il buco è una “privazione”» (pp. 6-7). Uscendo dalla metafora, il male è descritto come una mancanza, e dunque non se ne può dare una definizione perché solo le essenze possono essere definite.
Questa affermazione, la cui formulazione più antica risale ad Agostino d’Ippona, fa da fil rouge a tutta l’esposizione. È il bene che ha il primato, sia dal punto di vista ontologico che morale, e il male ne rappresenta la privazione, l’opposto. Va notato che, se il male è l’opposto del bene, non è vero il contrario − in quanto il bene è ciò che è, mentre si ha il male soltanto quando il bene viene a mancare. Il linguaggio e l’argomentazione del Putallaz ricordano quanto scritto da K. Barth nella sua Dogmatica, dove ha identificato il Male con il Niente (das Nichtige), anche se, ovviamente, il discorso del teologo basilese era molto più articolato, e con una prospettiva cristologica che mi pare mancare nel Nostro.
Non posso percorrere qui l’intera riflessione svolta dall’autore, ma mi pare importante segnalare almeno due aspetti per me significativi. Innanzitutto, il fatto che dobbiamo sempre tenere distinto il male dalla percezione che noi ne abbiamo. «La conoscenza del male», dice il Putallaz, «quale che ne sia la forma, è necessaria affinché lo si possa provare, farne esperienza, dunque soffrirne» (p. 25). La percezione del male si situa al confine tra il polo oggettivo (per esempio, la presenza di un cancro) e il polo soggettivo (la coscienza di essere colpiti dalla malattia, che in una prima fase può essere silente e pertanto non percepita, benché presente).
Il modo in cui ci poniamo di fronte a questa realtà non è indifferente. Infatti, spesso siamo tentati di pensare che, una volta eliminata la percezione del dolore, ne abbiamo eliminata anche la causa. Da questa affermazione discendono alcune considerazioni molto concrete concernenti, ad esempio, la bioetica. Per cui vanno bene le cure palliative, perché è sempre un bene alleviare il dolore; ma vi sono altri aspetti che meritano una approfondita discussione. Si citano i casi del suicidio assistito e della diagnosi preimpiantatoria (DPI). In ambedue le situazioni si vuole combattere il male, dice l’autore, eliminando il soggetto: una persona nel primo caso e degli embrioni «inutili» nel secondo. Tutto questo è oggetto di un dibattito ancora aperto, ma è indubbio che le obiezioni portate dal Putallaz sono degne della massima considerazione.
Il secondo aspetto è il fatto che il Putallaz nella parte finale del libro si concentra sul male morale, dove si vuole rispondere alla domanda: «di chi è la colpa?». Per questo, egli fa riferimento alla metafisica del bene esposta da Tommaso d’Aquino: «Poiché l’uomo è un animale dotato di intelligenza, egli può compiere degli atti liberi e non solamente istintivi [...]. Siamo qui di fronte a una scelta volontaria realizzata dal «libero arbitrio»: decidiamo dopo una deliberazione, che sia stata rapida o lunga, facile o difficile» (p. 119). Il problema è che troppo spesso ci allontaniamo dalla ricerca della felicità, dal Sommo Bene, cioè la volontà di Dio che per natura è instillata in noi, per seguire quello che riteniamo essere il nostro bene immediato − o i nostri idoli (p. 123). Dunque: «L’atto buono che compio è l’effetto congiunto della volontà divina e della mia mia volontà libera, mentre l’atto cattivo, disordinato, è dovuto alla mia volontà di sfuggire alla volontà divina, per divenire io stesso causa esclusiva ed unica del male» (p. 123). Dio, quindi, benché venga pensato dal nostro autore come la causa prima dell’esistenza, e dunque anche del male (p. 128) che in essa scaturisce da una mia decisione, rimane innocente per quanto attiene il male da me compiuto.
Fermo restando il fatto che «sono molte le questioni che restano aperte», come riconosce lo stesso autore (p. 133), vi sono alcune piste da seguire, la più importante delle quali è la necessità di correggere la volontà reindirizzandola verso la felicità, sua destinazione originaria (p. 136); ma l’essere umano non può farcela da solo, è necessaria la grazia di Dio − e qui ogni riflessione umana, ogni filosofia scopre il suo limite. Dio «non vuole né crea il male, ma permette che esista. Perché? Unicamente perché è possibile che sorga da esso un bene più grande [...]. Ecco il mistero e il solo», conclude Putallaz, «sul quale si interrompe questa riflessione» (p. 137).
P. Ribet, in
Protestantesimo 4/2021, 273-275