Convertirsi, perché? Ha ancora senso ricorrere a questo verbo? E, se ha senso, come fletterlo nelle sue molteplici sfaccettature? In particolare: davvero costituisce una sfida alla missione cristiana? Il saggio di Ugo Sartorio, docente di teologia sistematica presso la Facoltà teologica del Triveneto (Padova) e per molti anni già direttore della nostra rivista «CredereOggi», ospitato nella nota collana «Biblioteca di teologia contemporanea» della Queriniana, prova a rispondere a queste e ad altre domande.
Confesso di avere accettato forse con leggerezza di recensirlo. La conversione non è al centro delle mie attenzioni e, nel relegarla in un orizzonte marginale, probabilmente esprimo anch’io quello che è il nodo vero: il termine non è univoco, anzi, come recita il sottotitolo, è «controverso». Lo è nella «pluralità di approcci» (primo capitolo): filosofici, sociologici e teologici. Lo è a partire dalla vicenda cristiana (secondo capitolo), dall’imporsi del cristianesimo e dunque dal fare della stessa più che una scelta di fede una scelta diversamente obbligante e obbligata.
Lo è in rapporto al mandato missionario (terzo capitolo), alla sua interpretazione/reinterpretazione nel contesto della mutazione profonda dettata dal nostro orizzonte socio-religioso-culturale. Lo è nella prospettiva del «diritto di convertirsi» (quarto e ultimo capitolo), tutt’altro che scontato, se si vuole, in ogni contesto religioso. Infatti, se si accoglie (quasi sempre) il convertito, pur ponendo paletti diversi, quasi mai si accetta che lo stesso abiuri alla sua fede nativa, configurandone l’abbandono come «apostasia», condizione in un modo o nell’altro biasimata e condannata, talora sino a giustificare la soppressione fisica dell’apostata.
Aggiungo subito che tanto l’Introduzione quanto, e soprattutto, il Congedo guidano il lettore nell’intendimento dell’autore e nelle acquisizioni da lui proposte, ben orientando nel pelago sconfinato di autori e citazioni a cui lo stesso ricorre nell’intento di offrire un contesto quanto più largo e vario dei temi via via focalizzati. E, aggiungo ancora come connotazione previa, che è viva e palpitante la lezione del concilio Vaticano II, lo sforzo di leggerne la virtualità nei decenni successivi, sempre incrementandone la comprensione in fedeltà creativa.
Sartorio nel primo capitolo spazia riferendosi al mondo antico, e dunque accostando la conversione più come evento “filosofico” che “religioso”, per passare poi con dovizia di riscontri alle letture che della «conversione» offre la sociologia, acquisendo il concetto ben oltre il fatto religioso. Intrigante il paragrafo Convertire la conversione (pp. 41-46) in cui si fa spazio alla ripresa teologica del concetto. Richiamata la sua radice biblica, vetero e neotestamentaria, e in particolare l’inseparabilità nel Nuovo Testamento di metanoéin ed epistréphein, si sottolinea come essa appartenga al kerygma neotestamentario.
D’altra parte, essa evoca un processo complesso, che «coinvolge tutte le dimensioni dell’esistenza umana: psicologica, relazionale, sociale, spirituale, ecc. La conversione, dunque, è come un voltare pagina che segna la riorganizzazione di un soggetto dentro un nuovo orizzonte sociale e comunitario» (p. 44ss.). Cose tutte che necessariamente meritano un’attenzione diversa in contesti pluralistici e post-secolari al cui interno il concetto di conversione si allarga quasi facendone sinonimo di “trasformazione”.
La conclusione è che la teologia «d’ora in avanti non potrà non riconoscere la dilatazione di significato che nell’età postsecolare ha investito questa terminologia» (p. 54). Non ci fermiamo più di tanto sul secondo capitolo perché, alla fine, si tratta di cose note. E proprio per questo mi meraviglio che non si sia dato spazio alla conversio come stereotipo “agiografico”. Infatti, darebbe ragione, nella storia, di quella scansione tra catecumeni, convertiti e ricomincianti (cf. p. 52) che, al di là dell’assunzione tecnica proposta nel luogo citato, attesta come la conversione costituisca una tappa fondamentale nel percorso del credente, nella misura in cui questi operi una radicale inversione di vita. E ciò a mio parere, al di là dello stereotipo e del suo uso strumentale, dice qualcosa in più rispetto alla conversatio come stile esistenziale, come processo continuo (cf. p. 69).
A partire dal Vaticano II e dai suoi documenti, in particolare dai decreti Dignitatis humanae e Ad gentes, e dalla costituzione Gaudium et spes, sicuramente qualcosa si è inceppato nell’approccio al termine «missione» e dunque anche al termine «conversione». Una complessa perplessità è rimasta, malgrado i documenti successivi, immediatamente seguenti l’evento conciliare (ad esempio, l’Evangelii nuntiandi) o più distanziati (ad esempio, la Redemptoris missio). Se il disegno salvifico di Dio è che gli uomini tutti siano salvi (cf. 1Tm 2,4), e se l’acquisizione della coscienza quale tribunale inviolabile induce, da una parte, a rendere inutile violarla imponendo una fede quale che sia e, dall’altra, rende ancor più inutile sostituirsi a Dio e alle vie misteriose grazie a cui a tutti da a conoscersi (cf. GS 22 e AG 7), come giustificare l’annuncio missionario che malgrado tutto resta imprescindibile sia nei documenti conciliari come pure in quegli altri, che successivamente hanno messo a fuoco l’annuncio e la missione?
Il capitolo terzo (Annuncio missionario e conversione) parte dal «conflitto delle interpretazioni» aprendosi in tal modo ai tentativi nuovi di lettura in rapporto alla missione. Da qui l’attenzione all’orizzonte nuovo del «pluralismo religioso» (cf. p. 83ss.), al «paradigma pluralista teocentrico» (cf. p. 85ss.), alla difficoltà oggettiva costituita dalla «missione cristiana» (cf. p. 91ss.), alla «questione della salvezza» (cf. p. 94ss.), al «riferimento alla verità» (cf. p. 101ss.). Segue l’attenzione all’«interesse disinteressato per l’altro» come «conversione di chi annuncia» (cf. p. 104ss.). Processo in cui è ben evidente, da una parte, la forza attrattiva della fede professata e, dall’altra, l’acquisizione di uno stile che pone al centro la relazione e mette in atto la «santità ospitale» reperibile nell’agire di Gesù, nel suo farsi prossimo agli interlocutori, quali che siano.
Qui emerge in particolare l’influsso di Christoph Theobald, secondo il quale «se l’evangelizzazione mantiene oggi una sua legittimità essa risiede soltanto nell’interesse disinteressato per l’altro, prima ancora di qualsiasi esperienza spirituale che ci muova in quanto cristiani» (cf. Urgenze pastorali, EDB, Bologna 2008). Riecheggiandolo Sartorio afferma che «l’annuncio mette in gioco una chiesa in via di costruzione che diviene tale attraverso un processo ecclesiogenetico quale è espresso in Ad gentes, un testo che va assolutamente fatto uscire dal suo statuto marginale e posto come chiave interpretativa delle due costituzioni conciliari Lumen gentium e Gaudium et spes» (p. 102). «Il compito della missione cristiana sarebbe il farsi presente del discepolo di Cristo a “chiunque capiti”, dentro la trama degli incontri quotidiani, con un assoluto spirito di gratuità… risvegliando in lui la fede nella vita e abilitandolo a fare altrettanto a favore degli altri» (p. 109).
Le suggestioni di Theobald sono abbastanza note e l’autore sembra condividerle. Esse sono sintoniche a quell’appello alla conversione pastorale cui papa Francesco fa riferimento a partire dall’Evangelii gaudium (nn. 25-33) e che nel lessico di Theobald sta tra la «santità ospitale» e la «mistica della fraternità» (cf. p. 116). Non insisto sul tema del dialogo interreligioso inteso come più profonda conversione di tutti a Dio. Né ancor meno sulla condanna del proselitismo a ragione interpretato come missione sfigurata.
Vorrei, da parte mia, osservare come davvero non sia facile affermare la singolarità salvifica e veritativa della fede cristiana. Giustamente e ripetutamente all’obsoleto assioma extra ecclesia nulla salus si oppone il convincimento che sine ecclesia nulla salus. E, mi si permetta di dire, proprio questo fa la differenza. La chiesa non è il luogo necessario ed esclusivo alla salvezza nel senso che bisogna necessariamente farne parte. Piuttosto è il paradigma offerto quale segno e strumento del farsi prossimo di Dio in Cristo suo figlio.
Per quelli che ne partecipano è comunità salvifica, corpo stesso di Cristo che incede nella storia. «La chiesa solo per il fatto di esistere, attesta che nella storia l’azione salvifica di Dio, che si è pienamente manifestata in Gesù Cristo, ha indubitabilmente raggiunto, in un luogo pur determinato e limitato, il suo obiettivo… L’annuncio del vangelo resta, quindi, indispensabile per condividere con ogni uomo tale ricchezza, cioè l’eccedenza dell’esperienza umana che è possibile solo dove si confessa Gesù come Signore». E citando Carlo Molari aggiunge che dal punto di vista teologico la prospettiva «non è più quella tradizionale: “Fuori della chiesa non c’è salvezza”, bensì “senza la chiesa non c’è salvezza”» (p. 101).
Dismessa ogni pretesa trionfalistica, proprio la comunità credente deve farsi garante del molteplice disvelarsi di Dio, nelle forme a noi note e in quelle a lui solo note. Insomma – è la mia personale opinione – occorre davvero convertirsi a una immagine e coscienza di chiesa ben altra da quella prepotente e trionfante, che ha preteso d’imporre la sua concezione della salvezza come l’unica e sola, e con ogni mezzo. Certo, gli scenari che ci si aprono sono ben diversi da quelli del passato, come pure diversa è la nostra coscienza di chiesa. E se l’evangelizzazione, e dunque la missione, non può che acquisire nuovi linguaggi e nuove forme in senso catecumenale, di conversione o di riconversione, e se in tutto ciò la valenza della testimonianza è ciò che fa la differenza, allora abbiamo davvero molto da lavorare. Ma, ripeto, in gioco è la conversione come mutamento d’immagine, come mutata coscienza di chiesa, necessitata a uscire da se stessa per ritrovarsi più che riprodursi (cf. p. 117), mettendo in atto la potenza seducente e attrattiva del suo vissuto veritativo e testimoniale.
Ringrazio Ugo Sartorio per l’acribia dispiegata nel capitolo quarto relativo al «diritto a convertirsi». Un bel ginepraio davvero tra le istanze identitarie socio-culturali e la libertà di coscienza che soggiace alla libertà religiosa come diritto inalienabile di ogni essere umano. Entrare nel problema è anche capire tanta geo-politica e i tempi che viviamo non ci consentono di eluderla. Di certo è finito il tempo delle conversioni forzate, della chiesa unica arca di salvezza. Ed è iniziato il tempo del confronto e del dialogo, e non solo della collaborazione fattiva su valori e urgenze che toccano l’umanità tutta dentro e fuori l’orizzonte di fede.
Ma proprio per questo si fa più avvincente la prospettiva dell’annuncio, sempre nuovo e rinnovato, sempre più riadeguato alle sfide del nostro tempo, fluido come sia si sa, e instabile, volto ad assecondare i processi nella loro processualità più che non nelle loro finalità, ma non per questo meno seducente. Di sicuro leggere questo saggio, documentato e avvincente, fa scoprire o mettere meglio a fuoco aspetti negletti e nuovi, assolutamente necessari all’agire efficace di una fede che pensa, e pensando non svende il cuore pulsante del suo credo, ma seguita a confessarlo facendosi prossima a chiunque sia alla ricerca del volto misterioso e nascosto dell’unico Dio.
C. Militello, in
CredereOggi 249 (3/2022), 171-176