Il titolo del libro di Simon Pierre Arnold, Dio è nudo,è reso ancora più intrigante dalla foto di copertina, un bebè di sesso indeterminato. Il sottotitolo Inno alla divina fragilità ci avvisa che non si tratta tanto di un saggio di teologia quanto di variazioni su un tema, divise in nove capitoli. I primi rileggono Dio e la sua relazione con l'umano a partire da un altro inno, Filippesi 2,7, secondo il quale Cristo Gesù «spogliò se stesso» diventando, appunto, nudo e fragile. Gli ultimi quattro capitoli, invece, riflettono sulla ricaduta della fragilità divina sulla chiesa e sulla sua missione, sulla comprensione della salvezza e sulla vita comunitaria. Collocato come anello tra le due parti è il quinto capitolo, in cui «il paradigma monastico» funge da filtro alla proposta dell'autore. Ciò non sorprende, in quanto Arnold è un monaco benedettino, fondatore del Monastero della risurrezione nel Perù, dove risiede da quasi cinquant'anni.
Il libro esce nella collana «Spiritualità» della Queriniana, i cui parametri non vengono palesati (nemmeno sul sito). Si intuisce, però, che questi esimono l'autore dal fornire il tipo di apparato critico che – a mio parere – il tenore del testo richiede. Sebbene si presuma una dimestichezza da parte di chi legge con i termini del discorso teologico, le note sono quasi esclusivamente limitate a citazioni bibliche. È anche possibile che la parola «spiritualità» voglia avvisare il lettore o la lettrice del taglio esistenziale del testo. Qui, però, si avverte un deficit, in quanto, pur parlando a partire dalla propria esperienza di fede, c'è solo un cenno alle varie coordinate che l'hanno impattato. È un peccato, perché Arnold è tra i fondatori della teologia andina, la cui prospettiva avrebbe arricchito una riflessione che appare stranamente neutra.
Il libro è un lungo invito a spogliarci delle immagini che ci siamo fatti di Dio, come Dio stesso se ne è spogliato. Suggestivo, a questo riguardo, è l'episodio dei soldati che si ripartiscono le vesti del Crocifisso, visto come simbolo dell'«umanità invitata da Dio stesso a spogliare le immagini che ci facevamo di lui» (p. 13). A questa proposta ci hanno ben abituati le teologie femministe alle quali l'autore afferma di essersi ispirato (anche se a questo proposito cita solo un articolo). Così Arnold condivide la critica a relazioni gerarchiche e patriarcali e il loro scardinamento da parte del Dio nudo («Lo Spitito è incaricato di rompere sistematicamente ogni scala di prestigio e di diritti», p. 94); la fine del Dio autosufficiente e la nascita del Dio «che è relazione», nonché l'incarnazione «come un processo continuo e progressivo», idee alticolate e ampiamente esplorate da studiose come Rosemary Radford Ruether, lsabel Carter Heyward e Sallie McFague.
Al lettore o alla lettrice protestante può sorprendere riscontrare non tanto una critica a una chiesa «patriarcale, antidemocratica e clericale» (p. 212), quanto l'adozione di prospettive teologiche che riconosce e condivide come, per esempio, la comprensione del peccato «come il nostro stato di incompletezza e condizione umana al di là degli errori che commettiamo» (p. 5), oppure l'errore di pensare che «le nostre opere possano giustificarci» (p. 34).
Dopo aver letto l'Alleanza, l'Incarnazione e il Regno a partire dal Dio che si denuda, Arnold presenta il paradigma monastico e la sua spiritualità non come ascesi bensì come una «ascesa discendente», la cui «vera e ultima destinazione è il vuoto, il nulla» (p. 113). Vuoto simboleggiato (in una lettura molto stimolante) dal pozzo al centro del monastero, che richiama il pozzo di Giacobbe e l'incontro della samaritana con Gesù.
Se fin qui avevo seguito con partecipazione il testo stimolante di Arnold – prova che nel cristianesimo contemporaneo sta emergendo, al di là degli steccati confessionali, un forte desiderio di autenticità evangelica – devo ammettere che al sesto capitolo ho avuto una battuta d'arresto. Qui, infatti, l'autore pone «la morte al centro dell'attenzione», affermando che «la morte è un santuario nel quale e verso il quale dobbiamo camminare» (p. 132). È da tempo, però, che filosofe e teologhe hanno criticato questo approccio così centrale al pensiero occidentale, responsabile secondo alcune di una cultura fautrice di morte e incapace di amare la vita. Porre la morte al centro dell'attenzione (secondo il dictum di Teresa d'Avila «muoio di non morire») mi sembra una mossa piuttosto azzardata in un mondo intriso di morte e di morti, piena di possibili fraintendimenti.
Sulla croce Dio ha deciso la propria morte, afferma l'autore, decisione indispensabile «per la grande umanizzazione di Dio» che come donne e uomini portiamo avanti, scoprendo dentro di noi Salvezza, Promessa, Regno quali «l'arte di morire, appresa tra le braccia del Crocifisso, l'arte di nascere incessantemente tra le braccia della Madre Terra, tutta impregnata di risurrezione cristica in crescita» (p. 191). L’innalzamento di Cristo col quale l'inno di Filippesi termina si rivela una risurrezione collettiva e cosmica.
Insieme all'immagine di «Madre Terra» Arnold legge la «visita» di Maria a Elisabetta come segno della reciprocità della visitazione. «I due futuri si intesseranno reciprocamente nel segreto femminile, nella lode condivisa e nel servizio solidale» (p. 215), posizione che dista poco da una visione patriarcale del femminile. Ed è in questi ultimi capitoli che cominciamo a vedere i limiti dell'inno da lui intonato. Da un lato, troviamo una radicale decostruzione del tipo di cristianesimo codificato nelle sue istituzioni e, dall'altro, una sorprendente apologia dell'«eredità della mia Chiesa […] sono cattolico fin dai miei primi balbettii e non vedo perché dovrei rinnegare i miei simboli anche se so che sono relativi» (p. 177). Se la kenosi significa la spoliazione delle immagini di Dio, non si comprende bene perché «l'obsolescenza del nostro immaginario e del nostro simbolismo nei suoi due versanti, religioso e antropologico» (p. 228) debba costituire un problema. Anzi!
In questo libro Arnold lotta valorosamente con le contraddizioni intrinseche all'idea di un Dio che si spoglia (per non dire dell'incarnazione di per sé). Contraddizioni che a livello teorico portano alle aporie che conosciamo bene dalla «teologia della morte di Dio», ma che – mi pare di capire – qui vengono risolte a livello esistenziale, «perdere, salvare e salvarsi sono tutt'uno» (p. 198). Senz'altro un libro stimolante che fa riflettere, ma che lascia a chi legge un compito arduo, decifrare un linguaggio che, pur dichiarandosi innico, si rivela piuttosto più appropriato al discorso teologico.
E. Green, in
Protestantesimo 77:2-3/2022, 218-220