La costituzione pastorale Gaudium et spes della Chiesa nel mondo contemporaneo del concilio Vaticano II afferma che il riconoscimento di Dio non si oppone in alcun modo alla dignità dell’uomo e della donna, dato che questa loro dignità proprio in Dio si fonda e si completa (n. 21). Nel mistero dell’umanizzazione di Dio in Gesù trova vera luce anche il mistero dell’essere umano (n. 22) e chiunque segue Cristo, Uomo perfetto, cresce in umanità (n. 41).
Fiorire. Il contributo della religione in un mondo globalizzato è un libro appena edito dalla Editrice Queriniana di Brescia che mi sembra un bel commento ai citati passi della Gaudium et spes. Ne è autore Miroslav Volf, teologo contemporaneo di origine croata poco conosciuto in Italia: della trentina di pubblicazioni al suo attivo, Fiorire è, ad oggi, l’unica tradotta in italiano.
Discepolo di Jürgen Moltmann (uno dei grandi teologi della seconda metà del XX secolo), docente di teologia sistematica all’Università di Yale (nel Connecticut, USA) dove dirige anche lo Yale Center for Faith and Culture, Miroslav Volf ha collaborato, in quanto rappresentante della Chiesa episcopaliana degli Stati Uniti e della Chiesa evangelicale croata, al dialogo ecumenico internazionale e, in particolare, con il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.
Obiettivo del saggio
Come lascia intendere il sottotitolo – Il contributo della religione in un mondo globalizzato –, Miroslav Volf dà per scontato che quelle che sono state definite, forse in modo non del tutto adeguato, le «religioni del mondo» o «religioni secondarie» – come il giudaismo, il cristianesimo, l’islam, il buddismo e l’induismo – fanno oggi parte della globalizzazione e che la globalizzazione fa parte delle dinamiche delle religioni.
Obiettivo del saggio – dedicato alla moglie Jessica Dwelle (p. 240) – è quello di far luce sul modo in cui le religioni del mondo e la globalizzazione hanno interagito nel corso dei secoli e nel suggerire quale dovrebbe essere il loro rapporto in futuro (p. 12). Lungi, infatti, dall’essere una «sciagura per l’umanità» (p. 7) o «una malattia bisognosa di cura» (p. 36), le religioni sono portatrici di visioni che possono far fiorire l’umano e interagire in modo costruttivo con la globalizzazione. Il centro nevralgico di una religione, infatti, «può essere costituito dai cuori degli individui, ma la sua sfera d’influenza è il mondo intero» (p. 80).
Espressa in termini cristiani ed evangelici, l’idea fondamentale che il libro vuole trasmettere è racchiusa nelle parole che Gesù, indebolito dopo quaranta giorni di digiuno nel deserto, utilizzò per difendersi dal Tentatore: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).
Quando – come pretende di fare oggi la globalizzazione – si vuol vivere di solo pane, non c’è mai pane a sufficienza per tutti. Non ce n’è a sufficienza neanche quando se ne produce così tanto da doverne buttare una parte. Quando si vive di solo pane, c’è sempre qualcuno che soffre la fame. «Quando si vive di solo pane, ogni morso che gli diamo lascia un retrogusto amaro e, più mangiamo, più il gusto si inasprisce». Insomma, «vivendo di realtà terrene, e solo per esse, rimaniamo inquieti e tale inquietudine contribuisce a sua volta alla competitività, all’ingiustizia sociale e alla distruzione dell’ambiente, oltre a costituire un ostacolo fondamentale alle pratiche personali e agli assetti sociali più giusti, generosi e amorevoli» (pp. 33-34).
Dunque, non una monografia accademica quella del docente di teologia sistematica Miroslav Volf, ma un saggio programmatico che chiama in causa economia, politica, abitudini culturali ed etica sociale. Non a caso il relativo contenuto è nato nel contesto di un corso sul tema “Fede e globalizzazione” tenuto tra il 2008 e il 2010 alla Yale University con l’ex primo ministro inglese Tony Blair, a seguito della tragedia consumatasi l’11 settembre 2001 a New York e dal World Economic Forum che, nel 2008 a Dubai, stabilì il percorso da avviare per far fronte a quella che è stata definita come «la peggiore crisi finanziaria nella storia globale, inclusa la grande depressione» (p. 222).
Fiorire in umanità
Fiorire è un verbo che non solo dà il titolo al libro, ma torna spesso nelle sue oltre 300 pagine (comprensive delle 68 con le 470 note). L’autore ne spiega il significato in varie occasioni.
“Fiorire in umanità” significa vivere bene la vita in modo che la vita vada bene e che, nella vita, si stia bene.
Tre, pertanto, le componenti di una vita fiorita, cioè di una vita buona che vale la pena di essere vissuta: vita che è vissuta bene (nell’insegnamento di Gesù, amare Dio e il prossimo), vita che va bene (nella prassi di Gesù, guarire i malati e dare da mangiare agli affamati), vita che fa star bene (nell’accogliere il messaggio di Gesù, la gioia). Fiorire significa, in sostanza, raggiungere la nostra pienezza umana e personale (p. 5).
Le testimonianze e gli esempi di vita buona «sono il dono più importante che le religioni possono offrire al mondo» (p. 92). La nozione di vita umana fiorente, infatti, è condivisa da tutte le religioni del mondo. Per esse, fiorire in umanità significa soddisfare i desideri naturali e primari di salute, prosperità, fertilità e longevità in un orizzonte di trascendenza che plasma il nostro modo di rapportarci con il mondo e con noi stessi (p. 24).
I beni materiali, pur necessari e piacevoli, determinano un autentico fiorire umano quando sono collocati in un contesto spirituale più ampio di apertura dello spirito umano all’amore verso Dio e verso il prossimo vicino e lontano (è il caso delle religioni abramitiche) o alla compassione verso tutti gli esseri viventi (è il caso del buddismo).
Così inteso, il fiorire permette agli uomini e alle donne di trovare la felicità, di tenere a freno l’avidità e il consumismo, di rallentare il degrado ambientale, di rafforzare la solidarietà globale, di eliminare le cause dei conflitti sociali, di operare fattivamente per un mondo più giusto e più rispettoso della dignità di ogni essere umano (p. 194).
Struttura del saggio
Una brevissima prefazione (pp. 5-8) esplicita il senso del verbo fiorire applicato alla vita umana. Segue una “nota dell’autore”, dove si spiega perché, tra il termine fede e il termine religione, si è preferito utilizzare, nel sottotitolo del libro, quest’ultimo.
Una corposa introduzione (pp. 11-38) anticipa a grandi linee il percorso che Volf, come teologo cristiano che ama dialogare con le altre religioni, intende proporre e che è efficacemente espresso in questa sintesi: «Ritengo che la relazione di Dio con gli umani, così come la relazione degli esseri umani con Dio, sia la condizione che rende possibile la vita umana e il fiorire umano in tutte le loro dimensioni. Credo che la fede e la politica siano due sistemi culturali distinti, ma che una fede autentica sia sempre impegnata, all’opera per alleviare le sofferenze personali, nonché per lottare contro l’ingiustizia sociale, la violenza politica e il degrado ambientale» (p. 20).
I cinque capitoli sono distribuiti in due parti (pp. 41-220).
Nella parte prima vengono focalizzati i rapporti che intercorrono tra globalizzazione e religioni del mondo, mentre, nella parte seconda, l’autore si sofferma sui passi da compiere perché giudaismo, cristianesimo, islam, buddismo e induismo siano effettivamente capaci di contribuire a far sì che la globalizzazione non ci derubi della nostra umanità e perché tutti noi, cristiani e non cristiani, possiamo vivere sotto lo stesso tetto globale comune nonostante «la nostra diversità litigiosa» (p. 30) e i nostri aspri contrasti (p.184).
Nel sintetico epilogo (pp. 221-233) sono indicate le due forme di nichilismo che stanno ossessionando il mondo e che vanno stanate e contrastate: il nichilismo passivo delle grandi religioni quando, nella versione fondamentalista, provocano distruzione e morte, e il nichilismo attivo degli spiriti liberi che negano l’esistenza di valori inscritti nel tessuto della realtà e che, avendo cancellato l’orizzonte della trascendenza, si ritrovano «gravati dal fardello schiacciante di un’esistenza intollerabilmente leggera» (p. 226), «ingabbiata» e «vuota» (p. 98).
Globalizzazione da governare e plasmare, non da demonizzare o sacralizzare
Nella prima parte del libro (capitoli 1 e 2) Volf invita a non demonizzare e a non sacralizzare la forma attuale di globalizzazione. Essa va piuttosto governata in base alla sua capacità o meno di contribuire, con l’apporto delle religioni del mondo, al fiorire umano autentico in relazione alle singole individualità, ai rapporti sociali e al bene comune.
Contrariamente a quanto ritenuto dai fautori della secolarizzazione, la globalizzazione non ha fatto sparire le religioni. Sotto le sue condizioni, anzi, «le religioni sperimentano una rinascita nelle loro dimensioni private e pubbliche» (p. 64). Esse, nel bene e nel male, sono vive e vegete (p. 74).
Non potrebbe – secondo Volf – essere diversamente, dal momento che l’essere umano, nella sua intima struttura e ancor prima che la volontà entri in gioco, è intimamente orientato verso Dio (p. 25) e «il riferimento alla trascendenza non è un’aggiunta all’umanità: piuttosto, definisce gli esseri umani» (p. 98).
Della globalizzazione miliardi di individui non solo non hanno beneficiato, ma a causa sua hanno sofferto: la religione offre loro motivi di resilienza per non rassegnarsi allo status quo. Il rapido ritmo di cambiamento tipico della globalizzazione spinge molte persone a condurre una vita disordinata e vorticosa: la religione offre loro motivi di orientamento e di stabilità. Alcune persone sono sopraffatte dalle possibilità e dalle seduzioni del consumismo e dello svago alimentate dalla globalizzazione: la religione dirige e disciplina i loro desideri in modo che possano prendersi cura di sé stessi e degli altri. Molti sono vittime di ingiustizie madornali provocate dalla globalizzazione guidata dalla logica del libero mercato: la religione offre loro motivi per lottare contro l’ingiustizia e assicura loro che non sarà questa ad avere l’ultima parola. Alcuni sperimentano l’erosione delle culture locali ad opera della globalizzazione: la religione, rispettosa di ogni cultura, fornisce loro un senso di identità comunitaria (p. 100).
Le religioni devono reciprocamente rispettarsi
Nella seconda parte (capitoli da 3 a 5) Volf esplora come le religioni del mondo, pur essendo state nel corso della storia – e pur essendolo ancora oggi in alcuni contesti – agenti di divisione e di conflitto, possiedono risorse interne per vivere in pace le une con le altre e con persone non religiose, pur sostenendo vigorosamente la propria visione del fiorire umano.
Per foggiare la globalizzazione in vista del bene comune globale, le religioni in particolare devono imparare a propugnare visioni universalistiche, senza fomentare la violenza, evitando altresì – come succede ad esempio per alcune forme moderne di buddismo e di cristianesimo – di abbracciare «un facile relativismo» che privilegia forme di «spiritualità risananti ed energizzanti anziché espressioni concrete della vita buona» (p. 119).
Soffermandosi sul rapporto tra esclusivismo religioso e pluralismo politico a partire dal cristianesimo, Volf giunge ad affermare – pur consapevole dell’esistenza di opinioni diverse in materia – che anche una fede religiosa caratterizzata da convinzioni solide e meditate («esclusivismo religioso») è conciliabile e compatibile con il pluralismo culturale e politico. Una simile fede, infatti, è in grado di ispirare e di alimentare un cambiamento culturale e politico che non si limiti solo ad operare fattivamente per far fiorire la vita buona e per coltivare un senso di solidarietà globale, ma che sia in grado di operare per la riconciliazione, la convivenza pacifica, il perdono, la messa al bando di ogni forma di violenza (p. 183). È di una simile fede che ha bisogno anche il mondo globalizzato per correggere le sue storture.
Conclusione: un testo in sintonia con Fratelli tutti
L’originale in lingua inglese di Fiorire risale al 2014. Se fosse stato scritto oggi, probabilmente Miroslav Volf avrebbe richiamato il contenuto dell’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco, sottoscrivendo in toto, ad esempio, il paragrafo n. 174 che mi sembra decisamente in sintonia con il suo pensiero: «A partire dalla nostra esperienza di fede e dalla sapienza che si è andata accumulando nel corso dei secoli, imparando anche da molte nostre debolezze e cadute, come credenti delle diverse religioni sappiamo che rendere presente Dio è un bene per le nostre società. Cercare Dio con cuore sincero, purché non lo offuschiamo con i nostri interessi ideologici o strumentali, ci aiuta a riconoscerci compagni di strada, veramente fratelli. Crediamo che quando, in nome di un’ideologia, si vuole estromettere Dio dalla società, si finisce per adorare degli idoli, e ben presto l’uomo smarrisce sé stesso, la sua dignità è calpestata, i suoi diritti violati. Voi sapete bene a quali brutalità può condurre la privazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa, e come da tale ferita si generi una umanità radicalmente impoverita, perché priva di speranza e di riferimenti ideali».
A. Lebra, in
SettimanaNews.it 4 gennaio 2021