Se uno è convinto di conoscere la verità, non riterrà opportuno ascoltare cosa pensano altre persone; se uno è convinto che non vi sia nessuna verità, non avrà alcuna voglia di cercarla con gli altri. Tra questi due estremi si collocano tutti coloro che intendono entrare in relazione con quanti incontrano e vorrebbero dialogare con loro, siano essi credenti o non credenti o – come diciamo oggi – diversamente credenti. Il problema diventa allora: come fare? Perché non sempre basta la buona volontà, o quantomeno la disponibilità del carattere, o forse del cuore.
Un aiuto potrebbe arrivare da un piccolo saggio di un religioso domenicano francese che vive in Egitto da 15 anni, a contatto con musulmani e copti, Jean Druel, nato ad Angers nel 1971, studi teologici a Parigi, e di arabo a Nimega nei Paesi Bassi e a Il Cairo dove ora dirige l’Ideo, l’Istituto domenicano di Studi orientali.
Un testo agile, tradotto da Queriniana, un saggio dal linguaggio essenziale, non privo di humour, che entra subito nelle corde del lettore per condurlo all’azione, una volta esplicitate con chiarezza le doverose premesse.
Tanti i modi di parlarsi, uno solo il “dialogo”
Perché, è vero, «ci sono molti modi di parlarsi…», e basterebbe scorrere i commenti sui social per averne una conferma, anche quando si parla di religione (dove si aggiunge, purtroppo, la triste abitudine del nascondere o mistificare la propria identità, presupposto imprescindibile al dialogo). Può accadere, infatti, che ci si parli in maniera polemica e, in tal caso, tutti i colpi sono permessi – attacchi personali, martellamento di fatti storici, dimostrazioni erudite, discorso seduttore o riduttivo –, perché tutto può essere messo al servizio della polemica in quanto, scrive Druel, «la finalità è far aderire l’altro al proprio punto di vista dopo avergli fatto toccare con mano i suoi errori». Un altro modo è il proselitismo in cui si cerca di convincere l’interlocutore che il proprio modo di vedere sia migliore del suo, che i fatti che espone si impongano alla ragione, che i dogmi a cui crede siano universali.
Ma il dialogo autentico è tutt’altro: «il dialogo consiste molto di più nel cercare di capire che nel convincere». Un altro modo di parlarsi è quello di ricorrere al discorso identitario, ma allora abbiamo a che fare con un dialogo tra sordi in cui ciascuno difende posizioni di principio. Si tratta perlopiù di una posizione di debolezza, di chi teme di farsi menare per il naso nelle discussioni e preferisce rifugiarsi nelle formule preconfezionate o nelle citazioni: è quella di chi parla da solo e si ascolta parlare (e magari si stizzisce se nessuno gli risponde), ma risulta terribilmente noioso. È «la maschera mortuaria del vero dialogo».
«Per fortuna c’è un altro modo di parlarsi: il dialogo» scrive il domenicano che al dialogo autentico ha dedicato il suo libro. Il dialogo si svolge tanto meglio quanto più gli interlocutori sono vicini (meglio ancora se amici) o perlomeno che si riconosca da entrambe le parti al proprio interlocutore la capacità di dire cose ragionevoli. Ma c’è ancora un luogo comune da sfatare: che la finalità del dialogo sia quella di trovare un accordo, un punto di vista comune. Al contrario, «il dialogo permette di mettere in rilievo tutta la bella complessità e la grandezza sorprendente di ciò che ci separa. Il dialogo nasce dalla differenza, se ne nutre, la sublima rendendola bella e amabile».
Tanti anche gli argomenti (“enunciati”) e le modalità
Druel non si limita alla premessa sui termini e prosegue su un’analisi dei contenuti o argomenti oggetto del dialogo, che lui chiama «enunciati», suddividendoli con intento sistematico, non tanto in oggettivi e soggettivi, bensì in scientifici, dogmatici, simbolici e sentimentali. Precisa la sua analisi: un enunciato scientifico è dimostrabile in maniera razionale o sperimentale, e confutabile allo stesso modo, dipende dallo stato della conoscenza del momento, ma non può essere soggetto a convinzioni personali, e così un enunciato di carattere storico; all’opposto un enunciato di tipo sentimentale è soggettivo e verificabile solo da colui che lo enuncia. Un enunciato dogmatico, invece, trae la sua verità da un’istanza esterna che enuncia il dogma e può, da sola, modificarlo, quasi un postulato di partenza (esistono anche gli assiomi scientifici, ma frutto di un consenso oggettivo più largo). In questo senso, la risurrezione di Cristo è il punto di partenza delle teologie cristiane, la profezia di Maometto di quelle musulmane. Intrecciare, confondere, alternare le diverse tipologie di enunciati, e relative modalità di trattamento («non si sommano le mele con le nuvole»), significa, di fatto, rendere impossibile il dialogo, come spiega l’autore con l’esempio dell’ostia consacrata: fermarsi alla composizione chimica rischia di vanificare la presenza del Corpo di Cristo, ma non è affatto in contraddizione con essa. Una cosa però è certa: la verità e l’errore non sono appannaggio di un tipo di enunciato perché, tutti, possono, a modo loro, veicolare verità ed errori. «Uno degli scogli che il dialogo interreligioso deve affrontare risiede nel fatto che coloro che vi partecipano credono di parlare scientificamente delle religioni e dei dogmi, mentre in realtà hanno un discorso confessante che si rifiuta di giudicare con il necessario distacco rispetto alle proprie convinzioni, per esempio, citando le loro fonti» e spesso non ne citano alcuna, limitandosi a parlare d’autorità, proponendo la «propria» comprensione.
Il problema grosso è che spesso si sono confusi i livelli di enunciazione: si fa teologia pur non essendo credenti, si è preteso di fare storia, quando in realtà si emettevano giudizi di valore, si è riversato il proprio sentimento in una discussione di carattere scientifico, o peggio ancora, si è confusa la teologia con la scienza delle religioni. I discorsi sono veri o falsi, ma ciascuno nel proprio registro: «È estremamente importante considerare al tempo stesso i quattro livelli di enunciazione, e imparare da ciascuno ciò che ha da dirci. Senza confonderli, senza evitarli, senza idolatrarli. In una parola – sottolinea Druel –, ci occorre una maggiore finezza epistemologica!». Non rispondere con argomenti dogmatici a questioni scientifiche, né con argomenti sentimentali o simbolici. E, se lo facciamo, dobbiamo essere ben consapevoli di andare a sbattere contro un muro e «il fondamentalista è colui che appiattisce i diversi livelli di enunciazione ad un solo unico livello».
Il testo si arricchisce di esempi concreti, frutto dell’esperienza quotidiana e professionale dell’autore, ma si allarga altresì al campo della cultura (la lettura di un’opera d’arte) e dell’attualità, perché, «se ci chiudiamo come ostriche di fronte a queste occasioni di dibattito, trincerandosi dietro le nostre certezze o alle nostre conoscenze, ai nostri sentimenti offesi o alla nostra ignoranza oziosa, ci condanniamo a restare al grado zero del pensiero, alla presa di parola identitaria».
«Il vero dialogo più frutto di studio e ascolto che di parola»
Quale via intraprendere allora? Incamminarsi «verso nuove avventure dogmatiche» scrive Druel, che mette in guardia anche da «una delle realtà più frustranti del dialogo»: quella di ritrovarsi «bloccati in un dialogo delle ignoranze». Perché il dialogo interreligioso è fatto molto più di studio e ascolto che di parola e dibattito, perché non tutto ciò che un credente dice della propria religione si rivela essere corretto e ben informato. La conclusione ha il sapore scientifico: occorre «una pazienza geologica» per non cadere nel fondamentalismo che «ci tenta perché è bello, perché è semplice, perché ci risparmia lo sforzo di mettere in prospettiva tutte le dimensioni del reale». Ma il problema è che la realtà non si può costringere e occorre imparare ad integrare il tutto, non senza fatica e studio.
«Il vero dialogo rende migliori e più liberi»
Resta il traguardo, esaltante, che «il vero incontro non può lasciare mai indifferenti, e, se vi partecipiamo onestamente, il dialogo fa di noi degli esseri migliori». E quali frutti possiamo sperare in un dialogo onesto con persone di cui non condividiamo le convinzioni? Innanzitutto l’ampliare i propri orizzonti, ma anche l’acquisizione di una nuova libertà nel vivere la propria fede, di capire meglio ciò in cui si crede o il motivo per cui non credo. E non è poco.
Un testo che, come accenna l’autore nell’introduzione, può adattarsi anche al dialogo filosofico, ecumenico, e a ruota a quello interpersonale, comunitario, politico…
M.T. Pontara Pederiva, in
SettimanaNews.it 25 gennaio 2019