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Dio al plurale
Rémi Chéno

Dio al plurale

Ripensare la teologia delle religioni

Prezzo di copertina: Euro 14,00 Prezzo scontato: Euro 13,30
Collana: Giornale di teologia 418
ISBN: 978-88-399-3418-5
Formato: 12,3 x 19,5 cm
Pagine: 128
Titolo originale: Dieu au pluriel. Penser les religions
© 2019

In breve

Rémi Chéno si ricava uno spazio originale nella teologia cristiana delle religioni: «Il mio approccio, che definirei postliberale, opta per un esercizio umile della ragione nel confronto con le ricchezze dell’altro, senza peraltro cadere negli estremi dell’esclusivismo o del pluralismo».

Descrizione

Viviamo in una realtà frantumata, frastagliata. Il pluralismo è il volto visibile della globalizzazione, e a questo destino non sfugge nemmeno il mondo religioso. Ora, c’è chi reagisce denunciando il supermercato delle credenze e lamentando il bricolage religioso. E c’è chi si chiede che senso dare a questo fenomeno rispetto alla fede del Dio unico che interviene nella storia per salvare tutti gli esseri umani.
Alla cacofonia di Babele, Rémi Chéno risponde con la sinfonia di Pentecoste: insegna ad accogliere teologicamente la diversità che non abolisce le differenze (e la verità!), ma le trasfigura in cangianti riflessi policromi. Lo fa inseguendo, con umiltà e rispetto, le orme di Colui per mezzo del quale tutto esiste.
Ecco allora un libro talvolta scomodo, spesso sorprendente, sempre rivelatore: una guida intelligente per integrare nella fede cristiana lo “scandaloso” pluralismo religioso dei nostri giorni.

Recensioni

In Dio al plurale, Ripensare la teologia delle religioni (Queriniana, 2019) il domenicano francese Rémi Chéno scrive: «L’esclusivista concepisce un’unica vera religione (la sua, beninteso); l’inclusivista non concepisce altra verità nelle altre religioni se non la sua, che è in germe nelle altre ed è compiuta nella sua; invece il pluralista trova la verità solo in un denominatore comune a tutte le religioni. Con un capovolgimento “copernicano”, i post-liberali riconoscono a ogni religione una verità categoriale propria, forse diversa dalla loro, o addirittura contraddittoria, ma benvenuta». Una visione rispettosa soprattutto della libertà dello Spirito, che soffia dove vuole e che va incontro a tutte le donne e gli uomini in maniera misteriosa.


S. Valzania, in L’Osservatore Romano 26 agosto 2024

Voici la traduction italienne de Dieu au pluriel : Penser les religions (2017). Enseignant de théologie dogmatique à Angers, puis attaché à l’Institut dominicain d’études orientales (IDEO) du Caire, Rémi Chéno propose une introduction fort accessible à la théologie chrétienne de la pluralité religieuse. Après Karl Barth et Karl Rahner, John Hick et Paul Knitter sont ici retenus comme représentants de positions désormais classiques en ce domaine. Un dernier chapitre présente des théologies « post-libérales » inspirées du modèle « culturo-linguistique » de George Lindbeck et, à ce jour, moins bien connues sur le continent européen. Quitte à forcer parfois le trait, l’A. excelle à mettre en lumière les enjeux pour la réflexion théologique et pour le dialogue interreligieux tout en dégageant les points forts de chaque position ainsi que les critiques qu’on peut lui opposer. Respecter la singularité de chaque tradition, c’est accepter de s’engager dans un travail de « traduction » (pas seulement linguistique), c’est devenir expert dans le « passage » entre deux ou plusieurs mondes culturels et spirituels.


J. Scheuer, in Nouvelle Revue Théologique 143/4 (2021), 683

Il sottotitolo sintetizza il contenuto del volume, mentre il titolo ne delinea l'orizzonte teologico. L’autore è un teologo domenicano francese specializzato in ecclesiologia, ricercatore in pneumatologia ed escatologia. Da qualche anno si sta concentrando maggiormentesulla teologia (cristiana) delle religioni. Ma ci sta di mezzo anche la pratica, per la quale ha ricevuto l'incarico di segretario generale dell'Istituto domenicano di studi orientali (Il Cairo, Egitto).

In teoria e in pratica, quindi, sa bene di cosa parla; il che fa la differenza anche in termini di chiarezza di pensiero e di semplicità comunicativa. Infatti, non siamo davanti a un manuale e nemmeno a un saggio forbito e accademico. L’argomento, di per sé ostico e insidioso anche agli esperti, si fa chiaro e comprensibile senza cedere all'approssimazione di certi riassunti e all'ambiguità di certe scorciatoie metodologiche. Tuttavia, per chi ama i sottili distinguo e la compiutezza dei principi (e il tema ne richiederebbe molti) la lettura del libro potrebbe risultare poco nitida e adeguata alla complessità delle questioni e delle discipline interessate (cf. p. 18). Il linguaggio, in ogni caso, mantiene scorrevolezza pur non disdegnando terminologie specialistiche, peraltro sempre puntualmente chiarite.

Proficua lettura per lo studente di teologia e di filosofia, ottima sintesi della questione trattata anche per insegnanti di ogni ordine e grado. Non dispiace suggerirlo anche a più di qualche teologo che fatica a tenere il passo con le letture specialistiche. Il testo di Chéno, infatti, echeggia i lavori dei maggiori esperti della teologia delle religioni e non solo. Per chi poi volesse approfondire le varie questioni trattate, alla fine c'è un'essenziale, ma puntuale bibliografia (pp. 115-117).

Ma veniamo al contenuto. Cinque capitoli delimitati da uno introduttivo (La condizione postmoderna, pp. 7-18) e da uno conclusivo (Il dialogo senza confusione, pp. 109-114); al centro lo sviluppo di una riflessione che cerca di «integrare nella fede cristiana lo "scandaloso" pluralismo religioso dei nostri giorni» (quarta di copertina). Cadute le grandi narrazioni, «la condizionepostmoderna» (letterale il richiamo alla riflessione di Lyotard del 1979) «non è un fardello; la intendo piuttosto come una possibilità di interazioni, ora di attrazioni, ora di rifiuti, con gli altri. È un invito all'incontro, allo scambio e, forse, al dialogo. Possiamo temerla, possiamo resisterle, tuttavia essa nonci minaccia. Rende la vita meno stabile, certamente, ma più fluida, meno sicura ma più libera, meno radicata ma più leggera. Essa respira maggiormente» (pp. 15-16). Quello che per gran parte delle riflessioni teologiche contemporanee risulta essere un lamento o il motivo di un rimpianto, per l’autore diventa un'opportunità e l'occasione perl'«esercizio umile della ragione».

Dopo queste premesse non poteva mancare una riflessione più teologica nella quale viene descritta la condizione odierna delle teologie "cristiane" del pluralismo religioso.Che l'autore non teme di descrivere come «uno smantellamento progressivo del mistero cristiano [...] una disarticolazione della sua dottrina» (p. 21.30). Lucida la percezione e così pure l'esito degli approcci alla questione: la proposta esclusivista (l'autore la analizza poi attraverso lo studio di un suo rappresentante: Karl Barth [c. 3]), la posizione inclusivista (analizzata attraverso lo studio di un suo rappresentante: Karl Rahner [c. 4]) equella pluralista (analizzata attraverso lo studio di un suo rappresentante: John Hick, ma si citano anche Paul Knitter, Raimon Panikkar, Michael Amaladoss, Aloysius Pieris [c. 5]).

«Ma altre forme di una teologia pluralista sono possibili, che si iscrivono alla corrente del pensiero post-liberale» (p. 82). Se la risposta pluralista alle posizioni esclusiviste e inclusiviste ruotava intorno alla ricerca/proposta «di un luogo terzo» («filosofico-storico» o «religioso mistico», o «etico-pratico» [pp. 68-72]), sintetico e inglobante, l'approccio post-Iiberale afferma subito che è «impossibile tirarsi fuori dalla propria tradizione», dalla propria cultura e dalle pratiche di vita che ci hanno plasmato e che ci plasmano (p. 86).

È questa la riflessione che l'autore sviluppa nel sesto capitolo (pp. 85-106) dal contenuto certamente più inconsueto per la teologia italiana. Come per i precedenti capitoli, anche in questo si propone in sintesi il contributo di teologi quali George A. Lindbeck (1923-2018) e Joseph DiNoia (1943-), segretario aggiunto della Congregazione per la dottrina della fede. Si parla di «incommensurabiIità» e «insuperabilità», di «forma di vita» e «differenza», di «verità» e «post-truth». Categorie tutte che aiutano ad accogliere le sfide proprie del dialogo, di ogni dialogo, «senza confusione» (pp. 109-114). E che la confusione oggi sia tanta è sotto gli occhi di tutti. Ma ci sono motivi per sperare, dice l'autore. Ne siamo certi. Il 6 agosto di quest'anno abbiamo ricordato i vent'anni della Dominus Jesus...

Che dire? Ci piace solo ricordare che papa Francesco non perde occasione per esortare a entrare in un «dialogo attivo» con gli altri credenti, con i non credenti, con le scienze... con tutti.


D. Passarin, CredereOggi 239 (5/2020), 166-168

L’interesse della ricerca teologica sul senso delle religioni e sul rapporto di esse con il cristianesimo sembra registrare un lieve incremento e qualche accenno di vivacità. Nel 2020 saranno, infatti, ben vent’anni dalla pubblicazione della dichiarazione Dominus Iesus (6.08.2000) e da altre vicende a essa connesse, come ad esempio quella del teologo J. Dupuis (1923-2004). Il 26 aprile 2019 la Commissione teologica internazionale ha pubblicato il documento La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teologico alle sfide contemporanee, e sono ormai passati piú di vent’anni dal documento della Commissione, del 1997, Il cristianesimo e le religioni che ha costituito una “bussola” importante per orientarsi in questo ambito. Il magistero di papa Bergoglio ha dato una nuova spinta soprattutto alla prassi del dialogo nella scelta di compiere alcune azioni che custodiscono sempre un’eccedenza che dà a pensare, oltre a un riferimento al dialogo in diversi testi pontifici, ad esempio Evangelii gaudium e Laudato si’, per citare i piú famosi. Infine, al punto di vista degli studi teologici è opportuno ricordare il forte stimolo dato dalla costituzione apostolica Veritatis gaudium (27.12.2017) che invita nel Proemio a un «dialogo a tutto campo» (n. 4).

Questi semplici richiami costituiscono una parte del contesto nel quale appare la traduzione italiana di un agile libretto che nasce, di fatto, quasi più come la trascrizione di una serie di lezioni che una trattazione nata per un contesto accademico-scientifico. Il pregio complessivo del libretto è quello di gettare il sasso nell’acqua del dibattito inerente alla teologia delle religioni. Il lettore non cultore o avvezzo della materia, infatti, vi può trovare un’ottima introduzione e una chiara road map che delinea un quadro tanto stringato quanto utile. Sette brevi capitoletti che partono da uno sguardo al contesto culturale (cap. 1 La condizione postmoderna), unito a uno sguardo al contesto teologico (cap. 2), per poi svolgere in quattro passaggi una presentazione essenziale di altrettanti paradigmi-tendenze teologiche: l’esclusivismo di K. Barth (cap. 3); l’inclusivismo di K. Rahner (cap. 4); le teologie pluraliste (cap. 5) e un approccio postliberale (cap. 6).

Cosa c’è di nuovo in questa presentazione? Tre cose, forse. Nella presentazione di Barth il riferimento al § 69 del tomo IV/3 della Dogmatica ecclesiale che tratta delle «parole extra muros ecclesiae» (p. 47), un testo quasi mai presente nel trattare la posizione del teologo svizzero. In secondo luogo, la consapevolezza di un «cristianesimo fallibile» (pp. 77-78), che «entra in conversazione con altre tradizioni religiose e con il mondo», come acquisizione delle teologie pluraliste. L’elemento più insolito è, invece, il cap. 6, cioè la costruzione di un ritmo quaternario, oltre la fin troppo logorata triade di esclusivismo, pluralismo e inclusivismo, con la presentazione di un approccio post-liberale (pp. 85-106), sulla scia di G. Lindbeck, fino a J. DiNoia. Si compie quasi un’inclusione dalla teologia liberale “contro” la quale si ergeva la dialettica barthiana, fino a un approccio post-liberale. In questo senso, le categorie di incommensurabilità e insuperabilità (pp. 95-98) sono ancora poco recepite e poco comuni nella teologia delle religioni. «La verità di una religione non deve essere valutata dapprima con il metro di ciò che ne dicono le altre religioni, poiché solo di rado condividerà con esse le sue categorie di pensiero, ma dapprima con il metro di questa coerenza sia concettuale che pragmatica. L’insuperabilità di ciascuna, nel suo ambito categoriale, non contraddice quella delle altre» (p. 98).

Qual è la proposta di tale trattazione? Niente di nuovo, se non la scelta di dare credito a un dialogo senza confusione (cap. 7) e alla necessità della traduzione «per passare da una forma di vita all’altra, da un territorio a un altro» (p. 111). Una soluzione pratica, che nasce dall’incontro concreto di volti e storie. Infine, se il pregio del libretto è quello di essere una presentazione molto agile della teologia delle religioni occidentale, esso ne costituisce al contempo il più grande limite e debolezza. Il «ripensare la teologia delle religioni», come recita il sottotitolo, deve infatti imboccare sentieri diversi da quelli della koinè teologica occidentale con la sua gamma di concettualità specifica. Sarà, infatti, l’incontro, l’assunzione e la teologia contestuale che stanno nascendo in contesti maggiormente segnati da una pluralità religiosa a donare i futuri apporti alla riflessione. La teologia delle religioni è la sfida di una riscrittura globale della teologia lasciandosi provocare, contaminare, convertire anche da concetti, stili e percorsi diversi da quelli ormai ben esplorati nell’ambito occidentale.

Le grandi parole della teologia attendono una riscrittura che sarà feconda solamente nella fatica di un dialogo in vista di una trasformazione. Verità, salvezza, fede, rivelazione e così via, sono grandi parole che incontrandosi con altre grandi parole dell’islam, del buddhismo, del confucianesimo, attendono una nuova vita. L’approdo dell’A. si colloca nell’orizzonte esistenziale, perché egli afferma concludendo che «solo l’esperienza potrà dimostrarci che resta possibile una traduzione, certo mai conclusa» (p. 111). Oltre a questa quanto mai corretta prospettiva, è importante ribadire la necessità di un altrettanto lavoro teorico-concettuale, tipico della riflessione teologica, attraverso il quale tradurre le parole della fede nei tanti linguaggi delle culture e religioni degli uomini.


G. Osto, in Studia Patavina 1/2020, 157-159

Un tempo, le religioni erano legate ognuna a uno suo spazio, una sua nazione e una sua cultura. L’induista viveva in India, il musulmano nei paesi arabi e qualche paese d’Oriente. Un tempo. Oggi, la situazione è cambiata. Ora, un solo condominio può essere un universo plurale dove si trovano il musulmano, il cristiano, l’induista, l’ateo, ecc. Ci sono piccoli mondi che convivono, si scontrano, si guardano sospettosi o curiosi. L’identità di ognuno è continuamente in fase di costruzione e di ricostruzione e la teologia delle religioni si trova davanti a una sfida importante per autocomprendersi e per comprendere l’altro.

La teologia cristiana del pluralismo religioso si pone come oggetto di capire l’esistenza delle altre religioni: sono volute da Dio? Partecipano della verità cristiana? Svolgono un ruolo nell’economia della salvezza?

Classicamente, gli approcci delle teologie delle religioni sono state classificate in tre categorie: esclusivista, inclusivista e pluralista. L’autore del volume Dio al plurale. Ripensare la teologia delle religioni, il domenicano Rémi Chéno, ci presenta invece quattro esemplari: l’approccio esclusivista di Karl Barth, l’approccio inclusivista di Karl Rahner, l’approccio pluralista e l’approccio post-liberale.

Karl Barth

Si dice che la posizione esclusivista sia una posizione ecclesiocentrica, di una Chiesa trionfante, eppure, il teologo esclusivista in questione è il primo a criticare la Chiesa. È il primo a denunciarne l’arroganza e l’indegnità. Karl Barth prende le distanze dalla teologia liberale che ha studiato, una teologia che tenta di adattare il cristianesimo alla cultura circostante. Barth prende spunto dalle affermazioni di Paolo: «Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rm 3,22-23). Dinanzi al giudizio di Dio, tutti sono peccatori. Per lui, la Chiesa è solo un tentativo disperato di autogiustificazione dell’uomo. «In essa – scrive Barth – si esprime la totale duplicità di significato della natura e della cultura umana. […] la Chiesa è senza dubbio il luogo dove l’inimicizia dell’uomo contro Dio si manifesta, dove la sua indifferenza, la sua incomprensione, la sua resistenza raggiungono la loro forma più sublime e anche la loro forma più ingenua». Non appena la Chiesa annuncia, questa stessa parola che essa annuncia la condanna. Mediante la Parola di Dio, la Chiesa è rinviata al suo non-essere.

Il cristianesimo è la vera religione nella misura in cui sta sotto il giudizio di Dio in Cristo e non nella misura in cui produce ricerca su Dio. Quindi, Barth non mette il cristianesimo su un piedistallo, perché è solo per grazia che è vero. Quindi, l’esclusivismo di Barth non è intollerante. Barth non ha una teologia delle religioni e del pluralismo religioso, ma una teologia della religione che taglia l’albero alla radice. In Barth vi è un esclusivismo cristologico: non c’è salvezza fuori da Cristo. C’è esclusivismo rivelazionale: non c’è vera rivelazione di Dio se non in Cristo. Ma non c’è esclusivismo escatologico perché equivarrebbe a limitare la volontà salvifica di Dio.

Karl Rahner

La visione di Rahner è inclusiva. Possiamo dire “teocentrica”. La sfida per Rahner è quella di conciliare l’affermazione di una presenza graziosa di Dio nelle altre religioni (o negli altri credenti) e quella del posto centrale, definitivo e irrevocabile di Gesù Cristo come autocomunicazione di Dio agli uomini. Dio è amore. Con il suo amore Dio vuole raggiungere tutti gli uomini. Difatti, ogni uomo, creato da Dio, è “sempre già” aperto a Dio e alla sua Parola. In ogni uomo c’è un’apertura trascendentale. È un potenziale uditore della Parola. La nostra natura umana è sempre già graziata. È quello che Rahner chiama un «esistenziale soprannaturale».

Rahner vede gli uomini come esseri finiti capaci dell’infinito. E, attraverso queste esperienze, è un cammino che si apre per tutti fino a Dio. Tuttavia, la figura di Gesù Cristo è un punto di passaggio inevitabile. È la seconda affermazione che occorre tener presente insieme a quella dell’esistenziale soprannaturale presente in ogni uomo.  Ogni grazia è grazia di Cristo. Cristo è l’iscrizione nel tempo e nello spazio, nella storia degli uomini, di ciò che è sempre già presente nel cuore di ogni essere umano.

Rahner utilizza l’idea di un «dinamismo di incarnazione». Questa nozione fa riferimento al principio secondo cui la natura interiore e la dinamica della grazia richiedono un’oggettivazione nella struttura sociale della vita umana. Per questo la grazia che opera nel non-cristiano cerca la sua oggettivazione corretta mediante il proprio orientamento dinamico, quello della sua religione, là dove i cristiani affermano che può trovarla perfettamente solo in Cristo e nella Chiesa.

Le teologie pluraliste

Nonostante la sua apertura, la visione di Rahner risulta troppo stretta per i pluralisti. Per questi, Gesù non esaurisce la figura di Cristo, ma è una delle sue manifestazioni. È una manifestazione privilegiata, ma non unica.

Tra questi teologi abbiamo John Hick e Paul Knitter. Quest’ultimo, più che pluralista preferisce essere annoverato tra i teologi mutualisti, i quali hanno la coscienza di operare una rivoluzione copernicana, cambiando totalmente la visione delle cose: non vedono più il cristianesimo al centro del loro modello, ma esso si pone alla pari con le altre religioni come una di esse. Quanto a Gesù: «Si tratterà sempre di concedere uno status eminente a Cristo, ma senza riservargli tutte le forme di preminenza». Hick suggerisce di sostituire all’espressione latina Jesus totus Deus (Gesù è totalmente Dio) un’espressione molto simile, Jesus totum Dei (Gesù è il tutto di Dio), che non comporta l’esclusivismo della prima.Così anche il gesuita Raimon Panikkar abbandona l’identificazione tra Cristo, simbolo universale, e Gesù, il figlio di Maria, per distinguere tra due affermazioni: «Gesù è il Cristo», «il Cristo è Gesù», rifiutando la seconda. Il Cristo – per Panikkar – è più che Gesù. Il Cristo ha altre manifestazioni nella storia.

Le teologie post-liberali

Quanto alle teologie post-liberali, esse criticano la pretesa del punto prospettico neutro enunciato dalle teologie pluraliste ritenendo che è impossibile tirarsi fuori dalla propria tradizione. «Siamo degli esseri umani, inseriti in una cultura e in pratiche che ci plasmano». Così, ad esempio, George Lindbeck insiste sulla particolarità assai concreta di ogni religione, su ciò che la differenzia dalle altre ed evidenzia così due dimensioni importanti: l’incommensurabilità e l’insuperabilità di ogni esperienza (religiosa). Ogni religione ha i suoi modi di vivere e stili di vita che la contraddistinguono e questi modi di vita non sono declinabili con i modi e gli stili di altre religioni.

Valutazione finale

Il libro di Chéno ha il merito di essere un ottimo testo divulgativo che presenta con grande chiarezza e semplicità delle visioni note solitamente per essere complesse (specie quella di Barth e di Rahner). Il testo, inoltre, offre una panoramica su alcune posizioni teologiche riguardo al tema del pluralismo. È chiara nel testo l’opzione più “progressista” dell’autore il quale, a parte la visione ristrettiva di Barth, non presenta nessun’altra visione esclusivista o inclusivista cristologica. Sarebbe stato auspicabile accennare alle visioni di de Lubac, Daniélou, von Balthasar (Cordula), per menzionare solo alcuni autori di spicco.


R. Cheaib, in Theologhia.com 27 gennaio 2020

Tenendo fede alla tradizione e della collana «Giornale di Teologia» della Queriniana, il breve saggio Dio al Plurale. Ripensare la teologia delle religioni di Rémi Chéno fa il punto in maniera chiara e diretta sull’attuale situazione della ricerca teologica cristiana, e cattolica in particolare, riguardo ai rapporti interreligiosi.

L’autore individua quattro fasi nella concezione di questi rapporti. Nella prima, esclusivista, la Chiesa era immaginata come tramite indispensabile per la conquista della salvezza; nella seconda, inclusivista, si è giunti a credere che anche una vita trascorsa sulla base dei valori cristiani potesse condurre a un esito favorevole dell’esistenza, soprattutto nel caso in cui ogni contatto con la Chiesa stessa fosse risultato impossibile. Nella terza fase, del pluralismo liberale, si è immaginato che ogni religione potesse costituire una via autonoma alla salvezza. In quella attuale, post-liberale, si è assistito a una sorta di rivoluzione cartesiana. Il concetto stesso di religione è cambiato, collegandosi a quello di cultura e perdendo le caratteristiche di oggettività per scoprirsi in buona parte prodotto umano, frutto della particolare ricerca spirituale di un popolo.

Ogni civiltà ha costruito quindi la propria concezione religiosa, come ha creato la propria lingua. Non si tratta di conseguire la salvezza in termini cristiani, ma di vivere ciascuno la propria esperienza spirituale nel modo più completo.


S. Valzania, in Radio InBlu. La biblioteca di Gerusalemme 21 dicembre 2019

[…] Riserviamo un cenno al quadro generale della recente discussione teologica sulla pluralità delle religioni. Lo facciamo rimandando a una sintesi – non del tutto riuscita ed efficace, nonostante (o forse a causa) la genesi divulgativa – intitolata appunto Dio al plurale, proposta da Rémi Chéno, un domenicano francese che opera al Cairo, in contatto col mondo musulmano. Sostanzialmente sono tre le vie indicate per edificare una teologia delle religioni, nella consapevolezza della delicatezza della questione, ma anche nella certezza che a livello serio e qualificato ormai si è passati dallo scontro all'incontro, dall'anatema al dialogo. Ricordiamo, tra l'altro, che questi binomi sono stati nei titoli di altrettanti saggi molto noti del teologo belga Jacques Dupuis, massimo (e talora contestato) esperto in materia, e del filosofo francese Roger Garaudy.

La prima via è quella "esclusivista", secondo la quale Cristo è l'unico ed esclusivo mediatore della salvezza che è offerta nella Chiesa che è il suo "corpo" presente nella storia. Da questo alveo sarebbero perciò escluse le altre religioni, senza però impedire che si possa aprire un varco attraverso un votum personale implicito di adesione per i non cristiani che vivono secondo giustizia, moralità e integrità. A questa categoria, ma con molti distinguo Chéno assegna il pensiero del famoso teologo protestante Karl Barth. Molto più esplicito è il rappresentante della seconda via, quella dell'”inclusivismo'': l'altrettanto celebre teologo tedesco Karl Rahner con la sua definizione dei «cristiani anonimi». Se, come dice san Paolo, «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità» i vari percorsi religiosi sono inseriti in questo piano divino universale di salvezza, che è attuato in Cristo ma a cui si partecipa seguendo la propria fede che non è più un ostacolo ma un tramite efficace.

Infine; soprattutto a partire dal saggio del teologo britannico John Hick dal titolo emblematico, Dio ha molti nomi (1982, tradotto da Fazi editore nel 2014), si è configurata la via "pluralista", seguita da altri studiosi, come il noto pensatore Raimon Panikkar. Tutte le religioni convergono idealmente verso il centro che è Dio. Egli allarga le braccia del suo amore a tutti per cui - come scrive Chéno - «non si tratta più di definire quella che sarebbe la fede "buona", ma di riconoscere la "buona fede" dei veri credenti». Cristo - per usare un'espressione di Hick - è, sì, totus Deus, "totalmente Dio" che esprime l'amore divino, ma non è il totum Dei, "la totalità di Dio" il quale si manifesta anche in altre sue azioni d'amore.

Altre articolazioni sono fiorite attorno a questa trilogia, come l'''approccio post-liberale" delineato da Chéno che attinge a ulteriori proposte, fermo restando il principio che «il dialogo delle religioni non è un bricolage» e neppure un affondare nella palude del relativismo.


G. Ravasi, in Il Sole 24 Ore 17 novembre 2019, 32

Era semplice sino a qualche decennio fa: i marxisti stavano a Est, i capitalisti a Ovest, i musulmani erano posizionati tra il Medioriente e l’Oriente, mentre i buddhisti stazionavano in Cina. Ora non è più così, ora è tutto mischiato e le grandi narrazioni filosofiche che accompagnavano tali divisioni geopolitiche sono state superate da quella condizione e definizione filosofica di «postmodernità». Lo stesso fai-da-te religioso è un indubbio sismografo di una Babele che disorienta svuotando la stessa verità. A tale caotica situazione, l’a., domenicano francese, risponde con l’umiltà della Pentecoste laddove la diversità non abolisce la differenza o, cosa ancor più importante, la stessa verità.
D. Segna, in Il Regno Attualità 18/2019, 543