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Fiorire
Miroslav Volf

Fiorire

Il contributo della religione in un mondo globalizzato

Prezzo di copertina: Euro 35,00 Prezzo scontato: Euro 33,25
Collana: Books
ISBN: 978-88-399-2895-5
Formato: 13,5 x 21 cm
Pagine: 352
Titolo originale: Flourishing. Why We Need Religion in a Globalized World
© 2020

In breve

«La mia tesi è semplice. La Scrittura dice: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. La tentazione più grande di tutte non è servire falsi dèi. È credere e agire come se gli esseri umani vivessero di solo pane».

Descrizione

La fede è portatrice di visioni avvincenti del “fiorire” umano. Una vita che fiorisce è una vita che raggiunge la sua pienezza umana e personale. Idea nostalgica? Sogno impossibile, da paese delle meraviglie?
In questo libro, un teologo all’avanguardia come Miroslav Volf mette in evidenza alcuni elementi-chiave delle visioni religiose del fiorire umano, delinea i motivi per cui esse sono necessarie in un mondo globalizzato ed esplora come le religioni possono propugnarle e incarnarle in modo pacifico, per il bene di tutta l’umanità presente e futura.
Ne nasce una riflessione stimolante, profondamente personale, che indaga con competenza e con una ricca documentazione il modo in cui le fedi e la globalizzazione hanno interagito lungo la storia, ragionando a favore di una relazione adeguata fra le une e l’altra. Se Volf muove un’aspra critica ai tentativi di fondere religione e politica, d’altro canto afferma il bisogno di un impegno pubblico per perseguire la fioritura dell’intera creazione, svelando una via verso la pace.

Recensioni

La tesi del libro è presto detta e ben riassunta dall'A.: «Lungi dall'essere una sciagura per l'umanità, come molti credono e alcuni sperimentano, le religioni sono portatrici di visioni avvincenti del fiorire» (p. 7). L’autore è il teologo evangelico croato ma professore a Yale, Miroslav Volf. Uscito nel 2015 e tradotto in italiano nel 2020, il libro nasce da una serie di seminari a Yale poi portata in giro per il mondo anche grazie alla Tony Blair Foundation. Uno degli scopi è di contrastare l'opinione vecchia ma sempre serpeggiante secondo la quale le religioni sono portatrici di conflitti e, dunque, da estirpare dalle coscienze. Ovviamente, Volf non nega l'evidenza fattuale circa il fatto che le religioni siano state anche incubatrici e fomentatrici di violenza; vuole semmai sostenere la tesi che non lo debbano essere per forza; anzi, che siano in grado di alimentare una visione della vita all'insegna della fioritura all'interno di una cornice contrassegnata da un «regime di rispetto» (Michael Walzer).

Ll libro è molto ricco di discussioni sul ruolo delle religioni nel mondo globalizzato e di ampie note bibliografiche, come c'è da aspettarsi da un professore universitario. La tesi principale (almeno quella che più mi interessa) è che «gli esclusivisti religiosi - coloro che ritengono che solo la loro religione sia vera - non devono propugnare forme autoritarie o totalitarie di governo, ma possono essere (e in certi casi lo sono stati) attivi pluralisti politici» (p. 37).

C'è un punto di partenza sbagliato nei critici della religione e cioè che essere "esclusivisti" in senso teologico equivalga di necessità ad essere esclusivisti (quindi totalitari) in politica. In altre parole, se credi che Gesù sia l'unica via di salvezza, impedirai ai musulmani di avere gli stessi diritti dei cristiani e chiederai che lo Stato favorisca la tua religione. Per questo assunto tanto forte quanto sbagliato, i critici pensano che l'esclusivismo religioso debba essere cancellato e sostituito, semmai, da un pluralismo religioso secondo cui tutte le religioni, alla fine, si equivalgono o quasi. Solo i pluralisti religiosi sarebbero anche pluralisti politici, tolleranti e promotori di una società aperta. Secondo Volf, questa convinzione (tra l'altro sostenuta da J.J. Rousseau e da Karl Popper) è concettualmente sbagliata, almeno in ambito cristiano. Un intero capitolo è dedicato ad argomentarla (pp. 158-183).

Storicamente, è stato il battista Roger Williams (1603-1683) a sostenere la perfetta compatibilità tra una fervida fede evangelica e la piena libertà religiosa per tutti, con il ruolo dello Stato estraneo alle decisioni sulla veridicità delle affermazioni di fede e non esterno al compito di privilegiare una comunità di fede o l'altra. Per Williams, l'esclusivismo religioso richiedeva il pluralismo politico perché la fede cristiana stessa richiede che non sia la chiesa a imporla in modo coercitivo tramite lo Stato, ma che le coscienze siano lasciate libere e che lo Stato non intervenga in materia di fede.

Per Volf «la globalizzazione ha bisogno delle visioni del fiorire umano offerte dalle religioni del mondo» (p. 232). Sbagliano dunque gli oppositori della religione a pensare che per avere un mondo politicamente pluralista occorra estirpare l'esclusivismo religioso. La fede cristiana è intellettualmente attrezzata per alimentare l'ubbidienza agli insegnamenti biblici che sono esclusivisti (solo Cristo, sola fede) e la promozione della laicità dello Stato in un contesto di pluralismo istituzionale.

Non sarei del tutto convinto che lo stesso valga per le religioni non cristiane dove il rischio della confusione tra esclusivismo religioso e politico è alto. Talvolta, il discorso di Volf pecca di un certo "wishful thinking" che vorrebbe estendere a tutte le religioni quello che solo il cristianesimo evangelico ha (con difficoltà e molte resistenze) elaborato. In ogni caso, il libro è un contributo utile ad una discussione pubblica importante ed attuale. Anche alcuni evangelici che hanno le idee confuse sulla relazione tra una fede esclusiva e la promozione del pluralismo politico dovrebbero leggerlo per imparare a non accontentarsi di forme caricaturali della fede evangelica e per scoprire le ricchezze di una fede esclusiva da vivere in un modo diversificato.


L. De Chirico, in Studi di Teologia 67 (2022) 117-118

È il primo libro dell'autore tradotto in italiano. Ne ha scritti molti altri, ben noti e premiati dall'altra parte dell'oceano. Attualmente è docente di teologia alla Yale University Divinity School (New Haven, CT-USA). Si è formato a Zagabria (HR), poi a Pasadena (CA-USA) per dottorarsi a Tubinga (D) discepolo di Jürgen Moltmann. È membro della chiesa episcopale statunitense e di quella evangelica della Croazia. Noto per essere molto presente e attivo nei diversi dialoghi ecumenici («Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani»), interreligiosi («World Dialogue» C-1) e nel «Forum di Davos» («Global Agenda Council on Values»), tiene conferenze in Europa centro-orientale oltre che in Asia e in Nordamerica.

Il titolo traduce il termine «Flourishing» il cui significato determina quello stile di vita promosso e valorizzato dall'indirizzo psicologico sviluppato da Corey Keyes (flourishing sta per sanità mentale, l'opposto di languishing) e da Barbara Fredrickson (flourishing è l'esito della pratica di bontà, generatività, crescita e resilienza e altri affetti positivi). Per chi non è addentro alla cultura (weltangschauung)nordamericana il titolo italiano non aiuta. Lo si capisce alla fine quando a ritroso, rileggendo la traduzione del titolo diventa chiaro che «fiorire» (peraltro to fIourish) racchiude ben più del semplice sbocciare, è altro anche rispetto a un'apertura spirituale per significare, di più, l'affermarsi e il prosperare. È una predicazione della religione come esperienza necessaria per qualificare la globalizzazione arrestandone le derive peggiori. Senza religione, la (ogni) globalizzazione è destinata a impaludarsi e a originare neisingoli e nelle società languishing depressivo/deprimente o violenze antagoniste.

C'è tutta la corrente di pensiero della psicologia positiva nordamericana sulle cui coordinate l'autore aggancia una filosofia della religione radicata sulla migliore teologia della prosperità (mi riferisco non a quella predicata nei talk show o praticata da cristiani agiati, ma a quella espressa dai migliori teologi). In un mondo gIobalizzato malamente per riuscire a recuperarne al meglio gli aspetti positivi e riqualificarne il portato occorre innestare al suo interno tutta la forza positiva della visione «globale» congenita a tutte le religioni che incessantemente le spinge ad extra nel tentativo di promuovere in ogni uomo quel benessere che si fonda su una vita buona aperta se non proprio alla trascendenza almeno alla disponibilità a una vita spirituale ben fondata e praticata.

Religione e globalizzazione, cioè, insieme e se ben coniugate aprono a un futuro che sa rispondere a quel bisogno di pacificazione, cooperazione, salute e benessere oggi invocato. Il libro nasce dalle lezioni (e negli anni in alcuni suoi saggi e nelle molte conferenze) tenute dall’autore (e in parte anche da Tony Blair [cf. la sua «Tony Blair Faith Foundation»]) all'indomani della vicenda delle Torri Gemelle (2001) e della crisi economica devastante innescatasi nel 2008. La religione da allora apparve (e appare ancora) ai più come una delle principali cause della crisi edelle problematiche socio-culturali che affliggono il mondo. Ma non è così, ci spiega l'autore. Anzi. Il vasto materiale accumulato da Volf viene qui riparametrato sulle frequenze del rapporto fede e globalizzazione.

Cinque capitoli suddivisi in due parti. Nella prima tematizza le sfide che globalizzazione e religioni si pongono reciprocamente (pp.41-112), nella seconda discute e definisce le condizioni di possibilità di una necessaria, feconda cooperazione (pp. 115-220). Si parla di rispetto, di esclusivismo e pluralismo, di conflitto, violenza e riconciliazione. Questioni indubbiamente scottanti. Tutto il lavoro è incorniciato tra un'ampia e programmatica Introduzione (pp. 11-38), che va letta con attenzione, e un breve Epilogo (pp. 221-233) che raccoglie non solo il guadagno della riflessione, ma anche i suoi punti più deboli. Non è il caso qui di recensire i vari passaggi e discuterne le prospettive.

Va detto che non siamo davanti a un tentativo di strumentalizzazione della religione, o a un suo addomesticamento a servizio della globalizzazione. L’autore è teologo di vaglia, competente e autorevole. Metodo e contenuti sono di qualità. Il testo è sostenuto da ben 470 note totali e 32 pp. di utile Bibliografia (pp. 311-342). Pur essendo un testo di alta divulgazione, riesce per esempio a sintetizzare (cf. la Nota alle pp. 9-10) con chiarezza senza inutili pedanterie il rapporto tra fede, religione, spiritualità e il motivo dell'uso di «religione» al singolare pur intendendo in genere le «religioni» (l'autore si riferisce a buddhismo, induismo, confucianesimo, giudaismo, cristianesimo e islamismo). Manca purtroppo una nota altrettanto essenziale per definire l'uso di «globalizzazione». Probabilmente nel contesto culturale (brodo di coltura) di origine del libro non sembra necessario. Ma nella traduzione una chiarificazione in tal senso avrebbe giovato perché nel nostro contesto europeo non v' è chi non veda la sua equivocità non solo nell'uso comune del termine, ma anche nelle reiterate discussioni sul tema, che pare restare problematico nella sua complessità e transdisciplinarità.

Infine, un'osservazione circa la collocazione dell'apparato delle note al termine della trattazione (69 pp. totali). Il loro numero e la loro lunghezza probabilmente hanno fatto propendere per quella collocazione proprio per non appesantire la lettura; sono infatti pagine intense, convinte, appassionate a volte impegnative. Tuttavia, costringe il lettore ad andare «fisicamente» avanti e indietro nel testo molestandone il godimento.

La lettura del testo corrobora e stimola il lettore a riflettere in proprio. Non offre risposte definitive. La sua è una convinta proposta fatta da un punto di vista cristiano, che potrebbe diventare del tutto convincente solo entrando in dialogo con le proposte delle altre religioni qualora effettivamente anch'esse entrassero sinceramente in dialogo con la globalizzazione.

Nel frattempo per il lettore traduco in domanda una frase dell'autore posta all'inizio della sua riflessione (p. 30): che cosa dovrebbero fare «cristiani e non cristiani, in tutta la nostra diversità litigiosa, per vivere sotto lo stesso tetto globale comune»?


D. Passarin, in CredereOggi 246 (6/2021), 174-176

Vertiginoso, impegnativo, illuminante. Così vorrei definire in modo immediato e riassuntivo il testo di Miroslav Volf. Il teologo croato, docente presso la Yale University negli USA, vi ha condotto a sintesi le lezioni tenute in vari anni accademici, in parte insieme all'ex primo ministro britannicoTony Blair. Stupisce inoltre la quantità di esperti di varie discipline e religioni che sono confluiti a mo' di coro in questo libro. E stupisce anche che gli autori a noi più familiari in Europa non vi trovino se non rara menzione, tranne Moltmann, di cui l'A. è stato discepolo. Siamo dinanzi allo scenario teologico di un altro continente, di un altro paradigma culturale! Anche l'apparato critico di citazioni è straordinariamente ampio e di respiro molto laico, in sintonia con il tema trattato.

La tesi di fondo proposta da Volf è che la globalizzazione ha bisogno dell'apporto morale e ideale delle religioni e che le stesse possono fruire della globalizzazione quale contesto favorevole alla propria diffusione e alla realizzazione dei propri fini di umanizzazione e di riferimento dell'uomo al trascendente. Basandosi su dati di una decina di anni or sono, afferma una crescita numerica di fedeli per le religioni, sebbene a noi sembri che il Covid-19 stia infliggendo colpi non indifferenti alla pratica religiosa, almeno alle nostre latitudini.

Proprio in questo mondo segnato dall'ansia di poter condurre una vita che va bene o anche che ci fa stare bene (come decantata dalle sirene del mercato e della pubblicità), le religioni propongono invece una vita vissuta bene, che non disprezza le cose ordinarie, ma le finalizza a una mèta trascendente, stimolando altruismo e solidarietà.

Volf non cede tuttavia al romanticismo e riconosce che le religioni del mondo (e qui avrei preferito che la traduttrice impiegasse la più comune espressione "religioni mondiali", perché "del mondo" fa quasi pensare a religioni "mondane", ovvero secolarizzate o ripiegate sulle realtà terrene) hanno compiuto scempi terribili e vergognosi nell'evolversi della loro storia. Eppure ribadisce che la violenza non è nella loro natura, come poteva essere per le religioni locali, perché propongono una visione universale, che contempla la regola aurea e spinge alla solidarietà. Quello che le ha condizionate e rovinate nella prassi è stata la collusione con il potere politico, che ha sempre finito per servirsi delle stesse per i propri scopi mondani. Le religioni del mondo hanno visioni globali, pensano al bene dell'uomo e del pianeta, così minacciato dalla logica del mercato e del profitto individuale. Oggi infatti «la tentazione più grande [...] è credere e agire come se gli esseri umani vivessero di solo pane [...] della creazione, del miglioramento e della distribuzione dei beni terreni» (p. 33). In questo caso il pane non basta mai per tutti, anche se marcisce nelle case di alcuni, e avrà sempre un sapore amaro. «La produzione di beni 'non fa altro che riempire il vuoto che essa stessa ha creato' (Galbraith) mentre l'uomo sazia la propria ricerca solo inDio».

La 'presa salda’ sulla verità della vita buona rispetto alla vita che va bene, aiuta il mondo glohalizzato a superare il relativismo e il nichilismo atmosferico che stiamo tutti percependo, malato di triste individualismo e arido soprattutto di visioni di un futuro di fioritura. Da qui la tesi che l'esclusivismo religioso non porta necessariamente all'intolleranza. Le religioni da parte loro non devono solo tollerare credenti di altra fede o non credenti, bensì praticare un autentico rispetto per le persone e le loro opinioni.

Da qui nasce anche l'esigenza - tipica di religioni che sanno ammettere gli errori del passato, sia a livello istituzionale che di singoli - di predicare e praticare riconciliazione e perdono, per liberare il futuro dalla zavorra del passato. Le religioni del mondo dunque non disprezzano i beni mondani, ma li contemplano in una prospettiva più ampia di senso. Per i credenti – infatti – le cose di cui fruiamo sono anche "relazioni sociali" e hanno una dimensione sacramentale. Se il mondo (almeno nella visione cristiana) è dono amorevole di Dio, le cose sono anche la relazione di Dio con noi e come tali vanno viste e trattate.

Alla fine del suo lavoro Volf sintetizza così il proprio appello ai credenti e alle istituzioni religiose: «La globalizzazione ha bisogno delle visioni del fiorire umano offerte dalle religioni del mondo; la globalizzazione e le religioni, come le religioni fra di loro, non devono scontrarsi violentemente ma possiedono risorse interne per interagire in modo costruttivo e contribuire al miglioramento reciproco» (p. 232).

Al termine di questa recensione mi permetto di aggiungere anche qualche piccola nota critica al testo esaminato. Non condivido la tesi dell'A., secondo cui le visioni delle religioni universali (a partire dal buddhismo e poi ampliate dal cristianesimo) si sarebbero espanse per opera missionaria prima di altre idee economiche o politiche: «La globalizzazione fu una realtà dell'immaginazione religiosa, prima di divenire un progetto economico e politico» (p. 51). Queste in realtà avevano impostato progetti e stabilito reti di comunicazione fin dall'antichità.

L’appassionante testo di Volf aiuta comunque a conoscere un mondo teologico molto attento alle realtà sociali e storiche che stiamo vivendo e aiuta anche a comprendere in modo più ampio, attuale ed efficace l'appello di Geù: «non di solo pane vive l'uomo [...]» (Mt 4,4).


P. Renner, in Studia Patavina 2/2021, 350-352

La costituzione pastorale Gaudium et spes della Chiesa nel mondo contemporaneo del concilio Vaticano II afferma che il riconoscimento di Dio non si oppone in alcun modo alla dignità dell’uomo e della donna, dato che questa loro dignità proprio in Dio si fonda e si completa (n. 21). Nel mistero dell’umanizzazione di Dio in Gesù trova vera luce anche il mistero dell’essere umano (n. 22) e chiunque segue Cristo, Uomo perfetto, cresce in umanità (n. 41).

Fiorire. Il contributo della religione in un mondo globalizzato è un libro appena edito dalla Editrice Queriniana di Brescia che mi sembra un bel commento ai citati passi della Gaudium et spes. Ne è autore Miroslav Volf, teologo contemporaneo di origine croata poco conosciuto in Italia: della trentina di pubblicazioni al suo attivo, Fiorire è, ad oggi, l’unica tradotta in italiano.

Discepolo di Jürgen Moltmann (uno dei grandi teologi della seconda metà del XX secolo), docente di teologia sistematica all’Università di Yale (nel Connecticut, USA) dove dirige anche lo Yale Center for Faith and Culture, Miroslav Volf ha collaborato, in quanto rappresentante della Chiesa episcopaliana degli Stati Uniti e della Chiesa evangelicale croata, al dialogo ecumenico internazionale e, in particolare, con il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.

Obiettivo del saggio

Come lascia intendere il sottotitolo – Il contributo della religione in un mondo globalizzato –, Miroslav Volf dà per scontato che quelle che sono state definite, forse in modo non del tutto adeguato, le «religioni del mondo» o «religioni secondarie» – come il giudaismo, il cristianesimo, l’islam, il buddismo e l’induismo – fanno oggi parte della globalizzazione e che la globalizzazione fa parte delle dinamiche delle religioni.

Obiettivo del saggio – dedicato alla moglie Jessica Dwelle (p. 240) – è quello di far luce sul modo in cui le religioni del mondo e la globalizzazione hanno interagito nel corso dei secoli e nel suggerire quale dovrebbe essere il loro rapporto in futuro (p. 12). Lungi, infatti, dall’essere una «sciagura per l’umanità» (p. 7) o «una malattia bisognosa di cura» (p. 36), le religioni sono portatrici di visioni che possono far fiorire l’umano e interagire in modo costruttivo con la globalizzazione. Il centro nevralgico di una religione, infatti, «può essere costituito dai cuori degli individui, ma la sua sfera d’influenza è il mondo intero» (p. 80).

Espressa in termini cristiani ed evangelici, l’idea fondamentale che il libro vuole trasmettere è racchiusa nelle parole che Gesù, indebolito dopo quaranta giorni di digiuno nel deserto, utilizzò per difendersi dal Tentatore: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).

Quando – come pretende di fare oggi la globalizzazione – si vuol vivere di solo pane, non c’è mai pane a sufficienza per tutti. Non ce n’è a sufficienza neanche quando se ne produce così tanto da doverne buttare una parte. Quando si vive di solo pane, c’è sempre qualcuno che soffre la fame. «Quando si vive di solo pane, ogni morso che gli diamo lascia un retrogusto amaro e, più mangiamo, più il gusto si inasprisce». Insomma, «vivendo di realtà terrene, e solo per esse, rimaniamo inquieti e tale inquietudine contribuisce a sua volta alla competitività, all’ingiustizia sociale e alla distruzione dell’ambiente, oltre a costituire un ostacolo fondamentale alle pratiche personali e agli assetti sociali più giusti, generosi e amorevoli» (pp. 33-34).

Dunque, non una monografia accademica quella del docente di teologia sistematica Miroslav Volf, ma un saggio programmatico che chiama in causa economia, politica, abitudini culturali ed etica sociale. Non a caso il relativo contenuto è nato nel contesto di un corso sul tema “Fede e globalizzazione” tenuto tra il 2008 e il 2010 alla Yale University con l’ex primo ministro inglese Tony Blair, a seguito della tragedia consumatasi l’11 settembre 2001 a New York e dal World Economic Forum che, nel 2008 a Dubai, stabilì il percorso da avviare per far fronte a quella che è stata definita come «la peggiore crisi finanziaria nella storia globale, inclusa la grande depressione» (p. 222).

Fiorire in umanità

Fiorire è un verbo che non solo dà il titolo al libro, ma torna spesso nelle sue oltre 300 pagine (comprensive delle 68 con le 470 note). L’autore ne spiega il significato in varie occasioni.

“Fiorire in umanità” significa vivere bene la vita in modo che la vita vada bene e che, nella vita, si stia bene.

Tre, pertanto, le componenti di una vita fiorita, cioè di una vita buona che vale la pena di essere vissuta: vita che è vissuta bene (nell’insegnamento di Gesù, amare Dio e il prossimo), vita che va bene (nella prassi di Gesù, guarire i malati e dare da mangiare agli affamati), vita che fa star bene (nell’accogliere il messaggio di Gesù, la gioia). Fiorire significa, in sostanza, raggiungere la nostra pienezza umana e personale (p. 5).

Le testimonianze e gli esempi di vita buona «sono il dono più importante che le religioni possono offrire al mondo» (p. 92). La nozione di vita umana fiorente, infatti, è condivisa da tutte le religioni del mondo. Per esse, fiorire in umanità significa soddisfare i desideri naturali e primari di salute, prosperità, fertilità e longevità in un orizzonte di trascendenza che plasma il nostro modo di rapportarci con il mondo e con noi stessi (p. 24).

I beni materiali, pur necessari e piacevoli, determinano un autentico fiorire umano quando sono collocati in un contesto spirituale più ampio di apertura dello spirito umano all’amore verso Dio e verso il prossimo vicino e lontano (è il caso delle religioni abramitiche) o alla compassione verso tutti gli esseri viventi (è il caso del buddismo).

Così inteso, il fiorire permette agli uomini e alle donne di trovare la felicità, di tenere a freno l’avidità e il consumismo, di rallentare il degrado ambientale, di rafforzare la solidarietà globale, di eliminare le cause dei conflitti sociali, di operare fattivamente per un mondo più giusto e più rispettoso della dignità di ogni essere umano (p. 194).

Struttura del saggio

Una brevissima prefazione (pp. 5-8) esplicita il senso del verbo fiorire applicato alla vita umana. Segue una “nota dell’autore”, dove si spiega perché, tra il termine fede e il termine religione, si è preferito utilizzare, nel sottotitolo del libro, quest’ultimo.

Una corposa introduzione (pp. 11-38) anticipa a grandi linee il percorso che Volf, come teologo cristiano che ama dialogare con le altre religioni, intende proporre e che è efficacemente espresso in questa sintesi: «Ritengo che la relazione di Dio con gli umani, così come la relazione degli esseri umani con Dio, sia la condizione che rende possibile la vita umana e il fiorire umano in tutte le loro dimensioni. Credo che la fede e la politica siano due sistemi culturali distinti, ma che una fede autentica sia sempre impegnata, all’opera per alleviare le sofferenze personali, nonché per lottare contro l’ingiustizia sociale, la violenza politica e il degrado ambientale» (p. 20).

I cinque capitoli sono distribuiti in due parti (pp. 41-220).

Nella parte prima vengono focalizzati i rapporti che intercorrono tra globalizzazione e religioni del mondo, mentre, nella parte seconda, l’autore si sofferma sui passi da compiere perché giudaismo, cristianesimo, islam, buddismo e induismo siano effettivamente capaci di contribuire a far sì che la globalizzazione non ci derubi della nostra umanità e perché tutti noi, cristiani e non cristiani, possiamo vivere sotto lo stesso tetto globale comune nonostante «la nostra diversità litigiosa» (p. 30) e i nostri aspri contrasti (p.184).

Nel sintetico epilogo (pp. 221-233) sono indicate le due forme di nichilismo che stanno ossessionando il mondo e che vanno stanate e contrastate: il nichilismo passivo delle grandi religioni quando, nella versione fondamentalista, provocano distruzione e morte, e il nichilismo attivo degli spiriti liberi che negano l’esistenza di valori inscritti nel tessuto della realtà e che, avendo cancellato l’orizzonte della trascendenza, si ritrovano «gravati dal fardello schiacciante di un’esistenza intollerabilmente leggera» (p. 226), «ingabbiata» e «vuota» (p. 98).

Globalizzazione da governare e plasmare, non da demonizzare o sacralizzare

Nella prima parte del libro (capitoli 1 e 2) Volf invita a non demonizzare e a non sacralizzare la forma attuale di globalizzazione. Essa va piuttosto governata in base alla sua capacità o meno di contribuire, con l’apporto delle religioni del mondo, al fiorire umano autentico in relazione alle singole individualità, ai rapporti sociali e al bene comune.

Contrariamente a quanto ritenuto dai fautori della secolarizzazione, la globalizzazione non ha fatto sparire le religioni. Sotto le sue condizioni, anzi, «le religioni sperimentano una rinascita nelle loro dimensioni private e pubbliche» (p. 64). Esse, nel bene e nel male, sono vive e vegete (p. 74).

Non potrebbe – secondo Volf – essere diversamente, dal momento che l’essere umano, nella sua intima struttura e ancor prima che la volontà entri in gioco, è intimamente orientato verso Dio (p. 25) e «il riferimento alla trascendenza non è un’aggiunta all’umanità: piuttosto, definisce gli esseri umani» (p. 98).

Della globalizzazione miliardi di individui non solo non hanno beneficiato, ma a causa sua hanno sofferto: la religione offre loro motivi di resilienza per non rassegnarsi allo status quo. Il rapido ritmo di cambiamento tipico della globalizzazione spinge molte persone a condurre una vita disordinata e vorticosa: la religione offre loro motivi di orientamento e di stabilità. Alcune persone sono sopraffatte dalle possibilità e dalle seduzioni del consumismo e dello svago alimentate dalla globalizzazione: la religione dirige e disciplina i loro desideri in modo che possano prendersi cura di sé stessi e degli altri. Molti sono vittime di ingiustizie madornali provocate dalla globalizzazione guidata dalla logica del libero mercato: la religione offre loro motivi per lottare contro l’ingiustizia e assicura loro che non sarà questa ad avere l’ultima parola. Alcuni sperimentano l’erosione delle culture locali ad opera della globalizzazione: la religione, rispettosa di ogni cultura, fornisce loro un senso di identità comunitaria (p. 100).

Le religioni devono reciprocamente rispettarsi

Nella seconda parte (capitoli da 3 a 5) Volf esplora come le religioni del mondo, pur essendo state nel corso della storia – e pur essendolo ancora oggi in alcuni contesti – agenti di divisione e di conflitto, possiedono risorse interne per vivere in pace le une con le altre e con persone non religiose, pur sostenendo vigorosamente la propria visione del fiorire umano.

Per foggiare la globalizzazione in vista del bene comune globale, le religioni in particolare devono imparare a propugnare visioni universalistiche, senza fomentare la violenza, evitando altresì – come succede ad esempio per alcune forme moderne di buddismo e di cristianesimo – di abbracciare «un facile relativismo» che privilegia forme di «spiritualità risananti ed energizzanti anziché espressioni concrete della vita buona» (p. 119).

Soffermandosi sul rapporto tra esclusivismo religioso e pluralismo politico a partire dal cristianesimo, Volf giunge ad affermare – pur consapevole dell’esistenza di opinioni diverse in materia – che anche una fede religiosa caratterizzata da convinzioni solide e meditate («esclusivismo religioso») è conciliabile e compatibile con il pluralismo culturale e politico. Una simile fede, infatti, è in grado di ispirare e di alimentare un cambiamento culturale e politico che non si limiti solo ad operare fattivamente per far fiorire la vita buona e per coltivare un senso di solidarietà globale, ma che sia in grado di operare per la riconciliazione, la convivenza pacifica, il perdono, la messa al bando di ogni forma di violenza (p. 183). È di una simile fede che ha bisogno anche il mondo globalizzato per correggere le sue storture.

Conclusione: un testo in sintonia con Fratelli tutti

L’originale in lingua inglese di Fiorire risale al 2014. Se fosse stato scritto oggi, probabilmente Miroslav Volf avrebbe richiamato il contenuto dell’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco, sottoscrivendo in toto, ad esempio, il paragrafo n. 174 che mi sembra decisamente in sintonia con il suo pensiero: «A partire dalla nostra esperienza di fede e dalla sapienza che si è andata accumulando nel corso dei secoli, imparando anche da molte nostre debolezze e cadute, come credenti delle diverse religioni sappiamo che rendere presente Dio è un bene per le nostre società. Cercare Dio con cuore sincero, purché non lo offuschiamo con i nostri interessi ideologici o strumentali, ci aiuta a riconoscerci compagni di strada, veramente fratelli. Crediamo che quando, in nome di un’ideologia, si vuole estromettere Dio dalla società, si finisce per adorare degli idoli, e ben presto l’uomo smarrisce sé stesso, la sua dignità è calpestata, i suoi diritti violati. Voi sapete bene a quali brutalità può condurre la privazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa, e come da tale ferita si generi una umanità radicalmente impoverita, perché priva di speranza e di riferimenti ideali».


A. Lebra, in SettimanaNews.it 4 gennaio 2021

Come pensare le religioni oggi che molti le considerano forme arretrate di sapere, per non dire contrarie alla civiltà? Come spiegare il fatto che nell’età della globalizzazione religioni universali come il cristianesimo, il buddhismo, l’islamismo, anziché appassire, mostrano una grande vitalità? L’a. non dà una risposta ma delinea una fenomenologia dei problemi, mettendo in discussione molti luoghi comuni. I desideri infiniti, che il mercato globalizzato dei consumi promette di soddisfare, producono nella vita ordinaria frustrazione e paura. Le religioni invece, aspirando alla trascendenza e relativizzando l’immanente, prospettano e promuovono il «fiorire della buona vita»: le religioni – sembra suggerire il vol. – non solo rendono gli individui più resilienti, ma soprattutto possono farci il dono della riconciliazione.
G. Azzano, in Il Regno Attualità 22/2020

«Fiorire, come la vita vissuta bene, la vita che va bene, la vita che sta bene. Uso il termine in modo intercambiabile con “la vita buona” e “la vita che vale la pena vivere”. La vita buona non consiste solo nell’avere successo nell’una o nell’altra impresa che intraprendiamo, piccola o grande che sia, ma nel vivere raggiungendo la nostra pienezza umana e personale, questo, in una parola, è fiorire».

Ed è pure il titolo di un saggio di Miroslav Volf, teologo cattolico di origine croata che, dopo essere stato discepolo di Jürgen Moltmann, si è trasferito negli Usa, dove insegna all’Università di Yale. L’autore è convinto che per giungere alla vita buona sia indispensabile il ruolo delle religioni, che sole possono dare un’anima al processo di globalizzazione, come scrive anche papa Francesco nell’ultima enciclica, quando parla della «musica del Vangelo» che è in grado di spingere i cristiani verso la fraternità con tutti.

Ma il mondo sembra andare verso un’altra direzione. Non solo per la pandemia che ha colpito l’umanità, ma per una serie di fattori vari (la violenza crescente, le disuguaglianze nella distribuzione delle ricchezze, i mutamenti del clima) la nostra esistenza sembra precipitare verso «una valle oscura» e «una terra tenebrosa», per ripetere le parole dei salmisti e dei profeti. Certo, non viviamo nei tempi più bui della storia, l’umanità in molti sensi è progredita, ad esempio nella coscienza dei diritti umani e nella loro applicazione, nel rispetto delle vittime della storia, nelle condizioni di vita, ma ciò non significa che il rischio di una catastrofe non possa incombere. Non solo per il coronavirus, da tempo il cinema ad esempio è dominato da film con scenari apocalittici e distopici, come il film Melancholia di Lars von Trier, che termina con due sorelle e un bambino che cercano di ripararsi in una casupola di legno (un tempio improvvisato?), mentre si fa sempre più vicina la luce di un asteroide che annienterà il mondo. Come interpretare la fine incombente? Siamo forse di fronte all’immagine di un salto nella luce della fede, oppure nel precipitare dell’umanità nella desolazione del nulla? Per non parlare di altre pellicole come L’esercito delle dodici scimmie di Terry Gilliam, in cui la popolazione decimata da un virus è costretta a vivere nel sottosuolo, o il più recente Contagion di Steven Soderbergh che ha anticipato di qualche anno il Covid.

Il processo di globalizzazione ha così un volto ambivalente: mentre contribuisce alla prosperità di milioni di persone, che possono – in alcune zone del globo per la prima volta nella storia – beneficiare dei frutti della crescita economica e dello sviluppo tecnologico, contemporaneamente si porta dietro disuguaglianze enormi, con milioni di persone che continuano a essere disprezzate e a non godere dei beni preziosi della terra. Ambivalenza che vale anche per le religioni, che mostrano un volto di pace, ma anche un fondamentalismo che può sfociare nel terrorismo. Volf fra l’altro è nato in un Paese «che si è dissolto alla fine della storia», toccato per molti anni, dopo il dissolvimento della Jugoslavia in seguito al crollo del comunismo, da guerre dovute a nazionalismi d’impronta religiosa. Ma dopo aver chiarito l’ambiguità sottesa sia al mondo della globalizzazione sia a quello delle religioni, l’autore vuole dimostrare che la globalizzazione ha bisogno delle religioni per essere liberata dalle sue ombre, dall’enfasi riposta solo sullo sviluppo materiale che rischia di soffocare la compassione: «La globalizzazione – scrive – deve essere addomesticata, cosicché abbia meno probabilità di derubarci della nostra umanità». E poi precisa: «La globalizzazione riguarda principalmente (non in modo esclusivo) il “pane”, un tipo particolare di valorizzazione della vita ordinaria. Essa avanza come se la Parola non fosse la fonte di una vita abbondante e tiene i nostri occhi fissi sulla moltiplicazione del pane».

Per poi arrivare ad alcune conclusioni che vale la pena riassumere: le religioni esprimono una visione del fiorire che non può prescindere dall’ancoramento alla trascendenza, per cui non possono concepirsi né essere concepite come meri lubrificanti per gli ingranaggi della globalizzazione; quest’ultima sarà in grado di migliorare davvero le condizioni di vita dell’umanità solo se le «visioni del fiorire umano e alcuni framework morali» la modellano; anche se riguarda soprattutto «il pane e la sua moltiplicazione», la globalizzazione non dev’essere una forza che, trainata dal mercato, compromette la possibilità di una vita spirituale; infine, la globalizzazione può aiutare le religioni a liberarsi da visioni di tipo nazionalistico per riscoprire l’universalità e la fraternità.

Davvero le religioni possono plasmare la globalizzazione per il bene dell’umanità combattendone i soprusi che si trascinano dietro i più vulnerabili e gli ultimi. In questa direzione, per Volf è possibile immaginare una sorta di tavolo comune, delineare alcuni punti che, senza mirare alla creazione di un’unica religione mondiale, costituiscano un minimo comun denominatore. Essi sono: una descrizione della realtà basata su due mondi, quello terreno e quello trascendente; la concezione dell’essere umano come persona unica e irripetibile; la pretesa di esprimere una Weltanschauung universale, che va oltre le culture e le religioni locali; la capacità di trascendere i confini politici ed etnici e perciò di incarnarsi in ogni cultura; il darsi come obiettivo il bene dell’uomo su questa terra, ma guardando all’aldilà; la capacità perciò di trasformare le realtà terrene, sapendo al contempo dare spazio all’ascetismo e al profetismo, pena la perdita della propria identità.

Riferendosi soprattutto agli studi di Charles Taylor e Ian Assmann, Volf delinea queste caratteristiche di base che non intendono designare l’essenza delle religioni, ma costituiscono a suo modo di vedere affinità strutturali condivise. Nella consapevolezza che con la globalizzazione le religioni non stanno affatto scomparendo, nonostante quanto predetto dai teorici della secolarizzazione, un discorso che riguarda tutte le grandi religioni qui esaminate: il cristianesimo, l’ebraismo, l’islam, il buddhismo, l’induismo, il confucianesimo.

Ma perché le religioni possano dare un’anima alla globalizzazione devono – come suggerisce l’enciclica Fratelli tutti – superare l’impulso alla concorrenzialità reciproca e alla violenza che ancora contengono, nonché rinunciare a divenire «marcatori di identità etniche o nazionali». Nella prospettiva delle religioni mondiali, la vera sfida non è quella di acquisire un vantaggio competitivo sulla scienza e sulla tecnologia né di conservare la stessa quota di mercato, e nemmeno quella di saper fornire beni terreni – come la salute, la longevità e il benessere economico – più di quanto sappia fare la globalizzazione, ma è la capacità di collegare le persone con l’ambito trascendente, di condurre esistenze degne di esseri umani, modulate non solo in base al proprio appagamento ma alla solidarietà. Solo così potranno fiorire e far fiorire, essere una benedizione per l’uomo e per il mondo.


R. Righetto, in Avvenire 20 novembre 2020

«La mia tesi è semplice. La Scrittura dice: "Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio". La tentazione più grande di tutte non è servire falsi dèi. È credere e agire come se gli esseri umani vivessero di solo pane».

Teologo croato, Miroslav Volf scrive un saggio che fa del "fiorire", inteso come vita che si realizza in pienezza, il suo fulcro. La sua analisi ripercorre le modalità in cui le fedi e la globalizzazione hanno interagito, per una relazione adeguata fra le une e l’altra.


In Jesus 11/2020, 94