Ermes Maria Ronchi, frate dei Servi di Maria, è un autore spirituale molto conosciuto e apprezzato per i suoi commenti ai vangeli domenicali e per i suoi libri di profonda spiritualità e umanità. In questo volume si avvicina con estrema delicatezza e venerazione alla figura di Maria così come è presentata nei testi del Nuovo Testamento.
Oltre al nome di Maria e al fatto che fosse madre di Gesù, gli autori del NT hanno ciascuno un proprio approccio alla figura di Maria. Paolo si è interessato del tema cristologico e, di fatto, oltre al breve accenno di Gal 4, ignora in sostanza la figura di Maria. Marco si interessa del cammino del discepolo e Maria appare appunto solo come discepola. Matteo si interessa della storia di Israele fedele e Maria appare come sposa del giusto israelita. Luca scrive con tenerezza, fa di Maria l’amata di Dio, un modello di canto e di stupore, e lo snodo del tempo, colei che partecipa personalmente alla storia della salvezza. Giovanni è complesso, simbolico, teologo del cuore, fa di Maria la donna universale, la madre nuova. In una sintesi approfondita e matura, Maria riconosce la trascendenza messianica del figlio e riceve da lui la missione materna nei riguardi del discepolo amato.
Tutti gli scritti del Nuovo Testamento concordano sull’esistenza storica di una donna dalla quale è nato Gesù. I primi tre evangelisti e l’autore deli Atti ne trasmettono il nome: Maria. L’unica cosa da tutti condivisa, da tutti citata, da Paolo a Marco e a tutti gli altri evangelisti, è che è madre. Maria è la madre di Gesù.
La parabola Maria nel NT sottolinea dapprima la maternità fisica, quindi il discepolato e, infine, una maternità nuova e definitiva. Marco e Matteo riportano solo parole su Maria, Luca e Giovanni anche parole di Maria. Maria ha parlato sette volte e il suo silenzio è il luogo «dove si condensano le presenze, dove è possibile riandare alla memoria, riascoltare, riaccendere, confrontare parole e avvenimenti alla ricerca del loro senso profondo (cf. Lc 2,29.51). Il silenzio di Maria non è volto al tacere, ma all’ascolto. Ci vuole molto silenzio per ascoltare il silenzio di Dio» (p. 27). Maria è la creatura evangelizzata per prima.
Secondo Ronchi, Maria appare come una donna di frontiera: madre di cielo e di terra. Il cammino della donna di Nazaret tocca le regioni del cielo: va dalla riflessione, alla contemplazione, fino alla dossologia. E abbraccia anche le regioni della terra: diventa subito servizio all’umanità disorientata, presenza generativa, accoglienza e cura. Inserita nella duplice dinamica tra mistero e quotidianità, Maria diventa paradigma di apertura e della porta di umanità: lei, la prima della lunga carovana dei credenti che attraversa la storia, si pone al servizio tanto della Gloria quanto della vita.
Dal volume di Ronchi il lettore è sfidato a comprendere che la devozione a Maria non può significare estetismo o sentimentalismo. Sarà invece rispetto, difesa, amore della vita. E sarà invitato a denunciare tutto ciò che offusca l’immagine di Dio o attenta alla dignità di qualsiasi figlio o figlia, diminuendo la nostra comune umanità. L’opera di Ronchi invita a un incontro personale con Maria, donna del sì e della speranza: non modello distante, ma presenza trasformante nel cammino di credenti e cercatori spirituali.
Il Vangelo di Luca
La presenza di Maria nel Vangelo di Luca impegna varie pagine dello studioso (pp. 29-82). Fanno la parte del leone il momento dell’annunciazione (1,26-38) e quello del cantico di Maria (1,46-55).
Del primo evento si presenta lo schema narrativo, il dialogo, i tre interventi dell’angelo, il clima di ascolto, silenzio e stupore. Ronchi riflette sull’emozione che coglie ogni lettore. Riportiamo un brano che ben esprime il dettato spirituale e poetico dell’autore:
«La mia annunciazione è ogni giorno di vita che mi è dato, è la capacità di meravigliarmi ancora. La mia annunciazione è nella distanza tra la vita come realtà quotidiana e la vita come appello, che mi chiama oltre, nel bisogno di estasi. La mia annunciazione è nella fame di felicità, ma condivisa, nella fame di comunicare, nella fame di un Dio generatore di vita e di creature che siano come lui, che mandino solo segnali di vita attorno a sé. La mia annunciazione è nella fame di verginità come per Maria; di essere cioè terra vergine, protesa, granello per granello, solo all’inseminazione dello Spirito. La mia annunciazione è nell’ascolto dell’altro: ognuno messaggero dell’invisibile, angelo annunziatore di infinito» (pp. 45-46).
Ronchi riflette a lungo sul cantico di Maria, che nasce in uno spazio di affetto. Dio viene incontro nelle relazioni, è mediato dagli uomini, da incontri, da dialoghi, da abbracci. C’è il momento dell’incontro tra Maria ed Elisabetta. Quest’ultima benedice Maria, la loda, riconosce il motivo nel fatto che ha creduto alla parola di Dio. Il canto di Maria è riletto con parole di traduzione nuove.
Il Magnificat è il vangelo che pone al centro della religione non quello che l’uomo fa per Dio, ma quello che Dio fa per l’uomo. La religione del Magnificat si fonda sul comportamento di Dio, non si fonda sul dovere ma sul dono. Il soggetto di tutto il canto è Dio e l’essenza della religione è la relazione tra Dio e me. La nuova Torah, il nuovo decalogo, non è più prescrittiva di comportamenti dell’uomo verso Dio e i fratelli, ma narrativa di un Dio che è per l’uomo.
Lo scandalo presente nel cantico è dato dal fatto che Maria canta una speranza contro ogni speranza, canta contro l’evidenza. Ella dice: chi fa la storia non sono i potenti per denaro o per intelligenza, ma gli affamati e gli umili. «Dio scommette proprio su coloro sui quali la storia non scommette, su quelli che sono stati sbalzati a terra dal convoglio troppo rapido del progresso» (p. 55). «Coloro che si fidano della forza sono senza troni. Coloro che non contano nulla hanno il nido nella sua mano… ha saziato la fame degli affamati di vita, ha lasciato a se stessi i ricchi: le loro mani sono vuote, i loro tesori sono aria» (ivi, così Ronchi traduce Lc 1,52-53).
Maria usa i verbi dell’agire di Dio al passato, ma indicano, invece, un tempo nuovo, che inizia. «Ma il futuro entra in noi molto prima che accada» (R.M. Rilke). «Dio sta per intervenire e Maria usa il verbo al passato perché il futuro di Dio, l’esito dell’azione di Dio è sicuro. Sicuro quanto il passato» (p. 57).
Nella profezia e nel canto di Maria appare una teologia del capovolgimento che è sottesa a tanti eventi dell’Antico Testamento, ma non secondo lo schema delle nostre favole. La visita di Dio non comporta la fine della povertà, non dispensa prestigio e ricchezza, ma porta gioia e canto dentro la povertà. Il canto è direttamente proporzionale alla nostra capacità di stupore e di futuro, alla nostra capacità non di attendere, ma di generare il futuro. Quel futuro che, allora, entra in noi prima che accada.
Maria è la donna della periferia, povera di tante realtà perché nessuno ha meno di lei e tutti possono riconoscersi in lei. E allora ciò che è stato possibile per lei, nella fede, può esserlo anche per me. Il Magnificat ci aiuta a capire quali sono le strade che Dio preferisce, e ci chiama a ripartire ciascuno dalle nostre periferie, dai nostri esclusi […] Il segreto della speranza è che Dio entra nel mondo non dal punto più alto, ma dal punto più basso. E la prospettiva del “punto basso” – la devozione alla causa dei poveri – deve essere quella dei veri devoti» (p. 60).
Il cantico si chiude con un verbo di ricordo, che sorge all’improvviso, all’infinito, senza legami sintattici. «Ricordarsi della misericordia!». La misericordia è la perfezione di Dio. «Ricordarsi» è un verbo rivolto a tutti. «Vera devozione – rammenta Ronchi – è ricordare il Magnificat scritto in filigrana dentro i nostri giorni con gli eventi della nostra stessa vita; contemplare il volto della misericordia, ridipingere la nostra icona di Dio; dedurre dall’agire di Dio il nostro agire nelle periferie della storia e del cuore; diventare prolungamento della speranza; fare entrare in noi il futuro. E, infine, diventare esegesi vivente del primo canto veramente cristiano, il canto di santa Maria, con il suo stile fatto di stupore, di misericordia, di futuro gioioso» (p. 62).
Ronchi propone al lettore una scommessa. «La grande scommessa è riscoprire Maria come sorella, come compagna di pellegrinaggio nei dubbi e nella gioia della fede, nella ricerca dell’amore, nella capacità di vivere il dolore e la speranza. La vera devozione consiste nel vedere in lei una di noi che è andata avanti, la maestra del cristianesimo, la sorella della fede, la prima dei credenti che ha imparato a credere con fatica e ad amare con castità e tenerezza, che ha imparato a gioire della vita e del suo Signore. Perché è questo che deve insegnarci: a gioire» (ivi).
La riflessione dell’autore si prolunga sulla Natività del Signore (Lc 2,1-7), sull’atteggiamento di Maria di custodire eventi e parole nel cuore (Lc 2,19 e 2,51), sulla profezia di Simeone (Lc 2,22-39) e su Gesù che viene smarrito nel tempio (Lc 2,41-51).
I Vangeli di Matteo e di Marco
La presenza di Maria nel Vangelo di Matteo appare nella genealogia di Gesù (Mt 1,1-16), nei dubbi di Giuseppe (Mt 1,18-25), e negli episodi riguardanti i magi, l’Egitto e Nazaret. Il ritmo della genealogia viene spezzato al suo termine. Si spezza il ritmo della storia; la vicenda umana, il cui culmine è l’atto del generare vita, si arresta: «dalla quale», non «dai quali»! Viene quel di più che la storia da sola non può darsi; viene ciò che l’umanità non può generare.
La verginità di Maria riporta la storia fuori di essa, all’origine. Da Maria nasce l’uomo nuovo, il Cristo, perché Dio riprende da capo la sua creazione, ritorna alla storia, e trae il nuovo Adamo, il somigliantissimo al Padre, da Maria, senza intervento d’uomo. È la pienezza e il compimento della Genesi: ognuno nasce dall’altro e, al tempo stesso, ognuno nasce da Dio.
Gesù è un Dio «nato da donna», così noi siamo uomini nati da Dio. Si chiude il grande cerchio: come da Adamo è nata Eva, per intervento divino, così dalla nuova Eva è nato il nuovo Adamo, per intervento divino. E riparte la storia più antica e solo interrotta. Ogni uomo ormai nascerà così: da donna e dall’alto. «Nascere dall’alto significa nascere con dentro non un silenzio, ma una Parola; con dentro non un labirinto, ma un orizzonte. Vuol dire nascere con un cuore già malato di altezza, inquieto finché non riposa in Dio» (p.85).
L’importanza di Maria per la prima comunità cristiana appare da questo salto storico che in lei si opera. Maria è davvero l’«estasi della storia». La vicenda umana non basta a se stessa, ha bisogno di uscire – ex-stare –, di andare oltre. Viene nel mondo ciò che l’umanità non può darsi. L’uomo Gesù ha radici nel cielo. Gesù è figlio dello Spirito e della vergine. Non è frutto della nostra storia; anzi, proprio questa storia egli viene a cambiare. «Questo è possibile perché Maria è vergine tutta disponibile a Dio. Lo Spirito Santo è colui che unisce verginità e maternità. La verginità di per sé non è una gloria, un vanto; è diminuzione, è povertà, è debolezza» (ivi). Il senso della verginità di Maria è l’aprirsi a ciò che è oltre l’umano, per mescolare un po’di infinito alla nostra storia limitata. L’importanza di Maria appare anche dal fatto che lei è uno dei luoghi di incontro tra la materialità della nostra vita e Dio. Ci indica che Dio viene nella vita e la modifica.
Giuseppe è l’uomo giusto che cerca la volontà di Dio. «Ed è qui forse la radice segreta della verginità della coppia di Nàzaret. Grandezza umana che fa dire: l’amore è più forte. Grandezza della fede che fa dire: accetto di non appartenermi, di non essere io la misura della mia vita, perché qualcosa vale più della mia vita» (p. 90). Soprapponendo i Vangeli di Matteo e di Luca si scopre che «l’annuncio in realtà è fatto alla coppia, cioè allo sposo e alla sposa, dentro il matrimonio. A tutti e due, al giusto e alla vergine, sposi» (ivi).
Il Vangelo di Marco cita una volta sola Maria, implicitamente, all’interno del tentativo dei familiari di Gesù di andare a prenderlo perché lo consideravano fuori di sé (cf. Mc 3,30-35e parr. Mt 12,46-50 e Lc 8,19-21).
Anche Maria ha faticato a comprendere il cammino di Gesù e vuole proteggerlo da chi intende fargli del male. Gesù afferma che la sua vera madre e i suoi veri fratelli sono coloro che compiono la volontà di Dio. Gesù non vuol disprezzare la propria famiglia, ma la vuole allargare all’infinito, su un piano spirituale, di modo che diventi lo spazio ampio di una famiglia nuova, quella dei discepoli di Gesù. Maria è presentata come la prima dei discepoli e modello da seguire. Vale più il suo essere discepola che madre biologica. Qual è la volontà di Dio? «Fare l’uomo – risponde Ronchi –, farlo sempre più simile al suo Signore e dargli compagni di strada e di amore. Dargli Gesù Cristo, che sia fratello e amico e modello di uomo finalmente riuscito, e farlo crescere nella statura di Cristo (cf. Ef4,139 […] fino a che abbia in sé persino gli stessi sentimenti che furono in lui (cf. Fil 2,5), fino a che possa dire: non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me (cf. Gal 2,20)» (p.101).
I fratelli di Gesù sono il gruppo dei suoi parenti, che avranno un ruolo privilegiato nella primitiva comunità cristiana di Gerusalemme. Mai i fratelli-sorelle di Gesù sono chiamati «figli di Maria». Della Vergine si dice solo che è «madre di Gesù».
Il Vangelo di Giovanni
Ronchi riflette innanzitutto sulla presenza di Maria alle nozze di Cana (Gv 2,1-11). I «tre giorni» rimandano alla Pasqua e al dono della Torah al Sinai. Con tutte le situazioni di dolore e di povertà esistenti, nel Vangelo di Giovanni Gesù inizia la sua missione durante una festa di nozze. Egli si manifesta come il vero sposo, colui che condivide la gioia e la ricerca di tutti gli uomini. È lui il vino nuovo della nuova alleanza, che porta il cuore dell’uomo a realizzare la comunione con Dio impossibile alla pura osservanza delle leggi rituali dell’Antico Testamento. L’acqua diventa vino nel trasporto, nella sequela di fiducia dei servi.
Maria intercede per la gioia degli sposi, si accorge prima di tutti della tristezza incombente su di loro («non hanno vino»). Maria indirizza i servi a compiere tutto quello che Gesù dirà, portando a compimento l’impegno preso dal popolo di Israele sul monte Sinai. Gesù non vuole dare il vino materiale ma il vino spirituale e di un’ora alta e gloriosa, di morte e rivelazione.
L’epiteto «donna» rivolto da Gesù alla madre rimanda «dalla parte di colei che, nel racconto delle origini, è la madre di tutti i viventi: il senso di questa parola sta dalla parte di Eva. Perciò dire “donna” significa: Maria modello di umanità nuova, grembo del futuro, madre per sempre di un uomo nuovo. Dio ha un progetto d’uomo, un progetto di un mondo: in questo progetto Maria è madre, come Eva era madre del vecchio concetto di uomo. Quindi, dire “donna” significa mettere dentro questa parola l’umanità femminile, ma anche tutta intera l’umanità» (p. 112).
A Cana Maria appare come donna di relazioni aperte e creative che non si isola, ma fa da collante tra le persone, pronta a mediare dall’uno all’altro, dai servi al figlio, dal figlio ai servi. Maria nel Vangelo non appare mai sola. «Donna d’incontri, connessione delle vite, in nome di un vincolo più alto. È il nexus amantium, come dicevano gli inni medievali, legame, intreccio, nodo di chi ama» (p. 113).
Le parole di Maria ai servi di Cana permettono all’evangelista un’identificazione indiretta fra tutto il popolo di Israele e la madre di Gesù: sulle sue labbra è posta la professione di fede che tutto il popolo ha pronunciato sul Sinai (cf. Es 19,8; 24,3.7). Maria porta a Gesù, è scala, porta, via. Mentre si serve con fiducia, l’acqua diventa vino e i servi diventano uomini e donne irradianti vita. Gesù dona il vino della nuova alleanza, della gioia messianica.
Maria è profezia del volto gratuito e gioioso di Dio. «Cana e il ruolo di Maria ci rivelano un Dio attento al gratuito, che sta dalla parte del vino, che ama il profumo, come a Betania, come al banchetto in casa di Simone (cf. Mt 26,6), un Dio attento – e intento – alla tua felicità» (p. 119). Gesù rivela un Dio che non è la spiegazione del cosmo e onnipotente, ma un Dio attento al gratuito (come lo è il vino), attento all’amore, all’amicizia, alla fede, alla gioia, alla bellezza: al superfluo-necessario (cf. ivi).
L’amore dell’uomo è luogo di evangelizzazione. Belle le riflessioni di Ronchi sull’amore umano e sul matrimonio come emergenza trasparente dell’amore di Dio per l’umanità tutta. «Il matrimonio è come l’affacciarsi alla superficie di un pozzo profondissimo da dove riluce qualche barlume d’oro dell’icona di Dio» (p. 124). L’amore e la sessualità sono luogo di evangelizzazione è non campo di pesantezza morale/moralistica.
Ronchi sintetizza il suo pensiero con una poesia: «Il Dio di Cana è il Dio della festa, / del vino, del gioioso amore danzante/ e io credo in Dio perché è un Dio felice, / che dà il piacere di esistere, / perché altro non fa che eternamente/ considerare ogni uomo/ più importante di lui stesso. / Io sono quell’uomo. / E sono un uomo grato» (ivi).
Il secondo brano che ricorda la presenza di Maria nel Vangelo di Giovanni la vede ai piedi della croce (Gv 19,25-26). Maria è l’immagine della prossimità ed è invitata all’esodo dal dolore. Le parole di Gesù dicono a Maria: «Deponi un po’ del tuo dolore e riapri la tua capacità di andare incontro, di stare accanto, di innestarti non più sulla mia ma su qualche altra vita: ecco un altro figlio» (p. 130). È come se dicesse: «Rendi questo dolore periferico alla tua vita, e cerca un altro centro, un altro figlio» (p. 131).
La libertà dal dolore, l’esodo dal dolore ha in sé questa certezza – afferma Ronchi –: cheil dolore non deve essere determinante né per le nostre scelte, né per le nostre fughe. Ogni sensazione di sofferenza è una minaccia di egocentrismo. «Il dolore è fondamentalmente egoistico. La felicità invece è contagiosa, altruista, si comunica come la luce del sole, fino agli angoli più remoti. Solo nella felicità dell’altro diviene reale e completa la nostra felicità, disinteressata, magnanima, prodiga, partecipe» (ivi).
Origene diceva: «Caritas est passio». «Il Calvario è nodo di amore e di dolore. Il dramma non è la morte, ma non avere nessuno per cui valga la pena patire e appassionarsi, nessuno per cui valga la pena morire» (ivi).
Maria vive una maternità ferita. «Ciò che resta fisso è la maternità e, tuttavia, prima è sua madre, poi Maria è madre quasi senza figli, maternità ferita, poi diventa tua madre. Quasi a dire – annota Ronchi –: “Donna, deponi il tuo dolore e riscopri la tua maternità”, riscopri la tua capacità di amore. Un figlio muore, ma un figlio ti è dato. Dolore di agonia e dolore di parto intrecciati insieme. E a ciascuno di noi è detto: “Ecco la tua vocazione, essere madre. Ecco il tuo futuro, generare vita, anche quando la vita attorno muore”. La tua vocazione conta più del tuo dolore, e questo vale per tutte le nostre vocazioni – ricorda ancora l’autore –. La tua vocazione, che è maternità, che è proteggere, custodire e far rifiorire la vita, conta più del tuo dolore» (p. 133).
La nostra vocazione è la stessa di santa Maria – prosegue lo studioso –, la maternità: custodire, proteggere, prendersi cura, amare» (p. 135). La parola di Cristo alla madre è parola dura ed esigente, secondo Ronchi. Spesso è spada di fuoco che incide la zolla del cuore, trapassa l’anima. «Maria, non più madre perché suo figlio sta morendo, ritorna ad essere madre: “Ecco tuo figlio”; madre di maternità ferita, un figlio muore; maternità risanata: “Ecco tuo figlio”; maternità moltiplicata: tutti noi siamo suoi figli» (ivi).
Maria è la donna del terzo giorno. Come Maria, «i cristiani accanto alla croce sono uomini e donne del terzo giorno, che sperano in quella parola: “Il terzo giorno io risorgerò” (cf. Mt20,19); “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19)» (p. 136). L’inizio di risposta al dramma del dolore sgorga da una sola parola: risurrezione. Per accettare, come Maria, la mia sofferenza, il mio calvario, io devo sapere, io voglio sapere che Cristo è risorto.
Maria continua comunque a soffrire anche adesso: si addolora e ha compassione delle paure degli uomini, vede finire il vino della gioia, partecipa al mistero della sofferenza di Dio, alla «passione d’amore».
La nostra vocazione è la stessa di Maria: è la prossimità alle infinite croci della terra dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli – scrive Ronchi –, è l’esodo dal nostro dolore personale per farci carico delle ferite del mondo e innestarci sugli altri. «Nel cuore del dolore, in prossimità della morte, dentro il sole nero del giorno dell’abbandono, questa follia rimane: continua la potenza dell’amore. Anche se non ho niente, anche se ho le mani vuote o svuotate dall’angoscia, rimane in un luogo che non so, sorgente della mia sorgente, cielo del mio cielo, terra profonda delle mie radici, rimane la potenza dell’amore. L’unica cosa che non sarà distrutta, capace di tutte le primavere, capace di tutte le risurrezioni, capace di tutte le nuove maternità ferite» (pp. 138-139).
«E da quell’ora il discepolo la prese con sé». «Maria sul Calvario rappresenta l’amore –annota l’autore –, impersona il “sì” che segue, che incoraggia il figlio nella sua vocazione di dono senza riserve. Giovanni rappresenta il discepolo fedele che non è fuggito, che nell’apparente fallimento di Cristo ha ancora la fede nell’incredibile. Maria rappresenta l’amore, Giovanni la fede, e tutti e due insieme anticipano la Chiesa costituita dall’amore e dalla fede. Amore intenso e fecondo di madre, fede anche nell’impossibile come in Giovanni» (p. 140). Per volontà formale di Gesù la maternità fisica di Maria diventa maternità spirituale. Non è lei che riceve ospitalità in casa dei discepoli, è lei che viene come ricchezza in deposito nelle case, come identità nella tua ricerca di identità. Noi abbiamo una madre che ancora, in questo momento e continuamente, genera la nostra identità di credenti (cf. p. 141).
La presenza di Maria negli Atti degli Apostoli
A Pentecoste Maria è presente (At 1,14). Maria non abbandona coloro dai quali è stata abbandonata, gli apostoli, ma li raccoglie con sé, prega con loro, dona loro qualcosa. La forza dello Spirito che sarebbe discesa sugli apostoli e sui fratelli e che li avrebbe investiti dall’alto era la stessa che si era posata sulla Vergine e l’aveva sedotta (cf. Lc 1,35) abilitandola alla divina maternità.
Il dono dello Spirito a Pentecoste ha valore inaugurale solo per la prima comunità, non per Maria. La Vergine costituisce invece un polo nascosto, ma vivo, di attrazione dello Spirito in seno alla comunità. Lei è già, in tensione dinamica, il supremo luogo dello Spirito. La linea dell’invisibile e quella del visibile nella storia della salvezza si incontrano in Maria (cf. p. 144).
Negli Atti si descrive la nascita e l’infanzia della Chiesa. E Maria è presente alla nascita e all’infanzia di Cristo come anche a quella della Chiesa. Maria è la prima cellula della Chiesa, colei che ha già ricevuto lo Spirito, ne è già ricolma. Lei accompagna la preghiera della Chiesa e mostra anticipata l’azione dello Spirito perché nella Chiesa si compia quello che fu il cammino del Cristo» (p. 145).
La preghiera della Chiesa è unanime e perseverante. «Maria è lì per creare una comunità autentica, per mostrare in sé cosa significhi sostenere la preghiera di ciascuno perché sia preghiera comune e la preghiera comune sostenga la crescita di ciascuno verso l’unità» –scrive Ronchi (pp. 145-146). Dio stanca, pregare stanca. Il «per sempre» fa paura. Santa Maria è la donna della perseveranza: nella gravidanza, nella fede ai piedi della croce, nei tre giorni di silenzio del sepolcro. Perseverante nella preghiera con i discepoli nell’attesa della Pentecoste. «Maria ci richiama all’umile virtù contadina della perseveranza: nel tempo dell’inverno il grano germina sotto terra. La perseveranza è il sigillo umile e fortissimo della speranza» (p. 147).
La presenza di Maria nell’Apocalisse
L’Apocalisse descrive a lungo la donna vestita di sole che partorisce fra i dolori il figlio maschio destinato a governare tutte le nazioni e come il figlio e la donna siano liberati dalle grinfie omicide del drago rosso, trovando rifugio l’uno verso Dio e l’altra verso il nascondiglio preparatole da Dio nel deserto. Secondo la tradizione dei padri e in accordo con l’esegesi moderna, Ap 12 si riferisce innanzitutto alla Chiesa. Solo in seguito, come in filigrana, la figura della donna vestita di sole può essere riferita a Maria, la madre del Messia.
Secondo Ronchi, la parola «donna» impiegata da Giovanni e da Luca per designare Maria, rende possibile per il brano di Ap 12 un’interpretazione mariologica. «In ogni caso la mariologia di Ap 12 è totalmente cristocentrica: la “donna” è tutta riferita al figlio» (p.150). L’immagine della donna di Ap 12 può essere riferita a Maria ma anche a ciascun credente in cammino, il simbolo del futuro che già abita in lui. Una donna vestita di sole, generante e pronta a lottare contro il male è una figura in cui «tutti siamo richiamati a riconoscerci, per essere a nostra volta creature solari, luminose, vestite di luce; in questa donna incinta, per essere creature generanti vita, capaci di sostenere, di consolare, perfino di moltiplicare la vita intorno a noi. La Chiesa non si pone come primo obiettivo quello di insegnare, o di pregare, o di organizzare, ma di generare vita. La pastorale è un atto generativo (cf. Gal 4,19) e il cristiano è un rigenerato, nuova creatura, non un sapiente o un filosofo o un asceta» (p. 150).
«Che cosa sta nascendo da Maria-Chiesa-umanità? – si chiede Ronchi –. L’Apocalisse, la nostra storia presente, vuole attenzione a tutti i segni di vita. La nostra vocazione è migrazione verso la vita» (p. 151). «Oggi il drago è il simbolo dei conflitti, dei genocidi, di tutta la violenza, della corruzione, del crollo degli ideali, del vuoto che spegne la vita e della minaccia di morte allevata dentro di noi con i nostri stessi amori, con il nostro stesso sangue. Maria partecipa maternamente al duro combattimento contro i poteri delle tenebre, che si svolge lungo tutta la storia umana» (p. 151) – commenta l’autore, che cita la Redemptoris Mater di Giovanni Paolo II, 47,3.
La donna vestita di sole dice come anche noi siamo creature luminose, il cui compito è la fatica aspra e gioiosa di liberare tutta la luce sepolta in noi. «Caratteristica dell’uomo nuovo, dell’uomo incamminato nella migrazione verso la vita è il coraggio di lottare, perché l’odio si può vincere, si può disgregare, si può consumare di fronte all’amore» (p.152).
Nel segno della misericordia
Ronchi conclude il suo volume con alcune pagine molto belle e importanti dedicate ai temi della passione di Dio e della misericordia, rapportandoli alla figura di Maria.
Il dolore patito da Gesù è il dolore dell’amore. «Caritas passio est». «A partire dal Crocifisso, allora, il cuore dell’esperienza cristiana è che il nostro Dio è amore che fa misericordia, partecipando al dolore altrui, quali che siano le sue ragioni, e poi amore che gioisce dinnanzi alla bellezza dei suoi amici. Amore che fa misericordia, amore che gioisce» (p. 156).
«In Gesù, vero uomo, è concentrata la risposta che Dio attende da noi, incontrati attraverso di lui, suo santuario. La risposta è un sì appassionato e incondizionato all’uomo e a Dio fino a morirne. Ecco, tutti abbiamo conosciuto l’esperienza di Cristo come il commuoversi delle sue viscere» (ivi). I vangeli riportano varie testimonianze di ciò.
«Noi siamo santuari di carne della misericordia. Ed è in questo il processo teologico per capire il ruolo di santa Maria – scrive Ronchi in alcune pagine molto importanti anche in rapporto alla pietà popolare –. Quindi non dobbiamo mai trasferire a Maria l’attributo della bontà misericordiosa propria di Cristo, altrimenti si viene a vanificare il grande paradosso cristiano della salvezza. Cristo misericordioso è Dio misericordioso, Dio che si curva dall’alto sulla colpa e sul dolore umano fin al punto di assimilarsi ad essi, di prenderne il carico. Maria non è divina: per definizione è puramente umana. Allora la misericordia di Maria è semplicemente la pietà dell’umanità verso se stessa, e questa sì che può essere commovente e consolante, ma non ha nulla di rivelatore, di paradossale […] Non si deve delegare alla pura umanità della Vergine la funzione di simbolizzare una grazia al di là del merito, perché allora davvero, come dice Dante “mestier non era parturir Maria”(Purgatorio, III, 37), cioè sarebbe stato inutile che Maria partorisse, sarebbe stato sufficiente domandare al cuore di una sorella, di Eva, il patrocinio dei poveri peccatori preso il trono della giustizia. […] Maria non può essere il femminile misericordioso cui si ricorre per placare il maschile giudice. Non è la madre misericordiosa contro il Cristo iudex. Non è il femminile complice cui si ricorre per ottenere favori dal maschile severo o nonostante il maschile severo. […] È la cultura del femminile, diffusa in uomo e donna, che – sempre secondo Ronchi – è mistificante e menzognera se non è coniugata con l’altro polo: il maschile. Il Dio biblico è colui che con viscere materne è all’uomo, è per te, quella parola che dice: “Esci e va’”, ti strappa da te stesso in un rapporto di alleanza dialogica con lui, non ti tiene inglobato, ti rimanda alla tua responsabilità. In breve, Maria non è la versione misericordiosa, graziante e protettiva di Dio, non è il volto materno di Dio, come dice il titolo di un libro di Leonardo Boff, non è questo. Ciò equivarrebbe a dissolvere il volto del Padre apparso nel Figlio e confermato in noi dallo Spirito Santo che è consolatore e paraclito, che conforta e ne difende» (pp. 158-159).
«Maria – secondo Ronchi – non può essere assunta ad emblema di una religione a basso prezzo, perché il Dio che ti ama con passione materna è il Dio che non dimissiona il suo compito paterno indicandoti la via e dicendoti, come annuncia Isaia: “Su, venite, discutiamo” (Is 1,18). Questo è il ruolo paterno. In nome della pietà popolare non dobbiamo sorvolare su questo» (p. 159).
«Maria è il santuario di Dio, deve essere vista come la casa dove si va, come i magi pellegrini dell’Assoluto, per trovare il Figlio e accoglierlo da lei. E i mendicanti di perdono trovano il perdono del Padre e del Figlio e i mendicanti di senso trovano la parola che colora le esistenze e i mendicanti di vita trovano l’eternità e adorano. Luogo di incontro di due mendicanti è santa Maria: l’uno d’amore che è Dio, l’altro d’amore che è l’uomo» (p.159).
«Allora nasce naturale la celebrazione. Con Maria si loda, si ringrazia, si canta il Magnificat per i mirabilia Dei: è la celebrazione di un incontro trasformante che rimanda alla quotidianità della compagnia umana quei piccoli santuari viventi che siamo noi, luoghi in cui il Padre continua a dirsi come misericordia nel Figlio, nella comunione dei santi. Santa Maria allora è il typos et exemplar di ogni santuario vivente che è l’uomo, in cui Dio si dice come misericordia» (p. 159).
«Maria dona la fonte della compassione – annota ancora Ronchi –, è la prima redenta della compassione, è la prima che trasmette compassione, esempio di una possibilità per tutti. Maria è evento di misericordia, figlia della misericordia, sorella di misericordia e madre di misericordia» (p. 160. Il Magnificat dà questa chiave di lettura. «Quando Maria è chiamata madre della misericordia, vuol dire che lei è oggetto della misericordia di Dio ed è lei stessa misericordiosa con i fratelli e le sorelle, cioè è figlia e sorella di misericordia, ma è anche misericordiosa con Dio. Sì, Maria è misericordiosa con Dio, cioè lo riceve nel suo grembo […] Davanti a lei Dio si inchina e da lei attende la misericordia primordiale che solo lei può concedergli, la misericordia primordiale che è il grembo in cui farsi carne […]. Maria è la figura del credente abitato da Dio, da Cristo. Potremmo allora anche noi rivolgere il saluto dell’angelo a quelli che ci sono vicini, nel silenzio […]. In Maria ciascuno può vedere se stesso come carne in cui il Misericordioso senza casa ha trovato casa, come cuore di pietra che il Padre converte in viscere di tenerezza» (p. 161).
In Maria – conclude l’autore – «l’uomo è reso grembo capace di tenerezza, di commozione, di compassione, di pietà e di grazia, bocca che si dischiude al Magnificat, occhi aperti sul dolore dell’uomo fino a piangerne, udito attento a percepire il gemito della storia e del creato fino al fremito, piedi pronti a fare passi incontro all’altro, mano aperta all’amicizia. In Maria i credenti prendono coscienza di sé come figli di misericordia, come madri di misericordia, cantori di misericordia, artefici di opere di misericordia. Maria, perfetta icona del Figlio e quindi del Padre, ci indica la via per essere a nostra volta icone: essere misericordiosi. Farsi ponte attraverso cui la grazia e la pietà del Padre continuano a incarnarsi nella storia, farsi casa di carne della misericordia, madre di misericordia. Essere creature dal cuore tenero sempre più simili al “Molto Tenero”» (pp. 161-162).
Il volume di Ronchi contiene pagine ricche di spiritualità innovativa, che illuminano anche una sana pietà popolare.
R. Mela, in
SettimanaNews.it 25 giugno 2025