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Il male
François-Xavier Putallaz

Il male

Prezzo di copertina: Euro 13,00 Prezzo scontato: Euro 12,35
Collana: Nuovi saggi 99
ISBN: 978-88-399-0999-2
Formato: 12 x 20 cm
Pagine: 144
Titolo originale: Le Mal
© 2020

In breve

Un pensiero chiaro e ben organizzato sul paradosso del male.

Descrizione

Perché il male? Come dire l’innominabile? Come prenderne le distanze per capirlo meglio? Noi vi siamo implicati: il male sconvolge le nostre vite. È un fatto: tristezza, dolore, sofferenza, morte irrompono in ogni esistenza, anche prima che ci pensiamo.
Sia come sia, le diverse forme del male hanno un punto in comune: il male non è una cosa. Si presenta come una frattura in ciò che è, come un parassita che corrode il bene, senza il quale però non potrebbe nemmeno esistere. Il bene ha dunque un primato assoluto, che nutre la speranza: il bene sarà sempre più forte. L’esperienza stessa dell’infelicità, per esempio, testimonia implicitamente che siamo fatti per essere felici.
L’intelligenza che cerca di affrontare il paradosso del male si sforza così di distinguere, senza separarli, il male oggettivo dalla sua risonanza soggettiva. L’impresa è rischiosa perché, volendo fare il bene, l’uomo compie talvolta atti orribili, in cui il male si mescola con l’amore. E questo rende la ricerca ancora più intrigante.

Recensioni

«Perché esiste il male?», «Da dove proviene il male?». Sono domande che l’umanità si pone da sempre e alle quali ha cercato di dare le risposte più diverse e che la pandemia da Covid 19 ha reso assolutamente attuali. La nostra società globale, infatti, così sicura di sé e della sua scienza, che riteneva di tenere tutto sotto controllo, si è vista aggredita in tempi rapidissimi da un nemico invisibile e terribilmente aggressivo, da un corpo estraneo che ha preso possesso delle nostre esistenze per più di un anno, ha provocato milioni di morti e ha tenuto sotto scacco l’economia in tutto il mondo.

È in una tale contingenza che è arrivato in libreria, pubblicato dalla Casa Editrice Queriniana, questo testo sul tema del Male. E anche se esso è stato originariamente scritto prima della pandemia (l’edizione francese è del 2017), è sotto lo stimolo di questo momento che io l’ho letto e ci ho riflettuto. Di più: è proprio perché era questa la situazione che stavamo vivendo che ho sentito l’urgenza di prenderlo in mano.

François-Xavier Putallaz è un filosofo svizzero che insegna all’Università di Friburgo ed è membro della Commissione etica nazionale svizzera e della Commissione di bioetica dei Vescovi svizzeri. In Italia sono già stati pubblicati alcuni suoi testi, come il romanzo storico L’ultimo viaggio di Tommaso d’Aquino (Piemme 2000) o il più classico Figure francescane alla fine del xiii secolo (Jaca Book 1996); ma sono apparsi anche articoli e interviste su temi di bioetica. Quest’ultima annotazione segnala come il nostro autore sia attento anche al colloquio con un pubblico non specialistico. Ciò è evidente in questo libro in cui il lettore viene preso per mano e accompagnato attraverso un percorso, niente affatto agevole, che porta a confrontarsi con questo nodo che stringe l’esperienza umana.

Un percorso che si sviluppa attraverso il discorso filosofico e approda alla visione teologica del confronto con Dio e con la Sua volontà. Abbiamo aperto questa breve riflessione con la domanda: «che cos’è il male?». Il Putallaz, per darne una (non) definizione, usa una metafora: «Un giorno, capitò che uno dei miei figli mi pose una serie di domande divertenti, tra cui questa: “puoi dirmi che cos’è un buco, senza dire che cosa c’è attorno?” [...]. Il buco non è una realtà come le altre, visibile o tangibile: il buco è una “privazione”» (pp. 6-7). Uscendo dalla metafora, il male è descritto come una mancanza, e dunque non se ne può dare una definizione perché solo le essenze possono essere definite.

Questa affermazione, la cui formulazione più antica risale ad Agostino d’Ippona, fa da fil rouge a tutta l’esposizione. È il bene che ha il primato, sia dal punto di vista ontologico che morale, e il male ne rappresenta la privazione, l’opposto. Va notato che, se il male è l’opposto del bene, non è vero il contrario − in quanto il bene è ciò che è, mentre si ha il male soltanto quando il bene viene a mancare. Il linguaggio e l’argomentazione del Putallaz ricordano quanto scritto da K. Barth nella sua Dogmatica, dove ha identificato il Male con il Niente (das Nichtige), anche se, ovviamente, il discorso del teologo basilese era molto più articolato, e con una prospettiva cristologica che mi pare mancare nel Nostro.

Non posso percorrere qui l’intera riflessione svolta dall’autore, ma mi pare importante segnalare almeno due aspetti per me significativi. Innanzitutto, il fatto che dobbiamo sempre tenere distinto il male dalla percezione che noi ne abbiamo. «La conoscenza del male», dice il Putallaz, «quale che ne sia la forma, è necessaria affinché lo si possa provare, farne esperienza, dunque soffrirne» (p. 25). La percezione del male si situa al confine tra il polo oggettivo (per esempio, la presenza di un cancro) e il polo soggettivo (la coscienza di essere colpiti dalla malattia, che in una prima fase può essere silente e pertanto non percepita, benché presente).

Il modo in cui ci poniamo di fronte a questa realtà non è indifferente. Infatti, spesso siamo tentati di pensare che, una volta eliminata la percezione del dolore, ne abbiamo eliminata anche la causa. Da questa affermazione discendono alcune considerazioni molto concrete concernenti, ad esempio, la bioetica. Per cui vanno bene le cure palliative, perché è sempre un bene alleviare il dolore; ma vi sono altri aspetti che meritano una approfondita discussione. Si citano i casi del suicidio assistito e della diagnosi preimpiantatoria (DPI). In ambedue le situazioni si vuole combattere il male, dice l’autore, eliminando il soggetto: una persona nel primo caso e degli embrioni «inutili» nel secondo. Tutto questo è oggetto di un dibattito ancora aperto, ma è indubbio che le obiezioni portate dal Putallaz sono degne della massima considerazione.

Il secondo aspetto è il fatto che il Putallaz nella parte finale del libro si concentra sul male morale, dove si vuole rispondere alla domanda: «di chi è la colpa?». Per questo, egli fa riferimento alla metafisica del bene esposta da Tommaso d’Aquino: «Poiché l’uomo è un animale dotato di intelligenza, egli può compiere degli atti liberi e non solamente istintivi [...]. Siamo qui di fronte a una scelta volontaria realizzata dal «libero arbitrio»: decidiamo dopo una deliberazione, che sia stata rapida o lunga, facile o difficile» (p. 119). Il problema è che troppo spesso ci allontaniamo dalla ricerca della felicità, dal Sommo Bene, cioè la volontà di Dio che per natura è instillata in noi, per seguire quello che riteniamo essere il nostro bene immediato − o i nostri idoli (p. 123). Dunque: «L’atto buono che compio è l’effetto congiunto della volontà divina e della mia mia volontà libera, mentre l’atto cattivo, disordinato, è dovuto alla mia volontà di sfuggire alla volontà divina, per divenire io stesso causa esclusiva ed unica del male» (p. 123). Dio, quindi, benché venga pensato dal nostro autore come la causa prima dell’esistenza, e dunque anche del male (p. 128) che in essa scaturisce da una mia decisione, rimane innocente per quanto attiene il male da me compiuto.

Fermo restando il fatto che «sono molte le questioni che restano aperte», come riconosce lo stesso autore (p. 133), vi sono alcune piste da seguire, la più importante delle quali è la necessità di correggere la volontà reindirizzandola verso la felicità, sua destinazione originaria (p. 136); ma l’essere umano non può farcela da solo, è necessaria la grazia di Dio − e qui ogni riflessione umana, ogni filosofia scopre il suo limite. Dio «non vuole né crea il male, ma permette che esista. Perché? Unicamente perché è possibile che sorga da esso un bene più grande [...]. Ecco il mistero e il solo», conclude Putallaz, «sul quale si interrompe questa riflessione» (p. 137).


P. Ribet, in Protestantesimo 4/2021, 273-275

Ci sono piccoli libri che sono grandi gemme. Un recente saggio di François–Xavier Putallaz, filosofo e docente a Friburgo, rientra in questa categoria. In esso Putallaz, esperto di pensiero medievale (Piemme anni fa tradusse un suo romanzo storico, L’ultimo viaggio di Tommaso d’Aquino), condensa con arguzia i suoi studi filosofici e un’osservazione intelligente della realtà. Tanto che proprio l’esperienza di padre di famiglia apre e chiude questo piccolo trattato filosofico, in cui si spazia da Tommaso a Hannah Arendt, da Epicuro a Jean–Paul Sartre. Con puntate pop decisamente gustose, come lo sguardo ironico sul film Ocean’s twelve, con Pitt e Clooney: «Un giorno uno dei miei figli mi pose un quesito: “Puoi dirmi cos’è un buco, senza dire ciò che c’è attorno?”. Il lettore si fermi un istante. Non ci metterà molto a osservare che è impossibile rispondere alla domanda. Il buco non è una “cosa”, un materiale che si aggiunge alle cose che si vedono e si toccano. Non è una “realtà” come le altre, visibile o tangibile: il buco è una “privazione”».

A chi legge non sfugge l’analogia tra buco e male... Il buco come una mancanza di realtà, il male come una mancanza di bene. Su questa analogia Putallaz costruisce un ragionamento stringente, che naturalmente deborda nella riflessione sulla forza del bene e sulla sua primazia ontologica e morale. In chiusura Putallaz riprende una preghiera tradizionale per i bambini: «Grazie, Signore, per tutto il bene che Tu mi hai permesso di fare in questo giorno. Perdonami, Signore, tutto il male che ho fatto».

Il periodare di Putallaz è fortemente filosofico, ma non sconfina in intellettualismi. Ha il pregio di intessere il proprio ragionare con fatti di cronaca e aneddoti. Così i migranti del Mediterraneo o la guerra in Siria, il malato di cancro o la confessione di un amico vanno a suggellare la pregnanza della riflessione filosofica. Che spesso plana su questioni biomediche (con un argomentato e razionale rifiuto dell’eutanasia, per esempio), visto che Putallaz ne è specialista: è stato membro della Commissione svizzera di etica, del Comitato scientifico dell’Istituto europeo di bioetica e della Commissione di bioetica dei vescovi elvetici.

Quale l’aspetto più innovativo del breve trattato di Putallaz? Quello di «parlare bene del male», ovvero «fare un po’ di chiarezza, di verità se possibile, in un mondo già sufficientemente inquietante anche senza che gli amanti della sapienza vi aggiungano confusione e oscurità». Cosa è dunque questo «bene del male»? È semplicemente riconoscere che «il male è relativo al bene, mentre l’inverso non è vero. È dal bene di cui priva che bisogna cominciare se si vuole capire qualcosa del male. Questo punto è capitale: il bene gode di un primato sul male».

Cosa significa questo, in concreto? Putallaz rilancia quelle attestazioni di bene irriducibile di fronte al male incarnatosi di volta in volta in «tutti i grandi dell’umanità» ed esemplifica con Nelson Mandela, Martin Luther King, Gandhi. «Ma penso anche a quella vasta coorte di persone anonime, a quelli di cui la storia non conosce il racconto, a quelli che non hanno mai cercato di diventare eroi». Cosa hanno fatto di così eccelso questi grandi, noti e anonimi, di fronte al male? «Cosa ci mostrano queste persone? Che la vita umana è degna di essere vissuta in virtù di ciò che la trascende. Essi gridano in faccia al mondo che vi sono mali più grandi della morte».

Putallaz compie poi una disamina delle diverse posizioni che, filosoficamente, si sono rapportate col tema del male: la famosa definizione di banalità del male coniata dalla Arendt a partire dal processo Eichmann a Gerusalemme; e la visione atea di Sartre espressa nell’opera Le mosche. Putallaz sembra quasi «scusare» e dar ragione all’ateismo drammatico dell’esistenzialista francese rispetto al riduzionismo intellettuale della Arendt, secondo il quale il boia nazista faceva il male semplicemente perché «non pensava»: «Questo è il dramma, la posta in gioco più radicale dell’ateismo che divora il cuore umano. Questa è la grandiosa analisi metafisica che va più lontano dell’ipotesi della “banalità del male” avanzata da Hannah Arendt, perché scaturisce da un contenuto, e non riconduce la morale a un pensiero speculativo o puramente formale».

Come affrontare il male quando ce lo troviamo davanti? Putallaz avanza alcuni consigli concreti: «Occorre correggere la volontà, reindirizzarla verso la felicità, sua destinazione originaria. Tutto sta nel determinare il modo di riuscirci». Dobbiamo ricordarci «che il bene è ontologicamente più potente del male, che lo presuppone, mentre l’opposto non è vero. Malgrado le cattive notizie che provengono dal mondo, malgrado le guerre e le epidemie (il libro è del 2017, ben prima del Covid), malgrado le malattie e la morte, il bene è vincente, perché non può che essere vincente».


L. Fazzini, inAvvenire 6 novembre 2020, III