In un dialogo con André Breton, che gli chiedeva «Cos’è il tuo atelier?», lo scultore Alberto Giacometti rispose: «Sono due piccoli piedi che camminano». Il dialogo in verità si era svolto in un clima totalmente surrealista, dato che le risposte venivano date senza conoscere le domande. Ma la definizione non poteva essere più perfetta. Cosa contraddistingue infatti le sue sculture? La potenza e la bellezza dei piedi, che tengono ferme al suolo, a volte protese nel movimento e nello sforzo, le sue figure filiformi. La singolare conversazione è ricordata da Sylvie Germain, scrittrice e filosofa francese allieva di Emmanuel Levinas, nel suo ultimo saggio …un po’ morire, da poco tradotto da Queriniana (pagine 138, euro 13), una delle pochissime case editrici cattoliche - forse l’unica ormai - che ancora tengono alta in Italia la bandiera della teologia. L’avvio del libro spiega subito il titolo, che prende spunto dal detto 'partire è un po’ morire'.
Ma partire verso dove? E cosa vuol dire 'un po’ morire'? Interrogativi cui Germain, con penna ora delicata ora sferzante, risponde attraverso suggestioni e slanci spirituali che cercano, senza pretese assolutistiche, di delineare un cammino per l’uomo contemporaneo.
Di qui l’importanza dei piedi. «Innanzitutto - scrive Jacques Lacarrière in Chemin faisant (Strada facendo), citato dall’autrice -, canterò i piedi». Quei piedi che gli hanno fatto intraprendere un cammino fra i campi della Francia. E che hanno fatto dire a un altro scrittore, notissimo in Italia e amato Oltralpe, Erri De Luca: «Oggi so che il viaggio è una parola nobile e si riferisce solo a chi lo fa a piedi. Viaggio è cammino senza biglietteria e data di ritorno. Viaggiano i migratori che traversano a piedi Africa e Asia, per togliersi il bagaglio dalle spalle in faccia al Mediterraneo (…). Gesù si spostava a piedi. Salì sopra la nobile cavalcatura dell’asina solo per consegnarsi all’ultima stazione».
Allo stesso modo, Sylvie Germain rammenta che i profeti sono innanzitutto dei camminatori e che Cristo stesso ha camminato moltissimo, incontrando uomini e popoli, accettando con gioia l’ospitalità oppure scuotendo la polvere sotto i suoi piedi se veniva negata a lui e ai suoi discepoli. Una volta, come racconta il Vangelo di Luca, una donna peccatrice glieli lavò e unse con olio profumato in segno di rispetto e venerazione. Ma i piedi di Gesù sono anche quelli raffigurati da Mantegna nel quadro di Brera. Il Cristo morto, dal colore grigioverde, livido e coi segni della sofferenza inaudita, ha i piedi in primo piano.
«I piedi - sottolinea Germain - sporgono dalla pietra su cui giace, i talloni sono nel vuoto. Sono collocati, un po’ divaricati, nel limite inferiore del dipinto, al centro. Sono dinanzi allo spettatore. Due pezzi di carne esangue di secondo taglio, che recano la traccia di scorticature grossolane, come se fossero appena stati tolti da un gancio da macellaio. Sono questi i piedi di un Dio?».
È un Dio che si è abbassato a tal punto e di cui, come scrive Levinas, possiamo cogliere solo la traccia. L’esistenza di questo Dio diviene per Germain pietra d’inciampo, domanda ineludibile ancor oggi. L’autrice nelle sue pagine disegna una sorta di tipologia della risposta che uomini e donne hanno dato e continuano a dare. Alcuni rigettano la domanda completamente, la considerano priva di interesse, per indifferenza o pigrizia. In secondo luogo, vi sono coloro che non la rifiutano ma la nascondono, ed essa affiora in alcune circostanze dell’esistenza, nelle ore burrascose: «Sono gli indecisi, gli intermittenti della fede».
Una terza reazione va all’assalto della domanda, la ritiene ingannevole, per cui vuole dimostrarne la non pertinenza. Anzi, la combatte in nome della libertà umana, cerca di farne piazza pulita, come Zarathustra di Nietzsche o Ivan Karamazov di Dostoevskij. Poi c’è chi non risolve la questione negativamente, ma con un eccesso di affermazione: emerge allora la concezione di un Dio come comandante in capo, grazie al quale imbracciare una sciabola o un fucile. Oppure semplicemente uno scudo, ma è comunque un tradimento: «Costoro fanno ben peggio che eludere la risposta all’insondabile domanda dell’esistenza di Dio, la fanno marcire, la avvelenano, la pietrificano». Così il Grande Inquisitore (ancora Dostoevskij).
Ma ci sono altre vie, altre forme di risposta. Quella di Giobbe ad esempio, che grida il suo dolore verso Dio, o di Giacobbe che combatte con l’Angelo: sono coloro che «entrano in lotta con il mistero di Dio, ma di un Dio vivente». Di fatto, sono dei testimoni. Altri infine entrano non tanto in lotta, ma in un abbraccio, «in una danza con questo Dio il cui mistero per loro è meraviglia e amore folle».
L’autrice conclude così la descrizione dei modi di avvicinarsi o allontanarsi da Dio, modi «appena abbozzati, che non sono né esaustivi né compartimentali», dato che non si escludono gli uni con gli altri. Come nel bellissimo racconto La lettera rubata di Poe, in cui Dupin, l’amico del protagonista che non riesce a trovare la lettera della regina, svela l’enigma racchiuso nella più evidente semplicità, ugualmente Germain si chiede: «Se il mistero del Dio ignoto fosse anch’esso 'semplice e bizzarro', di una semplicità sconcertante, di una luminosità accecante, di un’evidenza troppo flagrante?». Il Dio che l’autrice racconta in questo volume non è un Dio che sbandiera la sua onnipotenza, ma il Dio che parla al profeta Elia con «voce di silenzio sottile» come recita la Bibbia.
Un Dio che Germain definisce «versatile, o piuttosto mobile, prodigiosamente inventivo e imprevedibile, capace di un capovolgimento a 180° nella sua relazione con gli uomini». Un Dio che si è spogliato della sua gloria e di ogni segno esteriore di potenza, «un Dio che è un Passante che visita ogni uomo; lo si accoglie oppure no. Un Passante che si presenta all’improvviso, vestito non di porpora e ori, bensì di vento e di polvere». Rifacendosi a Simone Weil e René Girard, al suo maestro Levinas e a Françoise Dolto, il saggio di Sylvie Germain regala al lettore immense occasioni di meditazione, dal male nel mondo alla Shekinà, che nella letteratura giudaica indica la presenza diffusa di Dio nell’universo. Per offrirci la possibilità di un cristianesimo che non dimentica mai l’amore verso il prossimo, nemico compreso.
Nella via della misericordia: «Il perdono - scrive ancora Germain - alleggerisce il desiderio, distorto dall’offesa subita, dal peso del rancore, dall’ossessione di riparazione, di castigo. Dà scacco alla violenza, alla contaminazione dell’odio. (…) Non c’è una sola oncia di narcisismo in questo comandamento nuovo proclamato da Gesù».
R. Righetto, in
Avvenire 21 agosto 2019