Uomini e donne, donne e uomini. Senza gerarchie di fronte al Padre, una sola fede, un solo Battesimo. Uguali nella prospettiva della dignità umana nel cuore del mistero di Dio, figlie e figli dello stesso Padre. Questo secondo la teologia dell’uguaglianza battesimale in una prospettiva cristologica ed escatologica.
Nella realtà, invece, le cose come sappiamo, sono andate diversamente. Soprattutto nella Chiesa. Agli uomini tutto il potere, alle donne solo posizioni subordinate. Un regalo – si fa per dire – della differenza sessuale, quella meraviglia che secondo l’antropologia cristiana nasconde la verità della creazione stessa ma che nei fatti si è tradotta in un fattore di discriminazione se non, come provano ancora le tante violenze di genere che segnano la vita sociale e familiare, in un fattore di pesante svantaggio.
Ma questo, nella Chiesa in uscita che vuole eliminare tutti i “posti di dogana” e che è chiamata a fare chiarezza nei rapporti e nelle relazioni prima di tutto al suo interno, può ancora essere tollerato? Non è arrivato il momento di “liberare le donne” dalla condizione di serie B in cui spesso sono state relegate, anche con la giustificazione implicita ma potente della diversità dei carismi e dei ruoli?
Sono le domande a cui risponde don Luca Castiglioni, docente di teologia fondamentale presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale a Milano, autore di un saggio complesso e originale che già nel titolo Figlie e figli di Dio. Uguaglianza battesimale e differenza sessuale (vedi box in questa pagina), rileva tutto il suo contenuto dirompente. Nell’ampio testo, oltre 600 pagine, il teologo affronta tra tanti altri temi, anche la questione gender, a cui ha accennato anche il Papa venerdì in Ungheria. Importante, spiega, per approfondire oggi il problema del maschile e del femminile. E, in ogni caso, uno scoglio che non si può aggirare se si vuole comprendere davvero la difficoltà delle relazioni tra donne e uomini nella Chiesa, nella famiglia, nella società.
Perché in un dibattito sulla parità di genere in ambito ecclesiale è importante affrontare la “questione gender”?
Prima ancora è importante intendersi sul senso di questa espressione, largamente impiegata ma piuttosto fumosa. Occorre distinguere fra l’accezione decostruttiva e neutralizzante dell’“ideologia gender” – che svincola l’identità sessuale dal valore e dal messaggio dei corpi maschile e femminile – e la prospettiva che impiega il genere/gender quale strumento di analisi e di interpretazione sociologica e filosofica.
Mentre la prima accezione è inaccettabile – come appena ribadito dal Papa in Ungheria – nella seconda la categoria euristica di gender aiuta a evidenziare il modo in cui la cultura incide sulla costruzione dell’identità sessuale e delle relazioni sessuate, superando così il determinismo biologico. È in tal senso che il gender assume opportuno valore critico, stigmatizzando le configurazioni insostenibili nel rapporto fra i generi, nella Chiesa e nella società, entrambe impegnate nella costruzione di rapporti paritari.
Il dibattito sul gender conosce da sempre le reazioni spaventate, se non indignate, da parte di alcuni settori ecclesiali. Un atteggiamento che rivela una difficoltà di fondo ad accettare le sfide della modernità da parte della Chiesa?
La critica mette in evidenza ciò che prima era invisibile perché era assunto come ovvio, specialmente per quanto concerne i rapporti fra donne e uomini. La modernità ha radicalmente contestato gli stereotipi di ruolo, il che ha sospinto a dismettere, anzi a smantellare talune impostazioni nelle relazioni fra i sessi vantaggiose per le donne, per riconfigurarle in modo più equo. Si tratta di un cammino di verità esigente, che mette a nudo e impone cambiamenti maggiori: inevitabile che faccia tremare, dunque non stupiscono né lo spavento, né le resistenze, anche nella Chiesa. Il fatto è che quest’ultima dispone di tutto ciò che occorre per sormontare tali paure, anzi per accogliere le sfide quali “provocazioni” che attivano potenzialità ancora non pienamente espresse, ma presenti da sempre nel tesoro della sua Tradizione, specialmente nel Nuovo Testamento.
Ma questo disagio non nasconde anche il timore che la decostruzione dei modelli classici di maschilità e di femminilità apra la strada a quella presunta autodeterminazione assoluta vista anche come scomoda espressione di libertà di coscienza?
Sì, questo timore esiste, ma è impossibile risolvere il problema di cui esso è sintomo riproponendo – magari in termini nostalgici o di “riconquista” di terreni perduti – modelli di femminilità e di maschilità che hanno mostrato tutti i loro limiti. Il punto cruciale, evocato nella domanda, è la tendenza a fraintendere la libertà di coscienza concependola come una realtà svincolata da qualsivoglia legame e riferimento alla creazione e al Creatore e normata, alla fin fine, solo dal proprio sentimento psichico: “Sono quello che mi sento di essere, a prescindere dal corpo” (che ho e che sono). Ora, nessuno deve invadere quel “sacrario” del rapporto fra la persona e Dio che è la coscienza (la Chiesa lo afferma senza esitazione), ma ciò non esime ogni donna e ogni uomo dal dovere di istruirla, nel confronto con la società, con gli altri, con l’Altro e – per i cristiani – con il Vangelo.
La scelta di “brandire” la libertà personale come arma per imporre il proprio inoppugnabile sentire blocca il dialogo sociale e la ricerca del “di più”: di ciò che è meglio per tutti, irriducibile al meglio secondo me soltanto.
Nel suo saggio lei sostiene che distinguere tra sex e gender potrebbe invece essere utile per un rinnovamento teologico sull’umano e potrebbe “onorare maggiormente la singolarità di ogni uomo e di ogni donna”. Può aiutarci a capire meglio?
La distinzione fra elemento biologico ed elemento culturale nella costruzione dell’identità sessuale è determinante, così come è decisiva la necessità di non contrapporli, ma di comporli. Il punto del saggio è la valorizzazione della realtà cristiana che meglio permette di pensare l’uguaglianza degli esseri umani e le loro differenze: il battesimo, che rende “nuove creature”. Il fatto di essere “membra del corpo di Cristo”, “immersi” nella realtà definitiva della storia, che è la sua risurrezione, rende i credenti – segno per l’umanità intera – uguali in dignità agli occhi di Dio e, insieme, permette di concepire le differenze (compresa quella sessuale) non in termini gerarchici o conflittuali, ma secondo una logica carismatica. Significa che ogni persona – sentendosi pienamente riconosciuta in ciò che determina la sua identità alla radice, ovvero il fatto di essere figlia o figlio di Dio, unita in Cristo ai suoi fratelli e sorelle – cessa di vedere gli altri come nemici o concorrenti e si trova abilitata a mettere la “sua” differenza, cioè la singolarità incomparabile che la distingue da tutti, a servizio dell’edificazione della Chiesa e del mondo.
Chi rifiuta le categorie del gender, lei scrive, “teme di perdere il proprio potere nei rapporti codificati secondo il modello patriarcale”. Quindi il disagio di alcuni settori ecclesiali nasce solo da questo timore oppure anche dalla fatica di ridefinire il “sogno di Dio” sull’umanità a partire dallo stile che Gesù adotta nelle relazioni con donne e uomini?
È impossibile individuare esaustivamente l’origine delle resistenze e dei timori, presenti del resto non solo nella Chiesa: l’Occidente (l’intero pianeta) sta attraversando un’epoca rivoluzionaria. Il disagio nasce senz’altro dal fatto che lo sconvolgimento degli assetti passati fa mancare il terreno sotto i piedi, specialmente agli uomini. Essi non possono più costruire la loro identità (sessuale) secondo il modello patriarcale, ma non hanno ancora acquisito solidi riferimenti alternativi e devono fare i conti con i cascami di tale sistema, con la sua concezione di maschilità quale dominio, performance, accumulo di potere e di beni. Ad ogni modo, la questione della riconfigurazione dei poteri ecclesiali ha un peso ragguardevole. Una recensione spassionata delle esperienze di leadership condivisa – qua e là presenti nelle comunità ecclesiali – contribuirebbe a illuminare la riflessione.
In effetti, la ridistribuzione del governo nel senso della corresponsabilità ministeriale e di rapporti improntati anzitutto alla fraternità fra uomini (preti) e donne si raccomanda come vantaggiosa. Per tutti. Certo, nella Chiesa gli uomini sono i primi interpellati dall’ingiunzione (evangelica) di “perdere”, cioè di scendere dal piedistallo del patriarcato – che ormai è in rovina, ma che ancora tiene e tenta; tuttavia, le esperienze di relazioni paritarie comprovano che tale scelta è un “guadagno” anche per loro, che possono gustare la gioia di relazioni finalmente “disarmate”, con le donne e fra uomini. Il dimorfismo sessuale è un fatto antropologico e un dato di fede inequivocabile: Dio ha creato l’umanità maschio e femmina.
La Bibbia, però, non definisce in maniera rigida e inappellabile “la donna”, “l’uomo”, “la differenza sessuale”. In particolare, Gesù Cristo entra in relazione con le donne (e gli uomini) senza imporre loro un modello di femminilità a cui dovrebbero corrispondere (lo stesso vale per la maschilità); nondimeno, il suo modo di assumere la natura umana nella parzialità maschile e il suo stile di relazione sono per i cristiani realtà normative.
Mi spiego: la parola cristiana non pretende di esprimere l’unica risposta possibile alla questione del senso dell’esistenza (sessuata), del valore del maschile e del femminile e delle relazioni di genere di cui stiamo parlando. Però essa non teme di proporsi quale realtà ultima e definitiva. In effetti, alla domanda radicale sul senso dell’esistenza umana (maschile e femminile) solo la fede può rispondere adeguatamente. E tale offerta non strapiomba dall’alto: si inserisce in un contesto di esperienze in cui acquista senso, donando al tempo stesso una sovrabbondanza di senso. Dunque, lo stile di Gesù nelle relazioni con le donne e con gli uomini è ricevuto dai cristiani come l’offerta del meglio possibile – il “sogno di Dio” – in tali rapporti e quale norma suprema circa il modo di viverli.
Non sarebbe interesse della Chiesa essere parte attiva di rinnovamento del pensiero nella speranza di superare l’attuale stagnazione che vede, per motivi diversi, la crisi di maschilità e femminilità?
Stimo che la Chiesa già lo sia, anche se si vorrebbe – a ragion veduta – che ciò emergesse più rapidamente e desse frutti più succosi. Rivolgendo lo sguardo indietro di qualche decennio, ci si accorge che i discorsi che andiamo facendo erano improponibili prima del Concilio Vaticano II. Del resto, anche l’odierno dibattere sul gender, sul pieno riconoscimento ecclesiale delle donne, sulla riconfigurazione della maschilità era piuttosto “bloccato”, benché non assente, anche solo quindici anni fa. Molto resta da fare, ma si può segnalare la presenza di un pacifico fermento: a livello teologico, per lo meno, non parlerei di stagnazione. Anche a livello di coscienza ecclesiale, poi, risulta chiaro che la “questione gender”, la “questione femminile” e anche il ripensamento della maschilità non sono temi settoriali, ma snodi nevralgici per il futuro della Chiesa, dai quali dipende la sua credibilità.
Sappiamo anche che è possibile affrontare tali problematiche – che rimangono ostiche – non nel segno della difesa esasperata contro le rivendicazioni “nemiche”, ma in quello della progressiva valorizzazione dell’unità battesimale delle figlie e dei figli di Dio, da cui deriva l’uguale dignità dei generi e l’affermazione delle differenze (sessuali) come carisma offerto per il bene comune.
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«Trattare oggi, in qualità di teologo e di prete, dell’uguaglianza tra uomini e donne nelle nostre società europee e in seno alla Chiesa cattolica è un’impresa delicata e rischiosa». Lo scrive padre Christoph Theobald (Facoltà gesuite del Centro Sèvres di Parigi) nella prefazione al volume di Luca Castiglioni, Figlie e figli di Dio. Uguglianza battesimale e differenza sessuale (Queriniana, pagg. 631, euro 37).
Un testo che non ha timore di addentrarsi in un «gioco relazionale attraversato da tensioni e violenze subdole e contrassegnato da molte sofferenze. Troppi modi di fare e argomentare di tipo clericale – scrive ancora padre Theobald – nascondono effettivamente questa conflittualità e trasformano l’uguaglianza battesimale in un’affermazione astratta e vana». In questo arcipelago culturale e teologico ad alto rischio, don Castiglioni – prete ambrosiano che ha conseguito il dottorato in teologia proprio con questo testo presso le Facoltà gesuite di Parigi e oggi insegna teologia fondamentale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale – avanza proponendo riflessioni di sorprendente originalità e mettendo al centro l’ascolto «sensibile e affettivo delle molteplici “voci” presenti nella Chiesa e nella società, in particolare di quella delle donne». Voci, che come lui stesso ammette, troppo a lungo sono rimaste inascoltate, aprendo la strada a una sofferenza diffusa con cui dobbiamo fare i conti.
Un testo impegnativo, che non propone soluzioni definitive, ma prende sul serio i grandi cambiamenti culturali in corso – senza inutili demonizzazioni – e «tenta di argomentare in varie direzioni, sperimenta», apre la strada verso una «nuova problematica cristologica e trinitaria, solo abbozzata nelle “aperture” finali».
L. Moia, in
Avvenire. Noi & Vita 30 aprile 2023