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Bonhoeffer e i giovani
Andrew Root

Bonhoeffer e i giovani

Una visione teologica della sequela e della vita comune

Prezzo di copertina: Euro 35,00 Prezzo scontato: Euro 33,25
Collana: Nuovi saggi 113
ISBN: 978-88-399-1073-8
Formato: 12 x 20 cm
Pagine: 304
© 2025

In breve

Prefazione di Alberto Conci

«Non ho mai letto un libro di pastorale giovanile come questo: ricco di storia, racconti, articolazioni teologiche e implicazioni per l’oggi. È affascinante!» (Mark Oestreicher)
Negli Stati Uniti, Bonhoeffer e i giovani è stato nominato libro dell’anno del Jesus Creed, Miglior nuovo contributo agli studi su Bonhoeffer, Miglior libro di pastorale giovanile.

Descrizione

Dietrich Bonhoeffer non è solo martire della resistenza al nazismo: è anche un precursore della pastorale giovanile. Questo libro di Andrew Root illumina un aspetto spesso trascurato della vita del noto pastore protestante, mostrando come il suo lavoro con i giovani abbia profondamente influenzato il suo pensiero teologico.
Con uno stile rigoroso ma appassionato, Root esplora il legame tra l’esperienza concreta dei giovani e le intuizioni di Bonhoeffer su fede, comunità e sequela. Intessendo un dialogo con opere fondamentali come Sequela e Vita comune, propone una svolta teologica nella pastorale giovanile: pensarla non come mera “tecnica”, ma come servizio per un incontro autentico con Dio attraverso la vita condivisa.
Un testo che parla agli educatori, ai pastori e a chiunque desideri comprendere come la fede possa essere vissuta e trasmessa alle nuove generazioni. Una lettura che sfida i giovani stessi a scoprire il valore di una vita radicata nella comunità e nell’impegno cristiano.

Recensioni

Un punto di svolta nell’ascesa del nazismo al potere si ebbe il 26 gennaio 1932, quando al Club degli industriali di Düsseldorf intervenne Adolf Hitler rassicurando gli imprenditori tedeschi sul futuro della Germania. Non che il Führer ne avesse troppo bisogno perché già una buona parte dell’élite economica e finanziaria tedesca simpatizzava per il suo movimento politico, ritenuto l’unico in grado di far uscire il Paese da una crisi ormai decennale, dall’instabilità politica perdurante e dalla preoccupazione per il pericolo rosso. Grazie alla sua oratoria efficacissima Hitler spiazzò subito gli interlocutori, ponendo al centro della sua analisi non l’economia e nemmeno la politica estera, cui era legata la penalizzazione della Germania con accordi che prevedevano risarcimenti onerosissimi per aver scatenato la guerra, ma una diversa visione del mondo propria del nazismo, incentrata sul popolo tedesco e sulle sue risorse innate che occorreva risvegliare: «Naturalmente, un popolo – disse – ha bisogno di un’economia per vivere. Ma l’economia è solo una fra le funzioni di cui un popolo ha bisogno per poter esistere. Essenziale è il punto di partenza: il popolo, la razza». Di qui un lungo j’accuse verso la Rivoluzione francese e il concetto di democrazia e di uguaglianza in nome di una presunta ideologia del merito: «La grandezza di un popolo deriva dalla somma non di quello che realizzano gli individui, ma di quello che fanno i migliori. Nessuno venga a dirmi che la prima immagine che dà di sé la cultura umana è la realizzazione delle masse! È al contrario l’opera di pochi geni benedetti da Dio». Ne scaturiva l’elogio della governance autoritaria, tanto in politica che in economia, che dovevano essere guidate come un esercito. […]

Quando prese il potere, approfittando dell’ingenuità di politici quali Hindeburg, Papen e Schleicher – come avrebbe fatto poi con intellettuali come Schmitt e Heidegger – e debellando la corrente di sinistra del suo partito guidata da Strasser, il Führer ben presto si sbarazzò di ogni garanzia democratica e di ogni opposizione politica, culturale e religiosa, imponendo con la violenza delle camicie brune un regime sempre più totalitario. Cui anche gran parte delle Chiese si uniformò ben presto, illusa dalle promesse di Hitler, senza rendersi conto che la sua filosofia era certamente più improntata al paganesimo che al cristianesimo. Fra le voci della Chiesa tedesca, sia cattolica che protestante, spiccano per essersi opposti Karl Barth, Rudolf Bultmann, Dietrich Bonhoeffer, il quale pagò con la vita la sua ferma opposizione, e Romano Guardini, considerato il padre della Rosa Bianca. Bultmann già nel maggio 1933 prese posizione contro le leggi antisemite e in seguito promosse la dichiarazione “Nuovo Testamento e questione razziale”, stigmatizzando la teologia völkisch e ogni discriminazione verso i non ariani. Barth era svizzero ma insegnò in varie università tedesche fino al 1935, quando fu espulso dal regime e dovette fare ritorno a Basilea: in una conferenza tenuta a Bonn il 22 luglio 1933, poco prima che si svolgessero le elezioni ecclesiastiche da cui nacque la Chiesa evangelica della nazione tedesca, votata al collaborazionismo, manifestò il suo dissenso: «Qui, di fatto, viene posto accanto a Dio un secondo dio. L’appartenenza alla Chiesa non può essere condizionata dall’appartenenza alla razza e al sangue».

Del teologo giustiziato a Flossenburg ci racconta il libro Bonhoeffer e i giovani di Andrew Root (Queriniana). Egli espresse una netta e subitanea presa di distanza dal Terzo Reich, come dimostra la sua azione per affrancare gli adolescenti dal fascino che subivano dalle teorie e dalle pratiche naziste. In una trasmissione radiofonica tenuta nel 1933 sul tema “Il Führer e il singolo nella nuova generazione”, smascherò Hitler come seduttore e idolatra. Come scrive Alberto Conci nell’introduzione: «Di fronte al noi stampato sulle fibbie dei cinturoni nazisti (Gott mit uns, Dio con noi), che annulla l’individuo nella collettività, Bonhoeffer richiama la necessità di un altro noi, che riconosca la singolarità del tu al cospetto di Dio e la responsabilità nei suoi confronti all’interno della comunità». Il teologo aderì alla Chiesa confessante, divenendone uno dei pastori più radicali e dirigendo uno dei seminari clandestini costituiti appositamente per la formazione giovanile, che operarono dal 1935 al 1937, quando ogni attività venne chiusa dalla Gestapo. Bonhoeffer clandestinamente proseguì l’opera di sostegno a tanti giovani, attraverso le lettere e gli incontri personali, contribuendo anche all’Operazione Sette, che riuscì a far scappare di nascosto in Svizzera sette ebrei. Accusato di aver congiurato contro Hitler in occasione dell’attentato di von Stauffenberg, nel 1943 fu arrestato e condotto nel carcere di Tegel, dove scrisse vari testi poi confluiti in Resistenza e resa. Dopo aver subito torture, fu giustiziato il 9 aprile 1945, poco prima della liberazione della Germania.


R. Righetto, in Avvenire – Gutenberg 14 novembre 2025, 11

>[…] Si tratta di un testo per molti aspetti insolito, che si colloca su un doppio versante. Da un lato Root intende colmare una lacuna negli studi su Bonhoeffer mettendo in luce come l'impegno pastorale con i giovani, spesso sottovalutato, abbia accompagnato tutta la vita del teologo tedesco, costituendo per luiun'esperienza tanto importante da orientare alcune delle sue più originali intuizioni lungo l'intero arco della sua vita. Su un secondo versante l'autore ritiene che la relazione fra Bonhoeffer e il mondo giovanile mantenga una sorprendente attualità e che possa fornire ancora oggi spunti essenziali per il lavoro educativo con i giovani.

Nello sviluppo della sua ricerca Root segue un criterio prevalentemente cronologico, prendendo in esame le opere nate in ambito accademico (Sanctorum Communio e Atto e essere), la corrispondenza, i materiali elaborati per il ministero con i giovani, gli scritti ecumenici, le relazioni e infine i due libri che furono il frutto dell'esperienza del seminario clandestino della Chiesa Confessante a Finkenwalde, sul mare del Nord, Sequela e Vita comune.

È in particolare a questi due testi che egli dedica la seconda parte del suo studio e nell'inquadrare Sequela egli ricorda come si tratti di «un libro che non cerca mai le sfumature, ma solo di provocare una sequela diretta, immediata e fedele di Gesù Cristo. Finanche Bonhoeffer, nella sua cella, ammise che il tono diretto del libro poteva rappresentare un pericolo per il lettore. Ma anche se pericoloso, a causa della sua mancanza di sfumature e della propensione a indicare di seguire Cristo ad ogni costoBonhoeffer, anche nella sua grigia cella di prigione, ne sosteneva ogni parola».

Nella sua analisi Root richiama l'importanza del tema a due livelli. Sul piano teoretico, dove basterebbe accennare al fatto che l'ultimo capitolo della tesi di abilitazione di Bonhoeffer è dedicato al bambino. E su quello pastorale, se guardiamo al lavoro con i giovani, già nei primi anni Trenta, nella comunità nera di Harlem e nel quartiere operaio di Wedding, a Berlino. In tutti e due i casi egli fece esperienza della marginalità sociale e della povertà economica e culturale delle famiglie; ma ad Harlem sperimentò nella comunità dei discendenti degli schiavi una fede in Gesù Cristo molto lontana «dalla povertà, il disordine, l'immoralità» (così in una lettera all'amico Erwin Sutz) che avrebbe trovato, rimanendone impressionato, nelle case degli operai berlinesi.

Forse anche qui possiamo individuare le prime radici di quella riflessione sull'esperienza della prossimità ai sofferenti che svilupperà alla fine della sua vita, quando scriverà: «Resta un'esperienza di eccezionale valore l'aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, nella prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi - in una parola: dei sofferenti».

LA DOMANDA SUL TEMPO

Sullo sfondo del lavoro di Root possiamo riconoscere due temi fecondi in Bonhoeffer: la questione del tempo e il dialogo intergenerazionale, che rappresentano un'importante chiave di lettura per comprendere il valore che egli attribuisce al rapporto con i giovani nella sua elaborazione teologica. Tale attenzione sempre è un'occasione per ripensare la fede, la comunità, la teologia fin dal suo soggiorno a Barcellona alla fine degli anni Venti: in proposito Root riporta la splendida lettera a Walter Dress in cui Bonhoeffer racconta di come l'incontro con la fede nuda di un bambino lo abbia sorpreso e commosso.

La domanda sul tempo si sviluppa a partire dal primo dopoguerra per l'impressione suscitata nei più piccoli Dietrich, Sabine e Susanne dalla morte del fratello Walter, e giunge fino alle lettere dal carcere. La sensibilità per il tempo eventualmente perduto si approfondisce nel periodo della congiura e negli anni del carcere: se nel 1934, nella prima fase dell'opposizione al regime hitleriano, egli sostiene in un'omelia che «la vita è troppo corta ed è una cosa troppo seria, perché noi si possa perdere del tempo», nel Natale del 1942 la domanda sul senso della propria azione nel tempo diventa il punto di partenza per gettare lo sguardo sul valore dell'azione responsabile che si dovrebbero assumere gli uomini e le donne suoi contemporanei: «Perduto sarebbe il tempo in cui non avessimo vissuto da uomini, non avessimo fatto delle esperienze, non avessimo imparato, compiuto qualcosa, goduto, sofferto. Tempo perduto è il tempo non messo a frutto, il tempo vuoto. Tali certamente non sono stati gli anni trascorsi».

E proprio al senso del tempo egli dedica uno studio, che purtroppo non ci è rimasto, di cui scrive ai genitori qualche settimana dopo essere stato incarcerato: «Mi sto cimentando in questi giorni con un piccolo studio sul 'sentimento del tempo', un'esperienza che è particolarmente caratteristica della custodia cautelare. Qualcuno che mi ha preceduto in questa cella ha inciso sopra la porta: 'Fra cent'anni sarà tutto finito'. Era il suo tentativo di venire a capo di questa esperienza del tempo vuoto, ma c'è molto da dire su questo argomento, e vorrei discuterne con papà».

Ma questo vivo senso del tempo non lo conduce solo a porre la domanda sul valore dell'azione nel penultimo e sulla necessità di «preparare la via», che è un compito di altissima responsabilità. Il giovane teologo resistente si interroga sul rapporto fra le generazioni, su ciò che significa sul piano politico, sull'eredità che esso implica nella condizione storica che vede donne e uomini di generazioni diverse diventare assieme attori e costruttori del presente e del futuro.

In tale contesto, la relazione che egli preparò per una trasmissione radiofonica dell'aprile 1933, Il Führer e il singolo nella nuova generazione, resta fondamentale per comprendere come Bonhoeffer, nato nel 1906, interpretasse i rapporti intergenerazionali e il proprio posto all'interno del mondo giovanile del primo dopoguerra: «Tre fratelli, il maggiore dei quali è nato nel 1900, il secondo nel 1905 e il terzo nel 1910, […] incarnano oggi la differenza di tre generazioni»: la prima è quella di coloro «che hanno visto la morte, che sono per così dire di nuovo quotidianamente passati dalla morte alla vita», la seconda è quella che ha sperimentato «l'irraggiungibile superiorità» dei fratelli maggiori, mentre la terza appare troppo lontana dalla prima per capire «che qui, in mezzo a loro e accanto a loro, vivono questi uomini che sono sfuggiti al mondo della morte»: per questi giovani che appartengono alla terza generazione «il problema della vita si concretizza, a motivo della sua generale incertezza e delle circostanze del tempo, nell'azione politica» e sono loro la generazione per i quali il senso della realtà si trasforma, dice Bonhoeffer, «in una metafisica della realtà».

La differenza fra le generazioni, questo è il punto che ancora oggi continua a provocarci, non si misura in termini anagrafici, ma in termini di maturazione spirituale; detto in altre parole il campo in cui si sperimenta la frattura generazionale non è tanto il tratto sociologico, quanto quello dell'interiorità. Così Bonhoeffer, che vive schiacciato fra due generazioni, si sente sulle spalle da un lato l'eredità dei fratelli maggiori e dall'altro la responsabilità per la generazione dei più giovani, che sono più esposti al fascino del Führerprinzip e alla seduzione che il Führer - che «è infinitamente lontano da colui che è guidato eppure egli è tale soltanto come eletto da coloro che sono guidati, come colui che è scaturito da in mezzo a loro» - esercita degenerando in Verführer, in seduttore.

Il solco fra le generazioni diventa dunque il solco fra due atteggiamenti di fronte alla politica - che è sempre espressione di una Weltanschauung interiore - e di fronte al rischio di una sua corruzione: «L'indicazione irrefutabile di questa inevitabilità dell'essere singolo dell'uomo sta nel fatto che egli deve morire solo, che deve portare come singolo il proprio corpo, la propria sofferenza e la propria colpa. Soltanto al cospetto di Dio l'uomo diventa ciò che egli è, libero e responsabilmente legato nello stesso tempo: diventa un singolo. E questo singolo si sa ora inserito in mezzo ad altri singoli, si sa legato ad essi, si sa in comunione. Comunione tra singoli, nessuna fusione dei confini dell'io e del tu, rigorosissima separazione e perciò massima responsabilità reciproca, e perciò soltanto qui, dove l'uomo diventa un singolo al cospetto di Dio, comunione, comunione della sofferenza, della colpa, della morte e della vita». […]


A. Conci, in Rocca 9/2025, 42-45