E se per capire il vero senso del Decalogo dovessimo partire dall’ultimo comandamento? Lo scriveva già René Girard nel volume Vedo Satana cadere come la folgore (Adelphi 2001). Se all’inizio di ogni società umana c’è la violenza, per il grande antropologo essa è fondata sull’imitazione, quello che lui chiama il “desiderio mimetico”: noi desideriamo ciò che l’altro possiede o desidera. Per questo a suo parere è fondamentale il contenuto dell’ultima prescrizione divina, che nella tradizione ebraica recita: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
Proibizione che per Girard non è affatto repressiva, dato che se non viene rispettata apre la porta al trionfo della logica dell’homo homini lupus, la guerra di tutti contro tutti immaginata da Hobbes. Solo il Vangelo capovolge tutto questo: «Gesù non parla mai in termini di divieti ma costantemente in termini di imitazione e modelli. Egli non ci raccomanda di imitare lui stesso perché afflitto da narcisismo, bensì per distoglierci dalle rivalità mimetiche». Il Decalogo insomma assegna all’ultimo comandamento – il nono e il decimo nella versione cristiana, che ha anche preferito unire nel secondo quelli che nell’Antico Testamento sono in realtà il secondo e il terzo: Baker segue quest’ultima tradizione che proviene dai libri dell’Esodo e del Deuteronomio – lo scopo di proibire il desiderio dei beni del prossimo e lo fa perché si riconosce in questo desiderio l’elemento scatenante delle violenze proibite contenute nei quattro comandamenti che lo precedono. Bramosia e cupidigia sono la fonte della violenza e perciò il vero ostacolo alla convivenza umana basata sul rispetto e l’amore dell’altro voluti da Dio.
A suo modo anche il biblista inglese David L. Baker, che insegna Studi biblici a Ware, in Inghilterra, dopo averlo fatto in Indonesia e Australia, oltre che a Cambridge, fa propria senza citarla la tesi di René Girard: «Probabilmente – scrive – nessun altro comandamento ha un’importanza teologica ed etica maggiore tranne il primo. Perché il primo è fondamentale per la relazione con Dio, l’ultimo per il nostro atteggiamento verso gli altri esseri umani. Questo atteggiamento può essere riassunto nel sentirsi appagati da ciò che Dio ci dà anziché desiderare ciò che dà agli altri». Baker è autore di un saggio importante, la sua prima opera tradotta in Italia, dal titolo Il Decalogo. Vivere come popolo di Dio (Queriniana, pagine 260, euro 25,00). Libro in cui analizza il contesto storico e teologico di quello che è tutt’oggi considerato il pilastro della civiltà occidentale e che i filosofi hanno perlopiù fatto coincidere con la legge naturale, da distinguere dalla legge positiva, vale a dire il diritto e la legislazione varati dagli Stati nei secoli.
Baker rimarca come il Decalogo contenga i principi essenziali della società, indispensabili nel XXI secolo come quando furono dati per la prima volta a Mosè. Esso è il punto di partenza anche per l’etica cristiana, dato che Gesù non è venuto ad abolire la legge ma a completarla. Il volume di Baker passa poi in rassegna uno per uno i vari comandamenti divini definendoli con una parola: un solo Dio, il culto, la riverenza, il riposo, la famiglia, la vita, il matrimonio, la proprietà, la verità, la bramosia. Ma torniamo all’ultimo comandamento, che «ha disorientato ebrei e cristiani nel corso dei secoli». Una legge può forse proibire di desiderare? E come si può applicare una legge che si occupa dei pensieri e non delle azioni? Nel mondo antico solo nel Codice di Hammurabi si ritrova qualcosa di simile, quando in una clausola viene citato il desiderio dei beni presenti in una casa che sta andando a fuoco e la sua appropriazione, ma in gioco in questo caso è il furto, non la brama in sé. E anche nelle società moderne non esistono leggi contro il desiderio. Per Baker però, come per Girard, si tratta di un divieto cruciale: «Il desiderio smodato è pericoloso. Spesso è il primo passo verso l’inosservanza degli altri comandamenti: la lussuria porta all’adulterio, l’avidità porta al furto, e così via».
Il biblista non può infine esimersi dal notare come la società postmoderna sia fondata sul desiderio e sulla sua continua stimolazione attraverso la pubblicità. Tutta la cultura popolare e la pressione dei coetanei ci spingono a desiderare di possedere qualcosa e ad essere invidiosi verso coloro che già ne sono in possesso. Il decimo comandamento esprime un atteggiamento controculturale e di certo non è «economicamente corretto nel mondo materialistico».
Per Baker i Dieci comandamenti si possono dividere in due cinquine, la prima identificabile con l’espressione “Amare Dio” e la seconda riassumibile con la definizione “Amare il prossimo”. Si parte con il riconoscimento di una verità basilare su Dio, vale a dire la sua unicità: un monoteismo che si differenzia da tutte le civiltà antiche che erano politeiste, tranne l’eccezione del culto del dio Ra o Aton nel regno di Akhenaton in Egitto, che escluse tutti gli altri dei, ma si trattò di un fatto limitato nel tempo. Il monoteismo di Israele è perciò da considerare un unicum nella storia delle religioni.
Al primo comandamento fanno seguito altre due imposizioni, che vietano di costruirsi idoli o immagini di Dio e di non abusarne il nome. Baker si pone giustamente la domanda se sia in questione l’atto di costruire un’immagine per sé o l’uso di tali immagini nel culto: «In altre parole, sarebbe accettabile fare un’immagine per scopi puramente artistici o educativi?». Questione che tocca da vicino la sensibilità ebraica ed islamica e che nel cristianesimo è stata risolta nell’VIII secolo col Concilio di Nicea che pose fine alla controversia iconoclasta. A parere di Baker il comandamento non è pensato per escludere la raffigurazione di immagini o la creazione di modelli, è semmai un no all’idolatria, un invito ad ascoltare Dio più che a volerlo guardare. Riguardo poi al divieto di pronunciarne il nome, il biblista suggerisce che il riferimento va al falso giuramento pronunciato nel nome di Dio ma anche al divieto di usare tale nome per scopi magici. Infine, lancia un j’accuse verso noi cristiani occidentali tiepidi, sottolineando come «la banalità delle persone devote può essere un problema peggiore delle bestemmie degli atei». Seguono come noto l’elogio della festa e della famiglia. Nel primo caso è come diceva Heschel «un’occasione per rappezzare la nostra vita sbrindellata», nel secondo la pietà filiale, che implica il rispetto della dignità dei genitori e il loro sostegno nella vecchiaia, diviene la radice di tutte le virtù familiari e civili. Così come il richiamo a non commettere adulterio, che non ha tanto a che vedere col sesso quanto con la conservazione del matrimonio come unità fondamentale della società.
Riguardo a “Non uccidere” e “Non rubare”, comandamenti secchi e immediati, Baker annota come anche l’odio e l’ira possono uccidere il prossimo, mentre nel caso del furto sottolinea che il divieto va allargato a ogni forma di guadagno illecito o ai casi di corruzione finanziaria. Infine, il comando di dire sempre la verità: «Come gli altri comandamenti negativi, il nono non vieta semplicemente un crimine. Lo si può intendere anche positivamente per affermare l’importanza di parlare – e di scrivere – in modo veritiero per il popolo di Dio e per la società nel suo insieme». Un richiamo alla necessità della parresìa per i credenti, come ha detto Gesù: «Sia invece il vostro parlare sì, sì, no, no, il di più viene dal Maligno».
R. Righetto, in
Avvenire 5 febbraio 2020, 20