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Dio è nudo
Simon Pierre Arnold

Dio è nudo

Inno alla divina fragilità

Prezzo di copertina: Euro 26,00 Prezzo scontato: Euro 24,70
Collana: Spiritualità 206
ISBN: 978-88-399-3806-0
Formato: 13,2 x 19,3 cm
Pagine: 240
Titolo originale: Dieu est nu. Hymne à la divine fragilité
© 2021

In breve

La kénosi che Paolo attribuisce al Figlio è anche iniziativa del Padre e l’opera principale dello Spirito. Ora, se la fede è un’esperienza storica che si evolve, le nostre immagini di Dio sono chiamate a una costante revisione, sia personale sia comunitaria, alla luce dell’avventura umana eternamente nomade.

Descrizione

In quest’opera potente e audace Arnold ci invita a rinunciare radicalmente alle nostre immagini di Dio. Passando ciascuno dei nostri slanci di fede attraverso il setaccio della Kénosi, il monaco benedettino di stanza sulle Ande apre un percorso che conduce a una fede più matura, più danzante, più coerente con l’amore di Dio. Un Dio infinitamente più semplice di quello che i nostri cuori complicati tendono ad adorare.
«Nel corso della storia, questo Dio del dialogo tenta l’impossibile, integrando nel suo progetto l’ipotesi necessaria del fallimento. La creazione e la storia della salvezza mi sembrano solo una serie infinita di fallimenti e di errori corretti in continuazione, o riconvertiti in una creatività sconfinata, a misura dell’amore ostinato di un Dio affascinato dall’umano».
È Dio che assolutamente si denuda, certo. Ma è anche la nostra fede che viene spogliata – e che si risveglia gradatamente a immagini del divino più essenziali di prima, a una semplificazione progressiva di Dio stesso.

Recensioni

Il titolo del libro di Simon Pierre Arnold, Dio è nudo,è reso ancora più intrigante dalla foto di copertina, un bebè di sesso indeterminato. Il sottotitolo Inno alla divina fragilità ci avvisa che non si tratta tanto di un saggio di teologia quanto di variazioni su un tema, divise in nove capitoli. I primi rileggono Dio e la sua relazione con l'umano a partire da un altro inno, Filippesi 2,7, secondo il quale Cristo Gesù «spogliò se stesso» diventando, appunto, nudo e fragile. Gli ultimi quattro capitoli, invece, riflettono sulla ricaduta della fragilità divina sulla chiesa e sulla sua missione, sulla comprensione della salvezza e sulla vita comunitaria. Collocato come anello tra le due parti è il quinto capitolo, in cui «il paradigma monastico» funge da filtro alla proposta dell'autore. Ciò non sorprende, in quanto Arnold è un monaco benedettino, fondatore del Monastero della risurrezione nel Perù, dove risiede da quasi cinquant'anni.

Il libro esce nella collana «Spiritualità» della Queriniana, i cui parametri non vengono palesati (nemmeno sul sito). Si intuisce, però, che questi esimono l'autore dal fornire il tipo di apparato critico che – a mio parere – il tenore del testo richiede. Sebbene si presuma una dimestichezza da parte di chi legge con i termini del discorso teologico, le note sono quasi esclusivamente limitate a citazioni bibliche. È anche possibile che la parola «spiritualità» voglia avvisare il lettore o la lettrice del taglio esistenziale del testo. Qui, però, si avverte un deficit, in quanto, pur parlando a partire dalla propria esperienza di fede, c'è solo un cenno alle varie coordinate che l'hanno impattato. È un peccato, perché Arnold è tra i fondatori della teologia andina, la cui prospettiva avrebbe arricchito una riflessione che appare stranamente neutra.

Il libro è un lungo invito a spogliarci delle immagini che ci siamo fatti di Dio, come Dio stesso se ne è spogliato. Suggestivo, a questo riguardo, è l'episodio dei soldati che si ripartiscono le vesti del Crocifisso, visto come simbolo dell'«umanità invitata da Dio stesso a spogliare le immagini che ci facevamo di lui» (p. 13). A questa proposta ci hanno ben abituati le teologie femministe alle quali l'autore afferma di essersi ispirato (anche se a questo proposito cita solo un articolo). Così Arnold condivide la critica a relazioni gerarchiche e patriarcali e il loro scardinamento da parte del Dio nudo («Lo Spitito è incaricato di rompere sistematicamente ogni scala di prestigio e di diritti», p. 94); la fine del Dio autosufficiente e la nascita del Dio «che è relazione», nonché l'incarnazione «come un processo continuo e progressivo», idee alticolate e ampiamente esplorate da studiose come Rosemary Radford Ruether, lsabel Carter Heyward e Sallie McFague.

Al lettore o alla lettrice protestante può sorprendere riscontrare non tanto una critica a una chiesa «patriarcale, antidemocratica e clericale» (p. 212), quanto l'adozione di prospettive teologiche che riconosce e condivide come, per esempio, la comprensione del peccato «come il nostro stato di incompletezza e condizione umana al di là degli errori che commettiamo» (p. 5), oppure l'errore di pensare che «le nostre opere possano giustificarci» (p. 34).

Dopo aver letto l'Alleanza, l'Incarnazione e il Regno a partire dal Dio che si denuda, Arnold presenta il paradigma monastico e la sua spiritualità non come ascesi bensì come una «ascesa discendente», la cui «vera e ultima destinazione è il vuoto, il nulla» (p. 113). Vuoto simboleggiato (in una lettura molto stimolante) dal pozzo al centro del monastero, che richiama il pozzo di Giacobbe e l'incontro della samaritana con Gesù.

Se fin qui avevo seguito con partecipazione il testo stimolante di Arnold – prova che nel cristianesimo contemporaneo sta emergendo, al di là degli steccati confessionali, un forte desiderio di autenticità evangelica – devo ammettere che al sesto capitolo ho avuto una battuta d'arresto. Qui, infatti, l'autore pone «la morte al centro dell'attenzione», affermando che «la morte è un santuario nel quale e verso il quale dobbiamo camminare» (p. 132). È da tempo, però, che filosofe e teologhe hanno criticato questo approccio così centrale al pensiero occidentale, responsabile secondo alcune di una cultura fautrice di morte e incapace di amare la vita. Porre la morte al centro dell'attenzione (secondo il dictum di Teresa d'Avila «muoio di non morire») mi sembra una mossa piuttosto azzardata in un mondo intriso di morte e di morti, piena di possibili fraintendimenti.

Sulla croce Dio ha deciso la propria morte, afferma l'autore, decisione indispensabile «per la grande umanizzazione di Dio» che come donne e uomini portiamo avanti, scoprendo dentro di noi Salvezza, Promessa, Regno quali «l'arte di morire, appresa tra le braccia del Crocifisso, l'arte di nascere incessantemente tra le braccia della Madre Terra, tutta impregnata di risurrezione cristica in crescita» (p. 191). L’innalzamento di Cristo col quale l'inno di Filippesi termina si rivela una risurrezione collettiva e cosmica.

Insieme all'immagine di «Madre Terra» Arnold legge la «visita» di Maria a Elisabetta come segno della reciprocità della visitazione. «I due futuri si intesseranno reciprocamente nel segreto femminile, nella lode condivisa e nel servizio solidale» (p. 215), posizione che dista poco da una visione patriarcale del femminile. Ed è in questi ultimi capitoli che cominciamo a vedere i limiti dell'inno da lui intonato. Da un lato, troviamo una radicale decostruzione del tipo di cristianesimo codificato nelle sue istituzioni e, dall'altro, una sorprendente apologia dell'«eredità della mia Chiesa […] sono cattolico fin dai miei primi balbettii e non vedo perché dovrei rinnegare i miei simboli anche se so che sono relativi» (p. 177). Se la kenosi significa la spoliazione delle immagini di Dio, non si comprende bene perché «l'obsolescenza del nostro immaginario e del nostro simbolismo nei suoi due versanti, religioso e antropologico» (p. 228) debba costituire un problema. Anzi!

In questo libro Arnold lotta valorosamente con le contraddizioni intrinseche all'idea di un Dio che si spoglia (per non dire dell'incarnazione di per sé). Contraddizioni che a livello teorico portano alle aporie che conosciamo bene dalla «teologia della morte di Dio», ma che – mi pare di capire – qui vengono risolte a livello esistenziale, «perdere, salvare e salvarsi sono tutt'uno» (p. 198). Senz'altro un libro stimolante che fa riflettere, ma che lascia a chi legge un compito arduo, decifrare un linguaggio che, pur dichiarandosi innico, si rivela piuttosto più appropriato al discorso teologico.


E. Green, in Protestantesimo 77:2-3/2022, 218-220

La questione dell’indicibiità di Dio è esposta in questo modo da Simone Weil nel saggio L’ombra e la grazia: «Dio può essere presente nella creazione solo nella forma dell’assenza. Il male indica che bisogna collocare Dio a una distanza infinita». E ancora: «Dio non vuole essere temuto attraverso una visibilità ingombrante e soffocante, ma vuole essere cercato, perché ama dissimularsi dentro le pieghe della realtà, in attesa che qualcuno avverta il battito lieve della sua presenza».

Per la filosofa francese nell’atto della creazione Dio si ritira per lasciare spazio all’uomo e al cosmo. È questo il senso del riposo del settimo giorno, commenta il monaco belga Simon Pierre Arnold, che ricorda che secondo la Lettera agli Ebrei questo riposo continua ancora per consentire «una totale riconciliazione nella libertà». Anche l’esistenza del male diviene una prova di questa autolimitazione divina. Discorso alto e difficile, che il filosofo Luigi Pareyson definiva “temerario” e che è stato più volte affrontato da scrittori e pensatori, da Wiesel a Buber, dalla Hillesum a Bonhoeffer, il quale nella debolezza di Dio vede il segno della sua presenza accanto all’umanità ferita, e che ora viene applicato da Arnold, che vive in Perù dal 1974 ed è ritenuto uno dei fondatori della teologia andina, alla condizione della Chiesa oggi.

Un'analisi coraggiosa e a tutto campo che si rivela proficua in vista del Sinodo, contenuta nel saggio Dio è nudo. Inno alla divina fragilità di Simon Pierre Arnold, ora pubblicato da Queriniana (pagine 236, euro 26,00). Si può considerare una sorta di invito a compiere una discesa agli inferi per la fede cristiana, in conseguenza della crisi dovuta alla pandemia – in cui il cattolicesimo è stato spesso incapace di accompagnare la sofferenza delle persone colpite dal Covid e di dire a tutti parole significative sul vivere e sul morire – e alla piaga della pedofilia. Ciò è possibile solo abbandonando l’immagine di un Dio “mago dell’ordine” del cosmo ed assumendo quella di un Dio fragile, quella che san Paolo nella Lettera ai Filippesi chiama kenosis, simbolizzata dalla morte in croce di Gesù: «Qui, Dio non solo si spoglia, ma lo si spoglia, lo si umilia, lo si ridicolizza, lo si sfida a essere Dio secondo le categorie della teologia di Satana. Questo divino Servo sofferente, vulnerabile, re deriso da un’umanità insensata, muore d’amore nella nudità, trafitto da parte a parte. Ma in questa contemplazione del Dio nudo del Vangelo non bisogna dimenticare la Resurrezione. San Giovanni, in particolare, ci descrive in dettaglio la scena della tomba vuota con le bende per terra e il sudario accuratamente piegato. Gesù risorto è un Dio per sempre ferito d’umanità».

Questo abbassamento di Dio quale emerge dal Vangelo, sin dalla nascita di Gesù in una mangiatoia, ha un rilievo anche storico e scientifico. Sulla scia di Teilhard de Chardin, Arnold vede l’Incarnazione come «un mistero avvolgente» che rimane in atto nel cuore della storia e penetra tutta la realtà creata. E non confligge certo con la teoria dell’evoluzione, semmai conferisce un senso del tutto nuovo alla selezione delle specie, che non può essere vista come «un incontro di boxe il cui obiettivo sarebbe l’eliminazione sistematica del diverso e del debole. Dal punto di vista della fede, la selezione non ha come obiettivi, contrariamente alle crudeli evidenze, l’esclusione e il trionfo dell’individuo sul gruppo. Essa è, al contrario, la dinamica della reciproca emulazione verso più vita in comune, verso la cultura e la spiritualità».

Ma torniamo al cattolicesimo, che Arnold sferza per uscire dalla catalessi: «All’interno delle nostre Chiese – egli dice –, come schizofrenici, ci stiamo sgretolando in lotte interne di retroguardia tra conservatori e progressisti, mentre le vere urgenze sono innegabilmente altrove». Vista dal suo Perù, dove ha fondato in riva al lago Titicaca il monastero della Risurrezione, la Chiesa appare «troppo patriarcale e clericale, ossessionata da una visione puritana e dicotomica del mondo». Una requisitoria alquanto severa ma la situazione ecclesiale che stiamo vivendo «è drammatica, peggio dell’epoca che generò Lutero».

Come rispondere a questa crisi? Tornando semplicemente al Vangelo, siglando una nuova configurazione plurale ed egualitaria delle nostre relazioni, seguendo l’esempio di Gesù che rinunciò a tutti i suoi privilegi e invitò gli apostoli a non rivendicare posti d’onore e a concepire la gerarchia non come posizione di potere ma come servizio, sul modello della lavanda dei piedi. E inaugurò una nuova stagione nei rapporti fra uomo e donna.

«Aggrappandoci alle nostre scale – insiste l’autore – e ai nostri privilegi, chiudiamo la breccia attraverso la quale potrebbe penetrare lo Spirito. Il luogo del servizio, dove Gesù si è messo e dove vuole vederci, non ammette tuttavia alcuna eccezione. Non si tratta di un’ideologia astratta e facoltativa, ma piuttosto di un’anti-gerarchia vincolante per tutti e per tutte». Ma «tra le macerie di una Chiesa peccatrice», ci sono anche segni positivi, dal rispetto per i diritti umani al risveglio delle donne, dalla crescita della sensibilità collettiva per l’ecologia alla denuncia degli abusi sugli innocenti.

Tutte battaglie che dopo la Laudato si’ e la Fratelli tutti la Chiesa in qualche modo fa proprie. Ma l’urgenza vera di una Chiesa che torna al Vangelo è quella di tornare a proclamare all’uomo contemporaneo la proposta della fede. Che significa condivisione delle pene e delle gioie di tutti gli uomini ma non una rinuncia all’annuncio della resurrezione. Si chiede Arnold: «Nel nostro mondo sofisticato, da dove potrebbe sorgere ancora lo stupore? Come immaginare una Chiesa che si ritrae, come il suo Signore, che si rende sempre più invisibile per lasciare tutto lo spazio al Vangelo?»

È dal monachesimo e dalla sua scuola del dialogo nel silenzio, esemplificata dai detti dei Padri del deserto («crateri nascosti di senso nuovo e forte che ci salverebbero dalla logorrea onnipresente dell’abbrutimento mediatico: chi saprà osare nuovi detti per un nuovo deserto?»), che può venire una spinta positiva, ma non per cercare oasi perfette isolate dal mondo. Il modello proposto è quello della comunità trappista di Thibirine, capace di una presenza silenziosa ma efficace in una terra non cristiana, una presenza che contempla anche la possibilità del martirio. Non a caso uno degli ultimi paragrafi del libro si intitola Ripensare la Chiesa in categoria di visitazione: «È giunto il momento di scambiare l’imposizione universale con l’osmosi e la commensalità che ricreano sinfonicamente il mondo, come nell’incontro tra Maria ed Elisabetta».
R. Righetto, in Avvenire 31 dicembre 2021

La fede è spogliata, portata a una semplificazione progressiva di Dio stesso. Simon Pierre Arnold è un monaco benedettino, vive in Perù dal 1974 ed è considerato uno dei fondatori della teologia andina, una branca della teologia indigena dell’America del Sud. L’editrice Queriniana traduce dal francese (a cura di Vincenzo Salvati) e pubblica questo testo dove si invita il lettore a rinunciare radicalmente alle sue immagini di Dio.
«Il colmo della nudità di Dio – scrive Arnold nella Premessa – si contempla sulla croce. Qui Dio non solo si spoglia, ma lo si spoglia, lo si umilia, lo si ridicolizza, lo si sfida a essere Dio secondo le categorie della teologia di Satana, che lui non ha cessato di denunciare nel corso di tutta la storia della salvezza. È questa nudità crocifissa, questa morte di Dio, assunta da Dio stesso molto prima di Nietzsche, e molto più radicalmente, che porrà il fondamento essenziale della nostra fede».
Il testo è suddiviso in 9 capitoli, dopo un’ampia Premessa: 1. Limite, fallimento e incompletezza, dinamica dell’Alleanza; 2. Il mistero dell’Incarnazione, rivelazione del Dio trinitario come Dio vulnerabile; 3. L’innocenza di Dio; 4. La sfida del Regno; 5. Il paradigma monastico; 6. La morte al centro dell’attenzione; 7. Una missione kenotica; 8. La salvezza tra impossibile e possibile; 9. La comunità cristiana come elogio della fragilità.
«Che cosa resterà – si domanda l’Autore – dei nostri umanesimi, delle nostre intuizioni e delle nostre regole del gioco umano? Tutto, assolutamente tutto, deve essere rivisto e ripensato con urgenza, da cima a fondo, alla luce dello svuotamento di Dio in sé stesso, nel mondo e nella storia. Mi si dirà che il mondo non cessa di cambiare! Certo, tutto è cambiato tranne la nostra immagine di Dio e dell’umanità, che derivano l’una dall’altra».


G. Ruggeri, in Recensionedilibri.it 5 ottobre 2021